Inattivi e sfiduciati: i 30-40enni sono i veri perdenti del mercato del lavoro italiano

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Anche se la disoccupazione è scesa al minimo storico, non c’è niente da festeggiare. Perché aumentano gli inattivi, gli sfiduciati che un lavoro non lo cercano più. E a essere colpiti sono quelli della generazione di mezzo, che dovrebbero essere invece alla ricerca di una stabilità
di Lidia Baratta

Sfiduciato, precario, vecchio. I dati Istat che chiudono il 2017, relativi al mese di dicembre, restituiscono l’immagine di un mercato del lavoro sconfortante, che si affida sempre più a contratti al massimo risparmio e scoraggia i più giovani. Anzi, spesso i contratti non si fanno nemmeno, visto che secondo gli ultimi dati di Confcooperative i lavoratori in nero sono ben 3,3 milioni.

E anche se la disoccupazione è scesa al 10,8%, segnando il minimo storico dal 2012, non c’è niente da festeggiare. Perché con 47mila disoccupati in meno, abbiamo guadagnato in un mese 112mila inattivi in più. Sono gli sfiduciati, quelli che sarebbero disponibili a lavorare ma non mandano più nemmeno un curriculum. Un fenomeno che l’Italia conosce bene, visto che – nonostante gli 1,5 miliardi di fondi Ue della Garanzia giovani – continuiamo a detenere il record europeo, con quasi il 12% di inattivi sul totale della forza lavoro. «La misura della disoccupazione in sé non ha valore né disvalore», spiega Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt. «Se smetti di cercare lavoro perché ne hai trovato uno, è una buona notizia. Ma se non lo cerchi più perché sei scoraggiato, allora è grave». C’è chi smette di cercare perché sfiduciato dopo contratti a termine perpetrati in continuazione. Chi non si è più visto rinnovare nemmeno il contratto. O anche gli ex “voucheristi”, ormai rassegnati a lavori intermittenti.

Anche se la disoccupazione è scesa al 10,8%, segnando il minimo storico dal 2012, non c’è niente da festeggiare. Perché con 47mila disoccupati in meno, abbiamo guadagnato in un mese 112mila inattivi in più
Al di là della diminuzione degli occupati (66mila in meno in un mese) e dell’altalena mensile delle cifre da zero virgola calcolate dall’Istat, ci sono problemi strutturali che restano. A latitare è proprio il lavoro stabile, su cui il Jobs Act aveva puntato tutto con il famoso contratto a tutele crescenti. Tra dicembre 2016 e dicembre 2017 ci sono stati 278mila occupati in più: 303mila sono a termine e nessun tempo indeterminato. Anzi, quelli che hanno sottoscritto questi contratti sono calati di 25mila unità. E gli autonomi sono 105mila in meno. È probabile, certo, che a dicembre i le assunzioni stabili siano state rinviate in attesa dei nuovi incentivi presenti nella legge di bilancio, ma i dati che abbiamo riguardano tutto l’anno appena trascorso. «In un anno non abbiamo guadagnato un solo contratto a tempo indeterminato», spiega Seghezzi. «E non c’entra più la fine degli incentivi. L’effetto degli sgravi è finito da tempo. Probabilmente siamo dinanzi a una rimodulazione delle tipologie contrattuali strutturale, che ci dice che il mercato del lavoro sta cambiando».

Se qualche posto di lavoro si crea, insomma, ormai è a termine. «Davanti a questo picco, diventa sempre più urgente intervenire sulle politiche attive», continua Seghezzi. «Una volta finito il contratto, non possiamo lasciare da sole le persone, ma prenderle per mano per accompagnarle nel contratto successivo».

Tanto più che, se si guarda tra le righe dei dati, si vede che i segni meno si trovano ancora soprattutto davanti ai lavoratori più giovani. Non quelli fino a 24 anni, ma quelli che stanno nel mezzo. Nella fascia che si colloca tra l’ingresso nel mercato del lavoro e la stabilizzazione, a cui seguono magari dei figli e una famiglia. Che in pochi, appunto, ormai si possono permettere. È proprio nella generazione di mezzo che continuiamo a perdere occupati. Mentre gli sfiduciati crescono tra i giovanissimi (+75mila in un anno) e gli over 35 (+24mila in un anno)

Gli ultimi dati dell’Istat contengono una cifra che colpisce più di tutti: in un anno si contano 234mila occupati in meno tra i 25 e i 49 anni. È quella generazione di mezzo che in teoria dovrebbe cercare di stabilizzarsi
Gli ultimi dati dell’Istat contengono una cifra che colpisce più di tutti: in un anno si contano 234mila occupati in meno tra i 25 e i 49 anni. E il calo, specifica l’Istat, tra i 35 e i 49 anni esiste anche al netto della componente demografica. Cioè: è vero che ci sono meno occupati perché ci sono meno giovani e la popolazione invecchia, ma comunque anche tra quei pochi il lavoro diminuisce. In un anno gli occupati sono calati dello 0,7% tra 25 e 34 anni e del 2,1% tra 35 e 49 anni. E in questa stessa fascia, gli scoraggiati che non cercano più un lavoro sono ormai più di 4,4 milioni.

I segni più, invece, a conti fatti sono concentrati tra i lavoratori ultracinquantenni, tra i quali la crescita occupazionale è amplificata però dalla componente demografica, unita alla riforma Fornero. Insomma, i 365mila occupati in più tra gli over 50, mille in più al giorno nell’ultimo anno, non si devono tanto ai nuovi posti di lavoro creati, ma allo spostamento in avanti dell’età della pensione, che li fa restare dietro la scrivania.

Il mercato del lavoro italiano continua a invecchiare, insomma. E gli acciacchi dell’età si vedono tutti.

linkiesta.it

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