Quest’anno le mie vacanze natalizie sono state in patria, nella città in cui sono nata, tra le persone con cui sono cresciuta, nei luoghi che mi hanno vista maturare e che ho salutato ormai tante volte.
Il fatto è che non ho mai imparato come si fa a dire addio.
Anche se è un addio temporaneo, anche se sai che tornerai prima o poi, anche se tutte le tecnologie odierne ti permettono di accorciare le distanze… ma poi lo fanno davvero?
Vecchi e nuovi expat
Mentre ero in aeroporto, mi interrogavo proprio su questo.
Un tempo, chi emigrava salutava casa, famiglia, amici e luoghi cari, con la consapevolezza di un improbabile ritorno.
Mi immagino giovani uomini e donne abbracciare i propri genitori, sapendo che non li avrebbero visti invecchiare, che avrebbero avuto, forse, loro notizie via lettera, magari poche volte all’anno, magari anche meno.
Li vedo salutare gli amici di sempre, consapevoli che le loro vite difficilmente si sarebbero incrociate nuovamente nell’immediato futuro. Posso supporre che procedessero lenti verso il mezzo che li avrebbe portati in un paese nuovo e sconosciuto, dove suoni, odori e immagini sarebbero stati completamente diversi, forse immaginati grazie al racconto di chi viveva già là e li aveva descritti, in quelle lettere che arrivavano ogni tanto.
Me li disegno nella mia mente salutare tutte le loro certezze, piangere, soffrire, patire ogni dolore possibile.
E poi basta.
Sì perché ogni lutto ha il suo periodo di elaborazione e poi si va avanti, si continua su una nuova strada, si serbano ricordi cari. Ma si dimentica anche, perché ricordare il suono della voce della propria madre fa male, quando non la si può più sentire ogni giorno.
I mezzi di comunicazione moderni ci hanno tolto il diritto ad elaborare questo lutto, consentendoci di vivere in una specie di limbo emozionale: ci vediamo sugli schermi di computer, tablet e telefoni cellulari. Sentiamo le rispettive voci che attraversano migliaia di chilometri in pochi secondi. Abbiamo la consapevolezza che un volo aereo ci potrà riportare a casa in un lasso di tempo ragionevole: basterà solo pagare e imbarcarsi.
Quindi come si fa a dire addio?
Ho abbracciato forte mia mamma, ho fatto mille promesse a mia sorella e ho raccomandato a mio papà di fumare di meno, come se fosse un addio.
Mentre camminavo verso il gate mi consolavo, stringevo la mano di mio marito e, piano piano, il dolore passava, si faceva più sottile, scompariva.
Dopo poco più di ventiquattro ore sentivo di nuovo le loro voci. Ci scrivevamo messaggi, ci aggiornavamo sulla salute del loro cane e dei miei gatti – come se fossimo a pochi chilometri di distanza, fingendo di esserlo, per non rinnovare quel dolore, per far tacere quella nostalgia.
Siano benedetti e maledetti Skype, Whatsapp e tutte le altre diavolerie che questo secolo ci ha regalato.
In questa nuova era di supercomunicazione, siamo degli astronauti atterrati per caso in questo limbo emozionale, freddo, impalpabile, ma necessario e salvifico, per certi versi.
Forse le generazioni future sapranno come togliersi il casco da astronauti e impareranno a respirare questa nuova aria.
Io, per ora, il casco me lo tengo.
Chi sono
Sei anni fa mi ritrovai con una laurea in Psicologia, un’abilitazione alla professione di Psicologo e una borsa di dottorato per 4 anni. Unico inconveniente: non avevo un tutor. Tutto al contrario di quello che capita alle persone normali, insomma. Così lessi le pagine personali di tutti (!) i docenti di Psicologia di Milano Bicocca e feci una lista di quelli con cui, per un motivo o per l’altro, potevo condividere i miei interessi. Arrivai a selezionarne tre e fissai un appuntamento con ciascuno di loro: un professore un po’ all’antica ma con cui avrei potuto proseguire la mia tesi della Magistrale, una professoressa molto materna e rassicurante, e un ricercatore giovane che non aveva mai avuto dottorandi prima di me. Quest’ultimo (francamente il numero 3 nella mia lista dei preferiti) iniziò il colloquio dicendomi: “Prima di tutto vorrei sapere come ti sentiresti all’idea di andare un anno in Australia”. Niente, mi aveva conquistata.
Così al terzo anno di dottorato io, il mio coraggioso fidanzato (oggi mio marito), due bagagli a mano e due valigie ci imbarcammo per il viaggio più lungo della nostra vita. Meta: Adelaide, che a me evocava solo il Grand Prix che mio papà guardava quando ero piccola. Era il 3 febbraio 2016, due mesi più tardi il Consiglio Accademico ricevette la mia richiesta per estendere il mio periodo all’estero a 24 mesi.
Dopo il dottorato mi venne offerto un contratto per proseguire la mia ricerca come post doc per 12 mesi. Poi altri 12 mesi. Ad oggi si prospettano altri 12 mesi e, in tutto, fanno quattro anni che viviamo quaggiù.
Mi chiamo Valeria, vivo ad Adelaide (South Australia) con il mio fantasmagorico marito, lavoro come ricercatrice alla University of South Australia e mi piacciono le sfide (e non mi piace perdere, quindi, quando succede, sono una lagna).