La Mafia che c’è in ognuno di noi

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Il 10 luglio, un gruppo di persone, al momento non note, hanno decapitato la statua di Giovanni Falcone posta dinanzi ad una scuola a lui dedicata nel quartiere dello Zen, a Palermo. L’atto vandalico si è concluso con l’incendio di un cartellone che aveva come immagine proprio il giudice antimafia assassinato nella strage di Capaci il 23 maggio 1992. Questo semplice gesto rivela un messaggio incisivo e profondo.

Rivela il volto di una cultura mafiosa, di una società omertosa che non denuncia, che non si espone. Una collettività che vive di simboli ed immagini che significano tutto in un contesto che non permette il dialogo o la riflessione. Obbedire a determinate regole, alla “famiglia” diviene l’unico strumento di legalità e sopravvivenza in una cultura dove non è facile opporsi. Perché, dopo tutti questi anni dalle stragi di mafia degli anni 90, i passi avanti fatti nella lotta alla mentalità criminosa, vengono smentiti da questi episodi? Come è possibile che si sta regredendo nella battaglia per la libertà? Potrebbe essere un gesto per attirare l’attenzione dei clan oppure un semplice sfregio alla memoria di un uomo che ha combattuto un fenomeno divenuto sinonimo di morte, ma che si è ritrovato drammaticamente solo.

Forse si tratta di un segnale per rivendicare la presenza ancora preponderante della mafia e della criminalità malavitosa, di coloro che si ergono ad amministratori del territorio e di tutto ciò che ne comprende, fino alla politica stessa. Si agisce in semplici modi, un appalto, una mazzetta, un’intimidazione, gesti semplici che fanno parte di quella che è divenuta consuetudine. A volte ricorrere a questi stratagemmi permette di sveltire la burocrazia percepita come un intralcio, a volte queste scorciatoie vengono prese anche da chi non è necessariamente colluso con questo mondo.  La Mafia ci ha insegnato che la legge va aggirata, che l’onore va rispettato in qualunque modo e che le istituzioni non sempre garantiscono la legalità. Ebbene sì la Mafia ci ha insegnato che può infiltrarsi in ognuno di noi senza lasciare tracce, strisciando nei meandri della nostra moralità, distruggendo pezzo dopo pezzo ciò che vuol dire la legalità. Pensare che sia solo un fenomeno circoscritto alla regione Sicilia è tremendamente riduttivo, non è una realtà lontana da noi. Essere mafiosi non vuol dire solo compiere omicidi ma significa ignorare la legge, credere che non ci sia uno Stato che si occupa della quotidianità, pensare che essa possa essere l’unica risposta ai problemi della gente.

La preoccupazione verso il futuro spinge molti a ricorrere a l’unica realtà che in quei contesti è la sola certezza.  Spezzare la catena della legalità pubblica, del senso civico, del rispetto delle istituzioni porta la popolazione a compiere atti apparentemente semplici ma di grande importanza. Buttare un mozzicone di sigaretta, superare il limite di velocità, essere i “furbetti del cartellino”, lavorare in nero, sono solo alcuni dei comportamenti che possiamo assumere tutti i giorni e per i quali, senza rendercene conto, commettiamo degli illeciti. Violare queste semplici regole di condotta è un assaggio di quello che vuol dire adottare una mentalità “criminosa”, un modo di pensare tipico di queste realtà difficili dove la presenza dello Stato è sempre stata avvertita come lontana. La legge è stata posta per essere rispettata, per permettere alla popolazione di vivere in armonia grazie a regole certe che ne assicurano l’andamento. Attuare questi piccoli atteggiamenti è espressione della sfiducia in un sistema, che seppur con qualche difetto, ci permette di essere quello che si definisce un “Paese civile”.  Ecco cosa ci ha insegnato la Mafia: che può essere in ognuno di noi anche se in piccole dosi.

Sara Carullo

Laureata in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Urbino

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