Giro: Un Piano Marshall per l`Africa: eppur l`idea italiana si muove (Avvenire)

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Un “Piano Marshall” per l’Africa, ovvero una visione geopolitica nel continente per investire e battere la miseria atavica. Quante volte è stato annunciato? Già fine degli anni 80 del Novecento, ad esempio, Margaret Thatcher utilizzò la carta di un “Piano Marshall” per convincere il governo di Frederik de Klerk a rompere con la politica dell’apartheid in Sud Africa e a liberare Nelson Mandela. In tempi più recenti potremmo ricordare il G8 del 2005 in Scozia, quando Tony Blair presentò un progetto di prestiti agevolati per sostenere lo sviluppo economico dell’Africa, che comprendeva anche la cancellazione del debito estero. Tali progetti si aggiungono ad altri “piani” per combattere fame e povertà. Nel 2015 l’ex ministro francese Jean-Louis Borloo ha presentato un “Piano Marshall” per ampliare la rete elettrica in tutto il grande continente. Anche Nicolas Sarkozy in piena campagna elettorale promise – in caso di vittoria – di porre l’Africa tra le priorità della politica estera francese, proponendo appunto un «Piano Marshall per lo sviluppo».

Alcuni  di tali piani hanno funzionato, portando a risultati concreti, senza tuttavia risolvere il problema principale: quello di connettere assieme lo sviluppo dell’Europa e dell’Africa. Oggi la questione che ci tocca maggiormente in Europa sono i flussi migratori, per cui si parla nuovamente di “Piano Marshall” per cercare di porre fine a questa crisi. I flussi migratori impongono di riposizionare al centro del dibattito europeo il problema dello sviluppo congiunto. La sognata Eurafrica di Leopold Sedar Senghor potrebbe nascere da questa crisi. E il ruolo maggiore – va detto – è stato e potrà essere italiano. Riavvolgiamo il nastro. A maggio 2016 il governo Renzi propone a Bruxelles una strategia di investimenti che affianchino l’aiuto pubblico allo sviluppo. È il Migration Compact. In parole semplici: solo in partenariato con i Paesi africani riusciremo a ottenere risultati reali. Per trattare con loro la questione dei flussi, abbiamo bisogno di una forte magnitudine di investimenti. La cooperazione da sola non ce la fa, anche perché le rimesse degli immigrati la superano del doppio. È dunque il momento per un “piano Marshall”: investimenti mirati, non solo doni, per creare lavoro in terra africana e far contemporaneamente lavorare le imprese europee. Il denaro c’è: sta nella Bei, la Banca europea degli investimenti. Occorre darle mandato per operare fuori Europa. Si calcola che servano tra i 30 e i 40 miliardi. L’obiettivo è: creare sia lavoro sia un ambiente adatto per la nascita di piccole e medie imprese africane.

Il “Mc” provoca subito divergenze: c’è chi pensa che non si possano mescolare due terni (cooperazione e migrazioni); c’è chi non è interessato. L’Italia preme, e ottiene sostegno. Ma siccome a Bruxelles nulla è semplice, il “Mc” viene diviso in due: subito la parte di capacity (sicurezza e frontiere) che sarà collegata al Trust Fund di La Valletta già esistente (il sottodimensionato parallelo africano dell’accordo con la Turchia). Il grande strumento finanziario (investimenti) viene invece purtroppo rimandato. E così il risultato che esce dal Consiglio europeo è il Migration Framework, che inevitabilmente non è ancora dotato della potenza necessaria. La cosa comunque positiva è che l’Italia sia riuscita a mettere la questione al centro dell’agenda europea. Da quel momento iniziano numerose missioni – a seguito di quelle italiane, già svolte

dall’ allora premier Renzi e dai ministri Calenda e Gentiloni. Vanno in Africa commissari Ue,  ministri francesi e tedeschi, e alla fine anche la Cancelliera Merkel. Iniziano i mini-Compact, accordi bilaterali con Paesi di transito (come il Niger) o di origine (come la Nigeria). Ma mentre attende la nascita dello strumento finanziario e preme per esso, l’Italia decide quattro cose: far aumentare comunque subito i fondi del Trust Fund La Valletta (per portarli a oltre 2 miliardi, avvicinandosi ai 3 del fondo alla Turchia); iniziare da sola con il Fondo Africa (200 milioni aggiuntivi approvati dall’ultima legge di Bilancio); aprire “corridoi umanitari” e iniziare un complesso lavoro per il contenimento dei flussi nei Paesi di origine (Libia inclusa).

Il rifinanziamento del Trust Fund La Valletta si dimostra complicato: ci vogliono mesi per riuscirci. L’apertura dei “corridoi” è un’idea di successo di Sant’Egidio, Chiese Evangeliche e Tavola Valdese fatta propria dal governo e sostenuta sin da principio dalla Chiesa cattolica italiana che, poi, ha deciso di sostenere come Cei la stessa iniziativa a partire dal Corno d’Africa. I “corridoi” sono contraddistinti da viaggi sicuri, sicurezza garantita e nessun costo per lo Stato. Infine il negoziato con i Paesi di origine e transito portato avanti dal governo, e con l’impulso decisivo del ministro dell’Interno Minniti, inizia a produrre accordi di trattenimento. A Bruxelles la discussione sullo strumento finanziario va avanti lentamente: si litiga per il controllo della leva finanziaria, che servirà a moltiplicare le risorse sul mercato e a garantire le perdite, si discute con la Bei. Il negoziato coinvolge varie Direzioni generali della Commissione europea e gli Stati membri. L’Italia non molla e finalmente, nel corso del 2017, una bozza di Eip (External Investment Plan) è pronta. Ma la trattativa ha partorito un dispositivo ancora sbilanciato: corpo grosso e testa piccola (una sola divisione…). Proprio ieri è arrivata l’approvazione definitiva da parte del Parlamento europeo. Alla fine sarà il Consiglio a dare l’ultima parola.

Nel frattempo, come detto, la Cancelliera Merkel si è recata in Africa, come avevano già fatto Renzi e Gentiloni. L’idea comune è mettere in piedi un vero piano di sviluppo con l’apporto del settore privato. Nei mini-Compact sono compresi anche i temi sulla sicurezza, l’antiterrorismo e lo Stato di diritto. Il cuore della nuova politica è orientata a uno sviluppo che non si basi solo sull’aiuto pubblico. La Germania si è convinta che soltanto una politica di investimenti possa funzionare, soprattutto se si vuole davvero alleviare la crisi delle migrazioni. E l’idea che l’Italia ha proposto, e che ora Berlino fa propria, è di connettere la forza d’urto degli investimenti privati a quella dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Una vera crescita economica si può ottenere solo se il settore privato è coinvolto. La lettera che l’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea e cinque capi di Stato e di Governo del G5 Sahel hanno inviato a questo giornale e che il direttore Tarquinio ha pubblicato e commentato domenica scorsa 2 luglio 2017 sono un’altra testimonianza del non facile, non scontato ma indispensabile processo in corso e dell’importanza di ben indirizzarlo.

Come funzionerà, dunque, l’ External Investment Plani? Si tratta di un veicolo grazie al quale 3,3 miliardi di denaro degli aiuti pubblici possono far leva sul mercato finanziario per movimentarne 44. È il solo modo per attrarre i privati laddove non andrebbero spontaneamente, e avere anche garanzie sulle eventuali perdite. Le proposte italiane si sono dunque fatte strada. L’Africa è divenuta una priorità strategica sia per economia e sicurezza, sia per le migrazioni. Su quest’ultimo tema, un vero partenariato potrà venire alla luce per una gestione in comune delle difficoltà e delle opportunità. L’Africa deve essere messa in grado di non perdere la risorsa dei suoi giovani. L’Europa può aiutarla a crescere. Le sfide sono reciproche: entrambi i continenti vogliono sconfiggere disoccupazione, estremismi, terrorismi e rischi connessi al cambiamento climatico e alla povertà. Concludiamo con la cronaca più recente: il G7 di Taormina ha citato nel suo documento finale l’Eip. Ora il G20 lo rilancia a sua volta. C’è da riconoscere al nostro Paese l’audacia di un progetto complessivo, la testardaggine di perseguirlo, il coraggio politico di spingersi in avanti prima degli altri. Come si è visto, moltissimo resta da fare, ma non siamo più all’anno zero.

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