Perché non lascio correre, non faccio finta di niente?

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Se critico qualche discorso pronunciato da Papa Francesco, sono certo di non diventargli antipatico, sia perché è davvero difficile che Papa Francesco legga ciò che scrivo io, sia perché non è possibile che il Papa prenda in antipatia tutti coloro che gli muovono critiche. Non è il tipo. Se faccio critiche a qualche discorso che leggo sul blog “Come Gesù”, divento antipatico all’autore del discorso, nonché a tutti quelli che lo approvano entusiasti. E così mi chiedo: chi me lo fa fare? Perché non lascio correre, non faccio finta di niente? In fondo che m’importa? Il messaggio sbagliato non arriva a mezzo mondo, non inganna mezzo mondo, ma inganna solo qualche ingenuo frequentatore del blog.

Che importanza ha? E che m’importa se lo stesso autore del discorso inconsapevolmente inganna se stesso? Niente m’importa, ma non resisto alla tentazione. Dovrei non leggere, e infatti non sempre leggo, ma alle volte un titolo m’incuriosisce, mi attira, leggo, costato che qualcosa non va, e non resisto: devo dire ciò che penso. Brutto vizio, maledetto vizio! E dire che lo stesso autore del pezzo, già una volta mi ha invitato a lasciar correre, a non curarmi di lui. E va bene sarà per la prossima volta. Non leggerò più anche se vedrò un titolo intrigantissimo. Eccolo il titolo: «Imparare l’arte del Kintsugi». E le prime righe: «Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, trasformano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Lo riparano valorizzandolo. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia alle spalle può diventare più bello. Per farlo usano una tecnica tramandata da millenni, chiamata “Kintsugi”. Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente». Come resistere? E racconta anche una bella storia, l’autore, di una ferita che lo aveva afflitto sin da ragazzo, una sorta di depressione, se ho ben capito, una crepa che si è trasformata in oro, come le crepe dei vasi giapponesi.

Candida Morvillo, su “Io Donna” (Corriere della Sera) del 10 settembre 2016, scriveva:  “Ho aperto a caso una pagina del libriccino delle istruzioni e c’era scritto che per noi occidentali, spesso, la rottura di qualcosa ha un’accezione negativa: dolore, vergogna, senso di colpa, fallimento. Per i giapponesi, invece, ogni storia anche brutta può originare bellezza e ogni cicatrice va mostrata con orgoglio. È il senso del Kinstugi: riparare i cocci con l’oro e l’argento significa rendere la cicatrice la parte più bella di quell’oggetto”.

E Roselina Salemi su La Stampa del 1 febbraio 2017: “Più difficile valorizzare e/o riparare le cicatrici che la vita ci lascia. Di solito ce ne vergogniamo, sostiene Barbara Lalle, romana, terapista per la riabilitazione neurologica post-traumatica, mentre «dovremmo farne il segno della nostra unicità, della nostra forza». Così ha trasformato il kintsugi in performance (al Museo Stadio di Domiziano lo scorso 19 Dicembre). «Pensate ancora che le vostre ferite vadano nascoste? – chiede la psicologa Sonia De Leonardis -. In fondo i guerrieri si vantavano delle loro cicatrici…»”.

Tutto molto bello. Ma diamo uno sguardo all’altra faccia della medaglia? L’autore della bella storia, conclude così: “La vita che ci è data deve essere vissuta in ogni istante fino alla fine naturale”. Non parla della sua vita. Parla della vita di tutti. Tutti devono vivere necessariamente fino alla fine naturale. Si dà il caso, però, che il vaso alle volte sia fatto di materiale scadente, materiale che può sbriciolarsi, sminuzzarsi, polverizzarsi.  Esistono ferite che non lasciano cicatrici, ferite che diventano piaghe purulente, dolorose, inguaribili, che trasformano la vita in un inferno. Una cosa è la depressione, altra cosa sono alcune malattie gravissime e incurabili. Non tutti i vasi hanno la fortuna d’avere crepe riempibili con resina di lacca e polvere d’oro.

Ma che cos’altro non va nell’articolo dal titolo intrigante? L’autore, con un pizzico di cristiana cattiveria, descrive un’infermiera che pratica l’eutanasia in una clinica svizzera, come se si trattasse di un boia: “Una donna minuta, scavata, dallo sguardo impassibile e dal naso aquilino, accento svizzero-tedesco un po’ gutturale, come nei film… Fa impressione vedere sullo schermo Tv la sua calma imperturbabile, la sua parlata lenta e serena mentre si appresta ad uccidere una persona”.

Il verbo “uccidere” significa togliere la vita, di norma con mezzi violenti, a chi non vuole assolutamente che la vita gli venga tolta.

Altro? Sì. L’autore scrive: “Fino alla fine naturale”. E quale sarebbe la fine naturale, il tramonto naturale, come dicono gli uomini della Chiesa? Nessuno lo sa. Forse lo sa Dio. Il fatto è, però, che il tramonto naturale è variabile più del tramonto del sole. Forse Dio col tempo cambia idea.  La lunghezza della vita muta, infatti, secondo l’epoca in cui si nasce. Mentre, però, non siamo in grado di differire o anticipare il tramonto del sole, siamo in grado di differire o anticipare il nostro tramonto, in tal modo non più naturale. Vaccini e antibiotici, ad esempio, hanno differito il nostro tramonto, e possiamo anticiparla, la nostra fine, non curando la nostra salute, nutrendoci male, oppure, come hanno fatto alcuni santi, digiunando e procurandoci patimenti.

Che dite? Sarò riuscito a diventare antipatico?

Renato Pierri

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