Tramutola al tempo dagli Svevi agli Angioini

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Alla morte di Federico II, il regno di Sicilia andò in subbuglio in quanto c’era chi pretendeva governarlo a nome del Pontefice e gli altri a nome dei figli dell’imperatore. Vi combattevano i partigiani di Corrado IV e di Manfredi, poi quelli di Corradino. Il Papa si era liberato del più temibile nemico, anche se ebbe contro di se, Manfredi, principe di Taranto figlio naturale di Federico II, il quale riprese i disegni politici del padre volti a soffocare Roma. Il papato, Papa Urbano IV, si adoperò per allontanare definitivamente gli svevi dalla penisola, offrendo la corona del regno a Carlo I d’Angiò. Questi spinto specialmente dalla moglie, Beatrice di Provenza, che aspirava a diventare regina e raccolto un esercito finanziato da banchieri fiorentini e romani, fedeli al papa, si scontrò con Manfredi che lo vinse e lo uccise a Benevento il 19 febbraio 1266.

Alla morte del Beato Leonardo abate di Cava, 18 agosto 1255, i suoi successori non furono avveduti nel prevedere gli sviluppi della fase politica che viveva il regno di Sicilia. Fino alla soglia del XIV secolo, si alternarono alla reggenza dell’abazia del Monastero di Cava, cinque abati, di cui Giacomo fu deposto il primo luglio 1266 e Rainaldo si dimise il 10 settembre 1300. Ecco gli abati di Cava nella seconda metà del secolo XIII: Tommaso 18 agosto 1255 – 24 marzo 1264 deceduto; Giacomo aprile 1264 – 1 luglio 1266 deposto; Americo luglio 1266 – 23 gennaio 1268 deceduto; Beato Leone II 25 gennaio 1268 – 19 agosto 1295 che governò con prudenza, così poté riuscire a recuperare in parte i feudi perduti e far riconoscere dai nuovi sovrani le antiche prerogative cavensi; Rainaldo 25 agosto 1295 – 10 settembre 1300 dimesso(1). A proposito di Rainaldo, questi prima brigò a farsi eleggere abate di Cava e poi per i “gravi eccessi” della sua condotta, venne chiamato a Roma a giustificarsi, ma preferì dimettersi.

Durante la seconda metà del XIII secolo, dopo la morte di Federico II, l’abate di Cava che aveva perduto il rapporto di fiducia con gli abitanti dei casali abbaziali e tra questi Tramutola, perché abbandonati ad un destino di violenze perpetue da parte degli Angioini, cercò di far riconoscere dai nuovi sovrani le antiche prerogative. Però, i legami tra i sudditi e il feudatario abate, erano stati rotti e le popolazioni mal sopportavano un ritorno sotto la feudalità dei cavensi. Allora l’abate con un tocco di abilità politica, escogitò l’espediente che l’esercizio della giurisdizione temporale veniva ad essere disgiunta da quella spirituale. Quindi per non perdere tutto si adottarono i mezzi termini, si cedettero ai laici, per un censo annuo, tutti i diritti temporali così i monaci cavensi poterono conservare la rendita feudale sul casale Tramutola. La politica dell’abate di Cava, fu quella di ritenere impossibile difendere i beni del Monastero, al di la del Sele, e quindi parve opportuno cederli in enfiteusi.

Nel 1268 l’ultimo pretendente svevo, Corradino, fu sconfitto a Tagliacozzo e caduto nelle mani degli Angioini, in seguito al tradimento della famiglia romana dei Frangipane, fu catturato e giustiziato a Napoli sulla Piazza Mercato, insieme al cugino Federico d’Austria. Così il Mezzogiorno d’Italia passò dalla dinastia sveva degli Hoheustaufen, sotto gli Angioini.

Carlo I d’Angiò fu più esigente per il pagamento delle tasse e di imposte che i sudditi consideravano oppressive. La Basilicata e buona parte del salernitano che durante il periodo svevo si erano incamminati sulla strada della civiltà e del progresso economico, caduti nelle mani degli Angioini, precipitarono nel baratro della miseria. Si ebbe un dilagare di violenze e di disordini di ogni sorte e, la Badia di Cava, si trovò in gravi difficoltà per difendere i tanti piccoli feudi sparsi in tutto il Mezzogiorno d’Italia ed in Sicilia. Insieme a Carlo I d’Angiò, si aggiunsero le truppe francesi seguite da nuovi avventurieri alla caccia di feudi. Quindi i funzionari di cui si circondò Carlo I d’Angiò, occuparono i possedimenti indifesi della Badia e il feudo abbaziale di Tramutola. Quella condizione feudale, che fino allora era stata la forza del Monastero di Cava, cioè piccole possessioni, ma numerose e sparse, le quali non avevano mai fatto ombra a signori più potenti, al tempo degli Angioini, divenne causa della sua debolezza mettendo a repentaglio nelle mani di invasori i possessi del Monastero. Cavalieri e predoni qua e la si impossessarono di questa o quella terra del Monastero di Cava e i vassalli preferirono abbandonare le loro terre che servire prepotenti padroni. Anziché essere soggetti a violenti padroni, anche gli abitanti di Tramutola, preferirono abbandonare le loro terre indifese, di proprietà dell’abate feudatario senza esercito.

Tramutola, feudo abbaziale della Badia di Cava, nell’ambito della contea marsicana, è al centro di tanti avvenimenti conseguenti agli interessi dei Sanseverino, perciò in questa analisi ne seguiamo gli eventi della famiglia discendente del conte Silvestro Guarna.

Il piccolo Ruggero(2), secondo Conte di Marsico, Principe di Sanseverino, Diano, Sala e Atena, dopo la decimazione della sua famiglia ad opera di Federico II, fu accolto a Lione da Papa Innocenzo IV, anch’egli esule, e crebbe alla sua corte ove in seguito sposò una nipote dello stesso Papa, della famiglia dei conti Fieschi.

Ruggero Sanseverino, da sempre sostenitore della Chiesa, si schierò contro Manfredi rendendosi, anzi, principale sostenitore della lotta contro lo Svevo per vendicarsi delle ingiurie ed infamie sofferte sotto la dominazione Sveva, per questo Manfredi gli tolse nuovamente il feudo e nominò conte di Marsico Enrico di Spernaria e poi Riccardo Filangieri. Ruggero Sanseverino combatté valorosamente nello scontro del 19 febbraio 1266, che culminò nella  cruenta battaglia di Benevento. In un momento in cui gli Angioini stavano per sbandarsi, egli, messa sulla punta della spada una camicia intrisa di sangue, tolta ad un soldato morto, l’additò quale vessillo agli angioini e, riuniti, li menò alla vittoria. Pare che da quest’episodio tragga significato lo stemma dei Sanseverino: una banda rossa in campo d’argento(3).

Impadronitosi del regno Carlo I d’Angiò, Ruggero Sanseverino ebbe restituiti tutti i suoi feudi,  e nel 1272, Carlo I d’Angiò gli affidò il Vicariato di Roma. Nel 1276 gli fu affidata la spedizione incaricata di portare rinforzi e vettovagliamenti ad Avallone, in Albania. Nel 1277 il re lo creò suo Vicario nel Regno di Gerusalemme, regno che l’Angioino ottenne proprio grazie all’impegno diplomatico e militare di Ruggero Sanseverino che in quell’occasione molto si avvalse dell’aiuto dei Templari.

Nel 1284 gli fu affidata  da Carlo, principe di Salerno e, a quel tempo, Vicario Generale di suo padre Carlo I d’Angiò, la custodia e la difesa  della città di Salerno dai ribelli (era il tempo dei Vespri Siciliani), mentre Tommaso, figlio di Ruggero e di Teodora D’Aquino seconda moglie e sorella di S. Tommaso D’Aquino, che dallo stesso principe era stato nominato capitano a guerra, era stato spedito a difendere il litorale che da Salerno va a Policastro. Ruggero Sanseverino morì nel 1286 nella contea di Marsico. A Ruggero subentrò nella contea marsicana, il figlio Enrico (1286-1314), che fu Gran Contestabile(4) del regno di Napoli nel 1313. Sposò Ilaria figliuola del Grande Ammiraglio Ruggiero di Loria. Da questo Enrico discese il ramo dei Sanseverino Principi di Salerno.

Carlo I d’Angiò, intanto consolida la potenza degli Angioini, spostando la capitale del regno da Palermo a Napoli per renderlo più continentale. In Sicilia, il malcontento e l’odio antifrancese erano cresciuti, soprattutto per la scelta politica di trasferire la capitale del Regno da Palermo a Napoli.

Favorito l’insediamento dell’industria tessile; modernizzati i porti di Bari, Brindisi, Manfredonia e Napoli; immessi nei monopoli della Corona l’estrazione dei metalli e la produzione del sale; affermata l’autorità su Pisa e su Siena; guadagnato il favore di Fiorentini, Lucchesi e Pisani, cozzando con le resistenze di Gregorio X, Carlo I d’Angiò si accinse a muovere contro l’Impero greco col sostegno dei Veneziani, dei Serbi, dei Bulgari e dei despoti di Tessaglia ed Epiro. Tuttavia, proprio mentre le sue truppe erano pronte a salpare per l’Oriente, la Sicilia fu attraversata dal fremito dei Vespri. Era il 31 marzo del 1282: lunedì di Pasqua.

La perquisizione che un militare francese, tal Drouet, intendeva effettuare in violazione e spregio del decoro di una giovane isolana, sul sagrato della chiesa palermitana del S. Spirito, fu la scintilla per il massacro di duemila francesi: le campane suonarono i rintocchi dell’ora del Vespro e la gente coralmente gridò morte. All’alba del giorno successivo, Palermo proclamò la sua indipendenza.

La guerra del Vespro durata vent’anni dal 1282 al 1302 e terminata con la pace di Caltabellotta, tra aragonesi e angioini, vide la presenza di scorribande nel meridione d’Italia. Bande di mercenari di parte opposta, nonché la tirannia delle potenti famiglie nobili locali, nella contea marsicana, i Sanseverino. L’elemento più energico, dell’esercito aragonese, era formato dagli Amogàveri od Almugaveri sul cui nome, significato e funzioni, molto si è discusso, ma dei quali rimane una dettagliata descrizione di Bernat Desclot che li presenta con l’abituale e disincantata attitudine dell’osservatore e del narratore spesso elegante e smaliziato. Dice Desclot che gli Almugaveri sono uomini che vivono di venture guerresche fuori dell’abitato, sempre per i monti e per i boschi. Combattono di giorno e di notte, si addentrano nei territori anche per più giorni, facendo bottino, strappando agli avversari quanto possono avere. Così campano, conducono vita aspra e molto dura che altri uomini non potrebbero sopportare, trascorrendo più giorni senza mangiare e cibandosi di erbe selvatiche senza alcun danno per la salute. Si avvalgono degli Adalills che sono i loro condottieri, pratici dei paesi e dei sentieri. Vestono soltanto un giubbone o una camicia, sia d’estate che d’inverno. Alle gambe cingono calzari di cuoio strettissimi ed hanno una buona lama pendente sostenuta da forte cintura stretta alla vita. Hanno tutti una lancia a due giavellotti e uno zaino di cuoio dove conservano il cibo. Sono fortissimi e assai spediti a correre ed inquietare il nemico. Sono catalani, aragonesi e saraceni. Oltre che sui comportamenti fondamentali per cogliere la rappresentazione indomabile della loro forza e della loro abilità militare, specie nell’uso delle armi da lancio contro la cavalleria, l’attenzione degli studiosi si è soffermata sul significato e sull’etimologia di almògavar e molti concordano appunto sull’origine spagnola, anzi catalana della parola. Anche se il cronista bizantino Pachimeres parla di un significato che riconduce all’arabo che significa incursore, razziatore. Incursori e razziatori che preferivano combattere a piedi. Il loro intervento era stato decisivo per l’esito della guerra del Vespro e funeste, specie in Calabria e nella Val d’Agri, per le popolazioni favorevoli agli angioini. La Val d’Agri, il Vallo di Diano e la cerniera dell’Appennino lucano, Tramutola, Paterno, Montesano sulla Marcellana, Padula, Sala Consilina, Atena Lucana in cui alcune contrade vengono completamente distrutte e la popolazione decimata o costretta a fuggire, furono teatro delle loro battaglie per sconfiggere gli Angioini e l’alleato Sanseverino, per favorire il possesso della Sicilia a Pietro III d’Aragona. La difesa della Val d’Agri era affidata oltre al conte di Marsico, Enrico Sanseverino al fratello di questi, Tommaso II, che era stato nominato Capitano a guerra dal Principe Angioino di Salerno e che succederà al conte di Marsico alla morte di Enrico nel 1314.

(1) Massimo Buchicchio Cronotassi degli Abati della Santissima Trinità di La Cava. Cava dei Titteni 2010.

(2) cfr. il capitolo 4 “Tramutola a tempo degli ultimi Normanni e degli Svevi”.

(3) Memorie delle Famiglie Nobili delle Provincie Meridionali d’Italia – raccolte dal conte Berardo Candida Gonzaga – Napoli Stabilimento Tipografico del cav. G. De Angelis e figlio Strada Portamedina alla Pignasecca 44. 1876

(4) Il titolo di Gran Connestabile fu attribuito a un alto dignitario con funzioni militari.

Vincenzo Renato Petrocelli

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