Maschio, adulto e senza lavoro: il ritratto italiano della disoccupazione a lungo termine

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I numeri sono impietosi: la categoria dei disoccupati da più di 12 mesi resta uguale ai livelli pre-crisi. Cambia però il suo profilo sociale: è al nord, nelle terre della piccola industria, dove l’edilizia non va più

La disoccupazione non sta scendendo. Sembra che, nonostante il (debole) periodo di ripresa, che dura da almeno tre anni, le cose non siano migliorate. Anzi: secondo gli ultimi dati noti, a maggio era a quota ’11,3%. In leggera crescita rispetto al mese precedente.

È un dato di fatto: se confrontato ai tempi della crisi, la disoccupazione è tra gli indicatori che hanno conosciuto meno miglioramenti. E le ragioni sono diverse. Si va dai tentativi di aumentare la produttività impiegando gli stessi dipendenti, al calo del numero degli inattivi – la terminologia non confonda: significa che più persone scelgono di diventare attive nella ricerca del lavoro e di conseguenza si iscrivono nel registro dei disoccupati. Influisce anche il fatto che gran parte degli occupati in più sono anziani che spopolano le file dei pensionati (quindi degli inattivi) e non di coloro che ricercano un lavoro.

E tuttavia, anche se tutto questo era previsto e prevedibile, perlomeno in un Paese come l’Italia, con un numero innaturalmente alto di non attivi, c’è un particolare che colpisce. Più qualitativo che quantitativo (anche se, come è ovvio, anche questo viene ricavato dallo studio delle statistiche), riguarda la proporzione, rispetto al totale, dei disoccupati di lungo periodo, cioè più di 12 mesi. Ebbene, sono in crescita. Lo si vede bene. La disoccupazione di breve periodo, alla fine del 2016, era vicina ai valori di fine anni ‘90, dopo che era raddoppiata tra il 2007 e il 2014. Quella di lungo periodo, invece, era cresciuta di più e ora è regredita molto poco, rimanendo in modo più visibile più alta di quella del 1998-99, anni appunto con una percentuale simile a oggi.

E così l’incidenza del tasso di disoccupazione di lungo periodo (cioè quanti tra coloro che cercano lavoro da un anno) è stabilmente sopra il 50%. Rispetto al picco del 2014 del 61,5% siamo scesi solo al 58,4%.

Si tratta a quanto pare di un cambiamento strutturale. Anche nei periodi di maggiore dinamismo dell’occupazione, a metà degli anni 2000, fino al 2008, non si era scesi moltissimo rispetto agli anni precedenti in cui, nonostante l’alta disoccupazione totale, vicino alle cifre di oggi, coloro che rimanevano senza lavoro più di un anno erano meno della metà del 50% del totale.

Basti pensare che nel primo anno di questa serie, il 1995, il tasso di disoccupazione totale era dell’11,2%, molto simile a quello attuale, ma tra questi solo il 43,9% era a spasso da più di 12 mesi rispetto al 58,4% di oggi.

È, di fatto, un segnale di maggiore disuguaglianza, soprattutto in un periodo in cui si intravedono miglioramenti nel mondo del lavoro. Significa che a trovare impiego non sono quelle persone o quelle categorie che più hanno sofferto la crisi economica, ma sono altri, cioè giovani specializzati e anziani che non vanno in pensione rimanendo al lavoro.

E del resto lo si vede nelle statistiche periodiche sull’occupazione: in questi ultimi anni le uniche classi di età con variazioni positive sono state quelle degli over 55 e ultimamente anche quella dei 18-24enni, mentre la fasce di mezzo hanno sofferto di più. Non è difficile immaginare che sia proprio tra coloro che ricadano i disoccupati di lungo periodo.

Grandi anche le differenze geografiche. Rispetto a 20 anni fa, quando – nel 1996 – la disoccupazione totale era simile a oggi, l’incidenza della disoccupazione di lunga durata è cresciuta in particolare nelle regioni più industriali, Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, così come è avvenuto tra il 2007 e oggi, durante la crisi. Oltre che in Campania, probabilmente la regione che più ha sofferto la crisi economica anche per tristi ragioni endogene che conosciamo.

E come già emerso altre volte, anche qui si conferma una differenza tra i sessi. I nuovi disoccupati di lungo periodo sono in maggioranza uomini. Risentono della crisi dei settori in cui vengono impiegati di più, cioè dell’industria e dell’edilizia, e negli ultimi anni risultano anche meno istruiti delle donne. Accade dal 2007, in particolare nelle Marche, in Friuli, in Veneto: cioè nella terra della piccola e media industria.

Siamo, insomma, sempre più un Paese attraversato da invisibili muri, in cui le barriere dell’età o dell’istruzione creano mondi differenti. Da un lato una minoranza dinamica, istruita, specializzata, che interpreta la flessibilità a proprio favore, passando da un posto di lavoro ad un altro – e potendo anche scegliere. Dall’altro lato, invece, ci sono coloro che, tagliati fuori dalla crisi, non riescono a rientrare perché per loro il mondo è cambiato. Forse per sempre.

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