Dopo l’URSS: il “potere ibrido” e la forza di Putin

Mondo

Di

Paolo Calzini

Il corso della storia che va dalla rivoluzione del 1917 ai giorni nostri vede la Russia, percorsa in piu occasioni da eventi cruciali per il destino del paese, impegnata in un complesso e contradditorio processo di modernizzazione. Un processo, ispirato all ideologia comunista, definitivamente rimosso solo nella fase postsovietica, dettato dall’esigenza di uscire dallo stato di relativa arretratezza caratteristico della posizione ricoperta nel continente europeo. A promuovere la linea politica imposta dall’alto figura, secondo una tradizione secolare, un regime centralizzato e gerarchico facente capo – esemplare il caso del ruolo dispotico di Stalin – a un leader dominante. I successivi mutamenti di linea politica con il passaggio dal totalitarismo all’autoritarismo nelle sue diverse manifestazioni, hanno portato nella costante interazione fra regime e società dal succdersi di fasi caratterizzate da intensa pressione politica alternate a pragmatica pratica operativa.

Superata la fase successiva alla rivoluzione la neo costituita Unione Sovietica è impegnata, con i proibitivi costi umani e materiali che la scelta comporta, a una politica di industrializzazione forzata mirata a porre le basi di un economia avanzata. Siamo negli anni trenta, all’apogeo dello stalinismo, cruciali nella formazione del sistema di potere sovietico caratterizzati, su impulso del totalitarismo, da un sistematico ricorso ella coercizione, nel perseguimento dell’obbiettivo stabilito. Il regime fondato sul partito stato subordinato a Stalin il leader unico al comando, che ne decreta la violenta epurazione, si fa promotore di un processo di mobilitazione di massa della società volto alla realizzazione del progetto di modernizzazione, che va sotto la sigla della “costruzione del socialismo”. Alla riuscita dell’operazione contribuisce, alimentato da una martellante propaganda ufficiale, il patriottismo russo in stretta combinazione con l’ideologia comunista. Un sentimento che si concreterà in un atteggiamento di straordinaria resilienza dell’insieme della società, in quella che si rivelerà con la vittoria nella seconda guerra mondiale la prova indiscutibile della solidità acquisita dall’Unione Sovietica. Il ridotto scorcio temporale che copre gli ultimi oscuri anni dello stalinismo si conclude nel 1953 con la morte di Stalin, mettendo fine alla traumatica esperienza del totalitarismo.

Ha inizio il periodo segnato dall’autoritarismo caratterizzato da un contradditorio e in conclusione fallimentare riassestamento organizzativo delle istituzioni del regime sovietico. Il processo, sotto la guida dal partito stato, confermato nel ruolo d arbitro dell’azione politica, viene gestito in successione da, Khruscev, Bhreznev, Gorbacev, leaders attivi nel quadro della direzione collettiva. Nella nuova piu complessa situazione l’esigenza di assicurarsi nuove basi di legittimità comporta la promozione di una linea d ispirata al pragmatismo, meno condizionata dall’ideologia comunista. In presenza di una società in progressiva evoluzione aspirante alla normalità viene portata avanti n una politica che accompagna alla pratica della coercizione la ricerca del consenso popolare, fondata sul progresso economico sociale del paese. Questa esperienza limitata agli anni sessanta settanta è destinata ad esaurirsi in tempi relativamente brevi sotto il peso delle contraddizioni di un regime incapace di affrontare in un contesto piu avanzato la sfida della modernizzazioneòa. Il corso riformatore, promosso in extremis e gestito con insufficente determinazione da Gorbacev, porta nel 1991 con la delegittimazione del regime all’inatteso collasso dell’Unione Sovietica.

La Russia postsovietica è caratterizzata, pur persistendo nel paese elementi che si richiamano all’esperienza del passato, dalla nascita di un regime di nuovo tipo, profondamente mutato nella fisionomia istituzionale. Il dato fondamentale di discontinuità sul piano politico, costituito dall’eliminazione del partito comunista, si traduce nell’instaurazione di un sistema di potere “ibrido”, in precario equilibrio tra un assetto di governo formalmente democratico e una pratica politica di fatto autoritaria. Ai vertici del regime figura il presidente Putin, confermato ininterottamente dal 2000 a capo del regime, nel ruolo riconosciuto di leader supremo sia nel rapporto con l’elite postcomunista che con la popolazione. Dotato del pieno controllo degli strumenti di potere, il presidente russo è stato in grado, affiancando a una linea di coercizione selettiva una politica di articolato paternalismo, portatrice di ordine, stabilità e relativo benessere, di imporre l’egemonia dello stato sulla società. Le ricorrenti manifestazioni di protesta, espressione di un paese in crescita che va maturando, sono limitate a una minoranza, critica della corruzione dilagante e dei privilegi dell’elite, rivelatasi marginale sul piano operativo. Tradizionalmente ligia alle autorità, la società manifesta di massima consenso a una linea ufficiale tollerante dell’autonomia dei cittadini a livello economico e culturale, ma che pretende in cambio un atteggiamento subordinato alle direttive della politica ufficiale.

In che misura il declino registrato di recente nella crescita economica, alla base in tutti questi anni del consumismo di massa, possa tradursi in instabilità politica a causa delle carenze nel processo di modernizzazione del sistema produttivo e di governo è oggetto di aperto dibattito. L’impressione prevalente è che il regime, a tutt’oggi forte di una propria particolare legittimità, sostenuta tra l’altro da un diffuso sentimento patriottico, sia in grado, perlomeno a breve medio termine, di garantire la continuità delle attuali basi di potere.

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