Il griko: storia di un fenomeno linguistico

Arte, Cultura & Società

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Gli scritti di Rocco Aprile (Calimera, 1929-2014) ci aiutano a comprendere le origini della minoranza linguistica grika nel Salento e la sua evoluzione fino ai giorni nostri.                                  

Il brano che segue è tratto da “Katalisti o kosmo”, Ghetonia, 1996, pp. 9-14.

La lingua grika, che ancora oggi si parla in sette paesi del Salento, risale, con ogni probabilità, al IX-X secolo d.C., quando gli imperatori della dinastia macedone, primo fra tutti Basilio I, riuscirono a riconquistare buona parte dell’Italia meridionale, sottraendola ai longobardi di Benevento e agli arabi e costituendo così la più occidentale delle province dell’impero, il Thema di Longobardìa. Essi non soltanto riconquistarono la Puglia, la Basilicata e la Calabria, ma, per rendere duraturo il loro dominio, provvidero a ripopolare queste regioni che, a causa delle scorrerie degli arabi e degli illiri, delle pestilenze e delle calamità naturali, delle interminabili guerre fra i potentati locali, erano rimaste in gran parte deserte. Pertanto, al seguito delle armate bizantine arrivarono coloni, sacerdoti (papades) con le loro numerose famiglie, mercanti, funzionari addetti all’amministrazione e al prelievo delle tasse, monaci basiliani, che fondarono innumerevoli conventi e luoghi di culto ipogei.

Agli imperatori bizantini stava particolarmente a cuore la fascia mediana della Penisola Salentina, alle cui estremità sorgevano i due porti più attivi e fiorenti dell’epoca, Otranto e Gallipoli, che assicuravano le comunicazioni marittime con La Penisola Balcanica e in particolare con la Grecia. Specialmente Otranto conobbe un periodo di vero e proprio splendore: nel suo porto approdavano le navi cariche di mercanzie, stoffe pregiate, spezie, vasi, ecc. che prendevano le vie dell’Occidente barbarico; a Otranto approdavano colti sacerdoti mandati dal Patriarcato, ricchi mercanti, pellegrini che andavano o tornavano dai luoghi santi, provetti artigiani, nobili e funzionari dell’Impero. Questa città fu così importante che il suo vescovo ricevette il titolo di metropolita, con vasta giurisdizione sui vescovadi e le chiese di culto greco-ortodosso sorte in tutta la Puglia e la Calabria. Un discorso analogo va fatto per Gallipoli (kalh poliV: bella città), di origine classica, decaduta durante il periodo romano, ma risorta a nuova vita proprio nel periodo bizantino.

Proprio per assicurare facili comunicazioni fra i due porti e un retroterra tranquillo, gli imperatori bizantini mandarono nella zona mediana del Salento cospicue comunità di contadini e pastori, che fra il X e l’XI secolo diedero vita a nuovi villaggi e ripopolarono villaggi di origine messapica, che in epoca romana erano quasi completamente scomparsi. Sorse qui la Grecìa Salentina, che, al sopraggiungere dei Normanni, nel secolo XI, era assai più vasta di quanto sia ora. Stando alle testimonianze ecclesiastiche del sec. XVI, le parrocchie, cioé le comunità che parlavano in griko o conservavano ancora il culto orientale, erano almeno una trentina. Il che ci fa pensare che nei secoli XI-XII quasi tutti i paesi del Salento centro-meridionale erano costituiti da popolazione parlante il griko.

I Normanni, che nel 1071 completarono la conquista della Puglia, lasciarono intatti lingua, religione, costumi, mostrarono profondo rispetto nei riguardi del clero greco, finanziarono addirittura la costruzione di chiese e conventi, per primo il convento di Càsole, a breve distanza da Otranto, che diventò uno splendido centro culturale. Ma introdussero il feudalesimo, sconosciuto in epoca bizantina, a Otranto imposero un vescovo latino, favorirono il sorgere di conventi benedettini, lasciarono che la chiesa romana, loro alleata, riprendesse le posizioni perdute nel X secolo. Una politica analoga svolsero gli angioini, di origine francese, e gli aragonesi, di origine spagnola. Così in tutti i paesi del Salento si stabilì una nobiltà di origine straniera e di religione cattolica, avida e prepotente, che sfruttò e mortificò, spesso in modo disumano, i contadini e i pastori, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione.

Fra la classe nobiliare da una parte e la plebe agricolo-pastorale dall’altra, cominciò ad affermarsi nei paesi della Grecìa una categoria nuova, quella degli artigiani (muratori, falegnami, fabbri, sarti, calzolai, ecc.) che ben presto, sia perché erano liberi lavoratori, non soggetti a vincoli feudali, sia perché esercitavano un lavoro più redditizio e meno duro di quello dei campi, costituirono quasi una classe sociale a sé stante, ben differenziata da quella dei contadini. Naturalmente, non possiamo dire se gli artigiani fossero di origine latina o greca; ma essi, anche se greci, dovendo prestare spesso la loro opera ai “signori”, incominciarono ben presto a parlare il dialetto romanzo e a considerare con un certo disprezzo il griko: infatti, fino a tempi assai vicini, in tutti i paesi della Grecìa Salentina, il dialetto era parlato, in linea di massima, dalle persone colte (cioé i nobili), dagli artigiani e dai commercianti, mentre il griko era la lingua dei contadini e dei ceti più umili. Però, siccome la stragrande maggioranza della popolazione si esprimeva in griko, anche i componenti dei ceti più elevati erano costretti a parlare in griko, sia per farsi intendere, sia per non restare emarginati dalla vita della comunità. Addirittura anche i forestieri, dopo alcuni mesi di permanenza nei paesi della Grecìa, erano costretti a imparare la lingua del posto.

Un primo colpo alla lingua grika fu inferto, nel 1480, dai turchi, che non soltanto distrussero Otranto e l’abbazia di Càsole, ma devastarono per oltre un anno i villaggi del Salento, portando via come schiavi i bambini e le donne, uccidendo gli uomini e profanando le chiese, dopo aver portato via gli arredi sacri.

Un altro serio colpo alla lingua grika venne dato, fra il Cinquecento e il Seicento, dalla soppressione del rito greco-ortodosso. Per tanti secoli, il “papàs”, abitando in una casa accanto alla chiesetta, che per proporzioni e altezza non superava mai le case circostanti e che era il punto di ritrovo delle piccole comunità, aveva rappresentato la lingua e la cultura della Grecia lontana. Ma quando al “papàs” subentrò il sacerdote cattolico, la messa fu celebrata in latino e le prediche e le preghiere vennero recitate in una lingua incomprensibile alla stragrande maggioranza dei fedeli.

Incominciò così il lento trapasso dal griko al dialetto romanzo, che nei secoli XVII e XVIII interessò soprattutto i paesi dell’area centro-occidentale del Salento, cioé quelli gravitanti attorno a Gallipoli e Nardò. Alla fine del Settecento la Grecìa Salentina era ormai ristretta alla zona orientale, quella otrantina, e comprendeva ormai tredici paesi, che nel corso dell’Ottocento scesero a nove.

Intanto sopraggiunse l’Unità d’Italia e con essa il rigido accentramento burocratico, il servizio di leva, l’istruzione obbligatoria. I bambini incominciarono a frequentare la scuola, dove i maestri insegnavano ai piccoli a leggere, scrivere e far di conto, naturalmente in italiano, né potevano far diversamente non essendo del posto. Il bambino cominciò così, per la prima volta, a considerare la lingua materna come un ostacolo all’apprendimento, vide di fronte a sé delle persone che ridevano delle parole incomprensibili che inframmezzava nel discorrere, che lo punivano a suon di ceffoni se, scrivendo, lasciava cadere qualche parola in griko, che gli ripetevano ad ogni circostanza che la lingua da lui adoperata era una lingua bastarda, un “greco bastardo”, che bisognava dimenticare. Naturalmente, in tali scuole faceva bella figura chi, sin da bambino, aveva parlato in casa “in italiano”, mentre il figlio del contadino stava lì ad ascoltare un idioma di cui spesso gli sfuggiva persino il senso.

Da allora la persecuzione del griko è continuata ininterrotta, aggravandosi sempre di più a causa delle due guerre mondiali che hanno costretto centinaia di giovani ad abbandonare per anni o per sempre le loro famiglie per servire la Patria (durante la prima guerra mondiale nella sola Calimera 96 uomini perdettero la vita). Nel secondo dopoguerra si aggiunsero l’emigrazione in massa all’estero o nelle grandi città del Nord, l’avvio alla carriera militare, che hanno portato lontano dalla Grecìa migliaia di giovani, che spesso non sono tornati più nei loro paesi d’origine. Ma sono stati soprattutto i mass-media che hanno contribuito e contribuiscono ad allontanare i giovani dalla lingua dei padri.

Oggi la Grecìa Salentina è costituita da sette paesi (Calimera, Martano, Martignano, Castrignano dei greci, Corigliano, Sternatia e Zollino) dove però il griko è parlato solo dalle persone che hanno una certa età (oltre i 50 anni), mentre è inteso da una fascia di persone molto più ampia. Fa eccezione Sternatia dove il griko continua ad essere parlato anche dai giovani e dai ragazzi.

Ma, prima di procedere nel nostro discorso, è opportuno fare qualche considerazione su questa lingua, che è stata trasmessa solo oralmente. Il griko è, rispetto alla lingua greca ufficiale, esattamente come il dialetto leccese rispetto alla lingua italiana, Pertanto, chi sa parlare bene il griko, apprendendolo da piccolo, non trova molte difficoltà ad imparare la lingua greca in pochi mesi. Centinaia di vocaboli, specialmente quelli inerenti alla vita familiare, affettiva, al mondo agricolo-pastorale, sono identici. Altri sono stati alterati, ma è facile ricavare il tema originale. In gran parte uguali sono la grammatica e la sintassi. La difficoltà maggiore consiste nell’apprendere a leggere e scrivere speditamente. Infatti chi sa parlare griko viene a trovarsi in Grecia nelle stesse difficoltà in cui si trova un analfabeta salentino costretto a esprimersi in lingua italiana.

Non a caso ho usato il termine analfabeta. Uno studioso greco, Demetrio Lambikis, in una sua operetta pubblicata ad Atene nel lontano 1933, – “Ellenismo nell’Italia meridionale” – affermava: “La lingua dei poeti greco-salentini è una lingua povera, nel contenuto. E’ fatta per lo più di piccole frasi: è come un quadro sbiadito in più punti e pieno di vuoti… Quelli che parlano – il popolo – non la scrivono; quelli che la scrivono – i letterati – non la parlano. Il cittadino greco, che deve parlare con loro, deve conoscere la lingua italiana o deve pronunciare lentamente e con chiarezza le parole del greco moderno”.

Col passare degli anni, questa situazione di disagio si è accentuata, perché chi oggi parla in griko tende, quasi naturalmente, ad aggiungere parole italiane nel contesto griko, non trovando i vocaboli corrispondenti, che nol corso dei secoli sono scomparsi. Questa tendenza spesso crea effetti comici, perché non solo viene preso in prestito il vocabolo italiano, ma viene declinato o, se si tratta di un verbo, coniugato, aggiungendo suffissi e desinenze, a seconda dei tempi e delle persone.

A parte tutto questo, la Grecìa ha prodotto, nel corso dei secoli, una messe di canti veramente prodigiosa. Si tratta di canti amorosi e religiosi, di stornelli, di nenie e di proverbi, di ninne-nanne, di moroloja, che si sono trasmessi oralmente di padre in figlio, costituendo il patrimonio culturale della comunità. Solo nella seconda metà del secolo scorso alcuni studiosi hanno incominciato a raccogliere questi canti, ma in maniera molto frettolosa e commettendo errori, d’altra parte inevitabili, dato che conoscevano la lingua grika solo in modo molto superficiale. Il solo poeta e scrittore del posto, Vito D. Palumbo, pur avendo raccolto un gran numero di canti, non poté pubblicarli, probabilmente per ragioni economiche. Comunque, i quaderni del Palumbo, lasciati in eredità al Circolo “Ghetonìa” di Calimera, saranno quanto prima pubblicati e costituiranno un cospicuo monumento di arte popolare.

Motivi storici fin troppo evidenti hanno fatto sì che per quasi un millennio la Grecìa Salentina vivesse in assoluta solitudine. Mentre i Normanni, gli Svevi, gli Angioini creavano nell’Italia Meridionale uno stato unitario, sull’altra sponda dell’Adriatico gli Ottomani estendevano il loro dominio barbarico. Sin dal secolo XII si interruppe ogni possibilità di scambio, ogni comunicazione fra le due sponde dell’Adriatico. Se il Canale d’Otranto veniva varcato da imbarcazioni, queste erano sempre turche e venivano sulle coste del Salento per seminare morte e distruzione, per portare via come schiavi gli abitanti terrorizzati.

La minaccia turca è cessata soltanto nel 1913, cioé quando gli Stati Balcanici riuscirono a cacciar via dai loro territori gli odiati dominatori. Ma le relazioni fra la Grecìa Salentina e la Grecia sono iniziate soltanto molti anni dopo. Ancora dopo la Seconda Guerra Mondiale ben poche persone, in Grecia, sapevano dell’esistenza di una cospicua isola linguistica denominata Grecìa Salentina e quasi tutte pensavano che si trovasse fra le montagne della Sicilia. Comunque, se questa mancanza di relazioni ha contribuito in maniera determinante a mettere in crisi l’esistenza della Grecìa, la solitudine di tanti secoli ha fatto sì che si sviluppasse nel Salento un’area di cultura fra le più originali e genuine esistenti in Europa.

(da Rocco Aprile, Katalisti o kosmo, Ghetonia, 1996, pp. 9-16)

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