Quello che la crisi venezuelana ci insegna sulla moneta

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di Margherita Russo

Si sentono spesso paragoni e richiami, spesso azzardati ed allarmistici, al Venezuela e alla difficile congiuntura economica che il paese attraversa, ma raramente si spiega quali caratteristiche abbia il paese né su cosa si basi la sua economia. Questa analisi economica della crisi venezuelana, oltre ad offrire una chiave per individuare le caratteristiche che rendono il Venezuela particolarmente vulnerabile a shock esterni, permette anche di capire, da una prospettiva più ampia, i meccanismi generali con i quali una politica monetaria sbagliata, unita ad una mancanza di indipendenza del sistema economico, possano scatenare una crisi persistente. 

Jonathan Marie, CEPN – UNIVERSITÉ PARIS 13

Il Venezuela è regolarmente al centro di accesi dibattiti nei media e nella politica. Ciò tende quasi a nascondere il fatto che la particolare situazione del paese consente di trarre insegnamenti sul corretto funzionamento di un’economia, in particolare per quanto riguarda la moneta.

Una crisi con radici lontane

L’attuale crisi venezuelana, nella sua dimensione economica[1], affonda le sue radici almeno negli anni ’70. In un contesto globale di instabilità generalizzata dei tassi di cambio (la stabilità dei tassi di cambio nell’economia mondiale assicurata dagli accordi di Bretton Woods è stata interrotta nel 1971), il Venezuela, uno dei principali esportatori di greggio, è rimasto vittima della “sindrome olandese”. Crisi di solito provocata dalle esportazioni di un’abbondante materia prima che portano a una rivalutazione della moneta nazionale. Poiché questa valuta si rivaluta, le importazioni diventano più economiche per la popolazione o le imprese locali (ovviamente, a condizione che abbiano un reddito). Allo stesso tempo, lo sviluppo economico locale, ad eccezione del settore delle esportazioni della materia prima, è ostacolato dalla concorrenza estera da parte di paesi che sono adesso più competitivi. Una situazione del genere è potenzialmente drammatica per il paese: le disuguaglianze crescono (tra coloro che guadagnano dalle esportazioni e coloro che dovrebbero ridurre i salari per ripristinare la competitività) e la crescita economica è tendenzialmente debole. In altre parole, lo sviluppo economico è bloccato.

Il Venezuela non è mai stato in grado di abbandonare questa dipendenza dalle esportazioni di petrolio né è mai riuscito a correggere gli effetti deleteri della sindrome olandese. Questa situazione non è nuova: paesi come l’Algeria, per esempio, hanno caratteristiche simili. Il nome stesso “sindrome olandese” deriva dal fatto che, dopo la scoperta dei giacimenti di gas naturale nel Mare del Nord negli anni ’60, i Paesi Bassi furono interessati da una forte deindustrializzazione.

In Venezuela si è verificato un netto e costante calo degli investimenti: se gli investimenti privati nel 1975 rappresentavano circa il 25% del PIL,​​ dalla metà degli anni ’80 sono rimasti inferiori al 10% del PIL[2], causando di ritorno una debolezza strutturale della produttività. Inoltre, la “sindrome olandese” ha incrementato la specializzazione delle produzioni, quando l’economia avrebbe avuto bisogno di diversificazione (che a medio termine è vitale).

Sindrome olandese, mancanza di investimenti, ultra-specializzazione e bassa produttività creano un circolo vizioso estremamente difficile da rompere. La crescita economica è vincolata alla bilancia dei pagamenti: se la crescita si rafforza, generalmente sotto la spinta delle esportazioni di petrolio il cui valore aumenta a causa di un aumento dei prezzi (piuttosto che di un aumento dei volumi esportati), la domanda interna cresce. Ma l’aumento dei consumi si scontra con un’offerta insufficiente (a causa del basso investimento), che genera quindi un’inflazione elevata e allo stesso tempo un aumento delle importazioni. La bilancia commerciale inizia a deteriorarsi…e provoca una svalutazione che, a sua volta, alimenta l’inflazione. Qualsiasi ripresa economica reale viene annullata, e le tensioni tra i gruppi sociali sono fortemente esacerbate.

L’arrivo di Chávez in un periodo economico favorevole

Hugo Chávez è arrivato democraticamente al potere alla fine del 1999 per attuare un programma costruito attorno a due punti: rifiuto del neo-liberalismo ultra-autoritario[3] e la promessa di attuazione di un ambizioso programma sociale.

Agli inizi degli anni 2000, Chavez ha lanciato due progetti complementari: la nazionalizzazione del settore delle esportazioni di petrolio e l’introduzione di severi controlli sui cambi.

La nazionalizzazione aveva lo scopo di consentire la redistribuzione della rendita petrolifera[4] a beneficio dell’intera popolazione. Avrebbe dovuto consentire lo sviluppo e il finanziamento di programmi sociali: ridurre le disuguaglianze e sostenere in parte i consumi dei più poveri[5]. I controlli sul cambio erano finalizzati a una migliore regolamentazione della circolazione delle valute. In concreto, avrebbero dovuto consentire una politica valutaria volta a sostenere attivamente l’attività economica, in particolare al fine di limitare gli effetti della sindrome olandese. Si trattava di mettere in atto un meccanismo di cambi multipli, una sorta di protezionismo tariffario amministrato dalla banca centrale.

Fino al 2008, il Venezuela, come la maggior parte dei paesi produttori di materie prime, aveva vissuto un periodo di boom economico. I suoi profitti erano sostenuti dall’elevato livello dei prezzi delle materie prime. Tuttavia, un ambiente politico conflittuale e la presenza di vincoli di cambio erano visti come motivi d’incertezza: si materializzò un mercato parallelo dei cambi (o mercato nero), che consentiva ai venezuelani di scambiare dollari liberamente contro il bolivar. Naturalmente, avendo dei risparmi era preferibile tenerli in dollari anziché in bolivar, che si potevano deprezzare a causa dell’inflazione o di fluttuazioni sfavorevoli del tasso di cambio. Quindi, nonostante la forte crescita, gli investimenti privati non sono aumentati.

Durante lo stesso periodo, la fiducia dei venezuelani nella loro valuta si è erosa. Il bolivar è stato sostituito come riserva di valore [6] dal dollaro statunitense. Questo meccanismo progressivo, alimentato da un rafforzamento dell’inflazione (che è passata dal 16% nel 2000 al 32% nel 2008 secondo le statistiche nazionali ufficiali riprese dal Fondo monetario internazionale), ha portato all’indebolimento della valuta.

La svolta del 2008

L’economia venezuelana è rimasta estremamente dipendente dal contesto internazionale, che nel 2008 è diventato meno favorevole: il prezzo al barile è sceso da $129 a luglio a $31 a dicembre. L’attività economica si è fortemente contratta sotto il doppio effetto delle minori entrate fiscali di un governo che faceva fatica a finanziare la spesa sociale, ed il calo dei proventi delle esportazioni di petrolio a causa della minore domanda globale. Alla fine, dal tasso di crescita complessiva superiore al 5% del 2008 si è arrivati nel 2009 a una recessione netta  pari al -3,2%. Questa inversione è stata accompagnata dalle aspettative della popolazione di un deprezzamento del bolivar, che alimentavano di riflesso una forte domanda di dollari, proprio nel momento in cui questi ultimi affluivano in misura minore a causa del calo dei proventi delle esportazioni. Il governo ha reagito rafforzando i controlli sui cambi, fatto che, secondo la dinamica della “profezia auto-avverante”, ha ulteriormente incoraggiato i venezuelani ad acquistare dollari in nero e voltare le spalle alla valuta nazionale.

Dal 2012[7], in un contesto politico molto incerto (Chávez, che soffriva di problemi di salute, fu finalmente rieletto in ottobre), i controlli sono divenuti sempre meno efficaci a prevenire fughe massicce di capitali. Il vincolo esterno aumentava man mano che la dinamica inflazionistica si rafforzava: i lavoratori chiedevano aumenti salariali che generavano una spirale prezzi-salari, mentre anche le svalutazioni alimentavano  l’inflazione. Questa è aumentata dal 20% nel 2012 al 56% nel 2013, al 68% nel 2014 e al 180% nel 2015.

Dopo l’indebolimento della funzione di riserva di valore del bolivar a favore del dollaro, ora la stessa funzione di unità di conto e di mezzo di pagamento risultano indebolite. In Venezuela ci si trova vicini all’iperinflazione[8], una situazione caratterizzata da un’esplosione dei prezzi accompagnata da sfiducia verso la moneta nazionale[9], come è avvenuto ad esempio in Argentina nel 1989 e nel 2009 in Zimbabwe. I venezuelani ricercano altri mezzi monetari che non siano il bolivar: che sia il dollaro americano, o i bitcoin, un asset finanziario rischioso ma che permette di sfuggire ai controlli …

Una crisi che rivela (anche) la natura della moneta

Una simile crisi monetaria è sempre accompagnata da una crisi politica[10]. Ciò conferma la tesi per cui qualsiasi valuta richiede l’adesione dei suoi utilizzatori a un progetto collettivo e il loro riconoscimento dell’autorità sovrana responsabile della sua gestione e controllo. Ovviamente, questa duplice condizione non è più presente in Venezuela.

Le radici lontane della crisi venezuelana mettono anche in luce quanto sia instabile e vincolante il sistema monetario internazionale oggi per tutti i paesi, ma soprattutto per i piccoli paesi in via di sviluppo, che dipendono fortemente dalla loro capacità di ottenere valute internazionali, in primo luogo il dollaro, e hanno grandi difficoltà a stabilizzare i loro tassi di cambio e sviluppare politiche monetarie autonome, orientate verso obiettivi interni.

Ci si può infine chiedere se il recente annuncio del presidente Nicolás Maduro di creare una nuova (cripto-) moneta possa essere la soluzione ai problemi economici del paese. Non corriamo rischi a rispondere decisamente di no. In primo luogo, perché il Petro (il nome di questa futura moneta) –  un progetto di cripto-valuta elettronica la cui emissione è garantita dalle risorse naturali del paese – mette in evidenza l’incapacità delle autorità a contenere, se non a prevenire, la scomparsa del bolivar. In secondo luogo, perché questo progetto è influenzato da una concezione arcaica della moneta : per avere valore e creare fiducia, si pensa, la moneta dovrebbe essere ancorata a qualcosa; una volta ci si basava sull’oro o l’argento, oggi Maduro si basa sul petrolio.

Soprattutto, come potrebbe questa moneta soddisfare le esigenze dell’economia se la sua emissione segue l’evoluzione della stima delle riserve petrolifere in Venezuela? Non vi è alcuna garanzia che il finanziamento dell’attività economica sarà quindi sufficiente per consentire al Venezuela di svilupparsi.

La moneta è endogena all’attività economica e presume la fiducia dei suoi utilizzatori, e questo concetto sembra essere ignorato da Maduro.

Gli esempi qui brevemente illustrati relativi al caso venezuelano sono in linea con le lezioni che si possono trarre dall’opera “La Monnaie. Un enjeu politique” [11]. La moneta è un’istituzione sociale centrale nella crisi del capitalismo. Per promuovere lo sviluppo economico, che sia nazionale o globale, bisogna capire come funziona e si gestisce la moneta. Una politica monetaria efficace, sia in Venezuela che in qualsiasi area monetaria, presuppone di garantire la fiducia degli utilizzatori di questa valuta e allo stesso tempo di affrontare la questione del regime monetario. Pertanto, la politica monetaria e la politica fiscale dovrebbero sempre e ovunque essere in grado di coordinarsi per raggiungere gli obiettivi di stabilità economica, sviluppo e piena occupazione.

[1] Nel 2017, secondo il Parlamento controllato dall’opposizione, l’inflazione era del 2616%. L’FMI prevede una recessione al 12% del PIL. Per quanto queste cifre siano difficili da verificare a causa della loro entità, la recessione e la situazione quasi iperinflazionistica sono fuori dubbio.

[2] Gutiérrez, L. H., and Labarca, N. (2003), “Determinantes de la inversión privada en Venezuela: Un análisis econométrico para el periodo 1950-2001”, Revista Tendencias, 4(2).

[3] Ricordiamo che nel 1989, all’inizio del suo secondo mandato, Carlos Andres Perez – eletto con un programma socialdemocratico – dovette piegarsi alle ingiunzioni neoliberiste del Fondo monetario internazionale (proprio mentre si stava costruendo il famoso “Washington Consensus”), implementando la legge marziale e reprimendo la protesta nel sangue. Il “Caracazo” del 1989 uccise circa 3000 persone in un contesto di alta inflazione.

[4] Ad esempio, si veda questo articolo di T. Gaston-Breton pubblicato su Les Echos nel 2006 per rendersi conto della natura conflittuale della distribuzione delle entrate petrolifere in Venezuela, dalla scoperta dei giacimenti, all’interno della stessa popolazione locale, ma anche con i principali gruppi stranieri che sfruttano i giacimenti.

[5] L’obiettivo era infatti destinare le rendite del petrolio ai programmi sociali: trasferimenti, investimenti pubblici per sradicare l’analfabetismo o migliorare lo stato di salute della popolazione… ma sfortunatamente non per risanare l’economia venezuelana dalla sindrome olandese!

[6] Gli economisti concordano nel riconoscere almeno tre funzioni di moneta: unità di conto, mezzo di pagamento e riserva di valore. Il primo consente di valutare il prezzo dei beni nella stessa unità di misura, il secondo facilita le transazioni e il terzo, che compete con altre attività come i titoli finanziari, è una modalità del risparmio. Gli economisti keynesiani aggiungono a queste funzioni quella p blicazione presso Seuil nel gennaio 2018, scritta in collaborazione con J.-M. Harribey, E. Jeffers, J.-F. Ponsot e D. Plihon. 

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