70 anni di emigrazione italiana in Svezia

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STOCCOLMA – “Settanta anni fa arrivava in Svezia il primo scaglione di operai specializzati, ceduti in prestito dall’Italia all’industria per due anni e reclutati da una commissione inviata nel nostro paese dal governo svedese. Chi erano questi giovani? Come vennero accolti nel paese all’estremo nord dell’Europa, che veniva descritto come un paradiso in terra? Angelo Tajani, scrittore e giornalista italiano residente in Svezia da circa sei decenni, ha intervistato alcuni superstiti che risiedono ancora in Svezia”. A scriverne è Silvio Astanti nel nuovo numero de “Il lavoratore”, mensile della Fais diretto a Stoccolma da Valerio De Paolis.

“Visitando i Club Italiani sparsi in tutto il paese, ha raccolto alcune testimonianze in cui questi esuli raccontano le loro esperienze e le delusioni. La comunità italiana in Svezia, dove la cultura multi etnica è da diversi decenni una realtà, la componente straniera rappresenta più del 25% degli abitanti, è una delle più esigue.
Gli immigrati italiani godevano di grande popolarità, erano rispettati e benvoluti dalla popolazione autoctona, che non ha dimenticato l’apporto allo sviluppo industriale del paese dato da questi operai specializzati che arrivarono nell’immediato dopoguerra. Essi erano stati reclutati dalla Fiat, dalla Ansaldo, e dai cantieri di La Spezia, Taranto e Monfalcone, lasciando un paese ancora provato dagli orrori della guerra che molti di loro avevano combattuto sia nell’esercito regolare sia da partigiani. Venivano reclutati per consentire all’industria svedese di produrre.

La Svezia, che durante l’ultimo conflitto mondiale era stata neutrale, era uno dei pochi paesi europei ad avere industrie in piena efficienza. Dalle storie di questi operai specializzati italiani, traspare la gran voglia che avevano di lavorare quando accettarono le proposte della commissione svedese di reclutamento di manodopera, sperando di poter guadagnare in poco tempo un bel gruzzolo per poi rientrare in patria.
Per molti la Svezia non si rivelò quel paradiso agognato: i salari, al momento del reclutamento, sulla carta, erano allettanti, ma essi dovettero ben presto constatare che le tasse e l’alto costo della vita non consentivano di risparmiare molto. Gli italiani che arrivarono in Svezia nel 1947-1948 erano stati reclutati in base ad un accordo bilaterale tra i due governi. Nell’accordo agli italiani veniva assicurato il medesimo trattamento salariale riservato agli operai svedesi oltre all’alloggio e al vitto, confezionato con materie prime importate e da cuochi fatti espressamente arrivare dall’Italia.

Ma il malcontento cominciò a serpeggiare già qualche settimana dopo l’arrivo: gli alloggi erano baracche, come quelle usate per ospitare i prigionieri di guerra, e i “lauti salari”, si rivelarono inadeguati a causa delle tasse che li riducevano sensibilmente.
In queste condizioni all’italiano, che aveva lasciato la famiglia in patria, rimaneva ben poco da mandare a casa per il sostentamento. Si verificarono subito proteste, persino uno sciopero selvaggio, inaudito in un paese ove tra il sindacato e i datori di lavoro vigevano intese che consentivano quella pace sul mercato del lavoro di cui gli svedesi andavano fieri. Le proteste degli italiani suscitarono preoccupazioni e le acque si calmarono soltanto dopo che da parte dei datori di lavoro fu accettato un aumento salariale del cottimo e quando le autorità consentirono alle mogli di raggiungere i mariti in Svezia, ove iniziarono subito a lavorare. Con due salari le cose per gli italiani andarono molto meglio”.

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