Olivier Roy: “Macron? È molto più simile ai 5 Stelle che al PD”

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Il politologo francese, autore del libro Generazione Isis (Feltrinelli), invita a non avere troppa paura dei populismi — già superati dalla storia, dice — e identifica nei loro discorsi molte somiglianze con quelli islamisti radicali: dalla santificazione del “noi” alla paura dell’altro da sé

di Andrea Coccia

Quando quasi due anni fa, nel novembre del 2015, Internazionale tradusse e pubblicò, prima sul cartaceo poi anche online, l’articolo che Olivier Roy aveva scritto per Le Monde intitolato “Quella dei jihadisti è una rivolta generazionale e nichilista”, l’impressione fu di leggere finalmente qualcuno che osservava la realtà cercando di capirla sul serio e non si limitava a cavalcare istericamente la paura.

La tesi di Roy, professore di Scienze Politiche ed esperto del mondo mediorientale, era esattamente la chiave di lettura che mancava per capire sul serio come una moltitudine atomizzata di giovani nati in Occidente, cresciuti in Occidente e frequentarori di bar e postriboli più che di moschee — almeno fino agli ultimi giorni della loro vita — potessero decidere di diventare terroristi disposti a tutto per portare violenza e morte nelle loro città.

Insomma, quel fantasma che si aggira per l’Europa con le sembianze di un Jihadi Joe non viene da nessun paese straniero, nasce qui, intorno a noi, nei troppi vuoti che le nostre comunità ormai frante e sfilacciate lasciano, vuoti di valori, spazi abbandonati al nichilismo e all’emarginazione che diventano ricettacoli perfetti, terreno di coltura ideale per il virus del terrorismo.

Due anni dopo quelle ricerche — e intanto che ancora gira l’Europa per parlarne —, il professor Roy si sta interessando anche a un altro fenomeno, a un altro discorso che sta uscendo dai sotterranei della nostra società e, da ormai molti mesi, ci sta sventolando in faccia con la forma della zazzera arancione di Donald Trump. È il populismo, un discorso apparentemente opposto a quello che porta giovani emarginati delle banlieue europee a farsi ammazzare in nome di Allah, ma che, come l’islamismo, si sta concretizzando come un’ombra inquietante sulla vita democratica occidentale.

Ma quanto c’è di simile tra i due discorsi? Quanto dobbiamo avere paura di questo strisciante orgoglio whitetrash? Quanto è concreto il pericolo che il populismo diventi sul serio bieco nazionalismo fascista? Di questo ho chiacchierato per quasi un’ora proprio con il professor Roy dopo la sua partecipazione all’edizione 2017 del Festivaletteratura di Mantova, seduti nei sedili posteriori di una macchina del Festival che lo riportava a Reggio sotto un diluvio tropicale.

«Io non credo proprio che avremo qualcosa da temere dal populismo». Mi tranquillizza subito, appena capisce la direzione verso la quale voglio portare la nostra chiacchierata. «E, per fortuna, non sono dei partiti veramente fascisti», aggiunge bonariamente, mentre fuori dall’auto la pioggia riduce la visibilità a pochi metri.

Come mai è così sicuro che movimenti come il FN o l’Ukip non siano partiti fascisti?
Prima di tutto perché non sono nemmeno dei partiti. Prendi proprio il Front National, è più simile a una corte che a un partito. C’è Marine Le Pen al centro, e poi tutti intorno come dei vassalli. E poi sono espressioni politiche che non strutturano per niente la società, non come il partito fascista quantomeno, che aveva una ideologia stretta e coerente e determinava moltissimo la società. E questo è un dettaglio abbastanza decisivo che mi fa pensare che non siano in grado di governare, anche se vincessero le elezioni.

Cosa c’è di simile tra il discorso populista e quello islamista?
C’è un territorio in comune ed è la santificazione della propria comunità, un concetto che hanno entrambi: il popolo da una parte, la umma, la comunità dei fedeli, dall’altra. Ma non le somiglianze non si fermano qui. Un’altra cosa che hanno in comune è il discorso pessimista: si credono entrambi gli ultimi difensori di qualcosa: l'”identità nazionale” per i populisti e l'”islam puro” per gli islamisti. Entrambi sono millenaristi, dopo di loro credono che ci sarà il diluvio.

A proposito di populismi, da osservatore esterno, da francese, come giudica il Movimento 5 Stelle? Se non sbaglio voi non avete nulla di simile…
Sì, è vero, non ce l’abbiamo. Come non esiste un movimento di persone apertamente contrarie alle vaccinazioni o che crede nelle scie chimiche. Noi su internet abbiamo la cosiddetta fasciosfera, ma non questo tipo di movimento. Cosa ne penso del Movimento 5 Stelle? Non so bene, è complicato. Un amico italiano una volta mi ha detto che almeno grazie ai 5 Stelle abbiamo meno possibilità che emerga un partito fascista, ma non mi ha convinto. Una cosa che noto — anche se non sono il primo, quantomeno in Francia — è che a mio parere c’è una grande somiglianza tra i 5 Stelle e Macron.

Sì? In cosa esattamente?
Prima di tutto entrambi sono movimenti che, seppur con stili molto diversi, affondano le radici in basso, soprattutto nella classe media. Su questo argomento abbiamo appena fatto un’inchiesta sui deputati espressi dal partito di Macron e il risultato è stato che sono molto simili a livello sociologico a quelli del movimento 5 Stelle.

Chi sono?
Non provengono veramente dalle classi dirigenti, sono piuttosto dei quadri, e sono abbastanza moderni, tecnologizzati, al passo con i tempi. Sembrano più una società che un partito e hanno come mantra quello di voler fare politica in un altro modo, esprimendo la superiorità della tecnica sull’ideologia. E poi entrambi hanno il baricentro in un leader carismatico. Certo, Macron non è Grillo, ma la mette sullo stesso piano. Poi, una volta al potere, entrambi risultano incapaci di agire. L’unica differenza è che Macron non mira a minare le strutture dello Stato, mentre Grillo fa la guerra alle strutture statali.

Questo probabilmente avremo modo di vederlo presto, crede che possano vincere le elezioni qui in Italia?
Sì. Io credo che vinceranno, soprattutto perché attorno hanno il vuoto totale. In Italia l’ultima espressione della classe politica è veramente disastrosa. Anche a confrontarla con quella della Prima Repubblica, di gente come Craxi e Andreotti, al netto della corruzione e di tutto il resto almeno loro avevano una concezione dello Stato.

E Renzi?
Renzi non lo capisco proprio. Non capisco la sua strategia: non se ne va quando perde e, restando, fa fuori tutti quelli che non si sono allineati a lui.

E l’estrema sinistra? In Francia avete avuto un bell’exploit di Melachon…
Sì, effettivamente è stato un risultato molto buono. E se pensi che sommando i voti di Hamon e quelli di Melanchon avresti avuto il primo partito la cosa deve far riflettere: il cosiddetto “popolo della sinistra” esiste ancora e rischia anche di essere maggioritari se trova i modo di federarsi e di evolvere. Ma il problema è che Melachon è fuori dal mondo, mentre Hamon è debole.

Crede che dovremmo aspettarci qualche cosa provenire da quell’area?
Mah, difficile a dirsi. Hamon alla fine ha fatto la figura del delfino di Hollande, con tutto ciò che ne consegue. Mentre Melanchon, che ancora conta molto sulla struttura del partito comunista, è convinto di aver vinto, ma alla fine perderà. Ora, possiamo pensare quel che vogliamo del partito comunista, ma se Melanchon è arrivato a quei numeri significa che la struttura e l’appiglio dentro la società ce l’ha ancora. D’altronde è importante essere strutturati all’interno della società, avere sezioni in ogni paese, in ogni quartiere. Ma ormai la politica si è dimenticata della società e lo si vede dal fatto che nei paesi, nelle piccole realtà di provincia, i distaccamenti e le sezioni di partito non ci sono più, aprono solo tre mesi prima del voto e chiudono subito dopo. Così non funziona.

Come siamo arrivati a questo scenario?
Negli anni Sessanta e Settanta funzionava che la sinistra aveva più o meno il controllo della cultura — scrittori, artisti, giornalisti, intellettuali erano per la maggior parte di sinistra — mentre la destra aveva il potere.

E poi cos’è successo?
È successo che la sinistra ha voluto prendere il potere e, quando l’ha preso, dopo pochi mesi tutti i militanti sono entrati nella struttura statale: nuovi deputati avevano bisogno di nuovi assistenti, presi dalla base del partito e portati a Parigi, o al limite lasciati nei paesi come rappresentanti. A quel punto — e l’ho capito dai miei alunni, all’epoca ero prof di liceo —, entrati nell’establishment si sono scontrati contro la struttura del potere, che, in Francia come in Italia, è sostanzialmente monarchica, anche se ormai siamo entrambi due repubbliche.

Sono entrati a Versailles e gli è piaciuto? 
Sì, esattamente. Negli anni successivi sono poi lentamente scivolati verso il liberismo. Non tutti, ma moltissimi. E quelli che tornavano, come i miei allievi, tornavano disgustati e smettevano di essere militanti. Si sono messi a lavorare, hanno aperto le loro attività, fatto i soldi e comprato un appartamento a Parigi. È così che è finita, perché la corsa ai soldi ha distrutto tutto. Non abbiamo saputo creare dei nuovi valori, né mantenere quelli vecchi.

Insomma, l’uomo nuovo che si attendeva negli anni Sessanta non è mai arrivato?
Esatto, e mentre lo aspettavamo ci è morto davanti quello vecchio.

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