Romano Prodi: «Il mio piano per un New Deal europeo»

Economia & Finanza

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di Stefano Arduini

Lo scorso gennaio ha presentato alla Commissione il dossier costruito in 11 mesi di lavoro. «Abbiamo stimato in 100/150 miliardi il fabbisogno continentale per gli investimenti in sanità, housing e scuola e abbiamo indicato gli strumenti finanziari per ottenerli. L’impatto sociale? Va misurato, ma tocca a ogni singolo Paese decidere come». L’intervista sul numero di VITA in distribuzione

Potrebbe essere  la leva per dare  il via al domino della tanto invocata “Europa sociale”. Il 23 gennaio Romano Prodi ha presentato a Bruxelles il Piano per le infrastrutture sociali. Obiettivo: avviare un New Deal che nelle intenzioni dei proponenti dovrebbe ridisegnare il modello di finanziamento del welfare in tutto il vecchio Continente (il fabbisogno viene calcolato in 100/150 miliardi di euro l’anno). Il capo economista della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio che è stato uno degli esperti di economia e di sociale che sotto la guida dell’ex presidente della Commissione europea ha partecipato alla redazione del rapporto intitolato “Boosting Investment in Social Infrastructure in Europe” ha fornito un dato chiave per capire l’urgenza di questa misura: «Nel 2010 gli investimenti in spesa sociale in Italia erano compresi in una forbice fra i 4 e i 5miliardi, per i 2/3 coperti dagli enti locali intermedi, oggi siamo scesi a 600 milioni». Il dialogo di VITA sul numero del magazine di aprile in distribuzione con Romano Prodi parte da questi dati.

Romano Prodi

Presidente perché nasce il Piano Prodi per le infrastrutture sociali in Europa?
Una premessa. Il rapporto è stato voluto dalle banche pubbliche o  dalla casse depositi e prestiti, dove 
ci sono, dei 28 Paesi europei. È quindi evidente che si tratta di una proposta che nasce in modo molto forte. Così facendo queste strutture hanno dimostrato di essere consce e responsabili della necessità di trovare finanziamenti a favore del sociale. Il punto di partenza è una costatazione da banchieri, ma da banchieri seri: gli investimenti nel settore sociale sono crollati con la crisi e hanno una capacità di ripresa molto lenta. Si è così formato un deficit enorme nel settore. Intendiamoci, già in passato l’Europa si era addormentata rispetto alla sua grande missione di progettazione e difesa del welfare. L’insufficienza delle risorse viene prima della crisi, ma la crisi la porta a livelli insostenibili. Oggi in alcuni settori gli investimenti sono addirittura negativi: questo significa che gli ammortamenti valgono più degli investimenti. Un paradosso. Di fronte a questo panorama mi è stato chiesto di presiedere un gruppo di lavoro che dopo quasi un anno di studio ha presentato le sue conclusioni.

Voi parlate di un investimento fino a 150 miliardi di euro per infrastrutture sociali. A cosa vi riferite nello specifico?
Il nostro primo compito in effetti è stato quello di definire i confini dell’intervento. Il sociale potenzialmente comprende tutto. Noi abbiamo scelto in modo netto tre settori. Solo tre, ma vastissimi: scuola, sanità e social housing che oggi è stato ribattezzato affordable housing (housing a prezzi accessibili, ndr). L’arretratezza degli investimenti in questi ambiti vale appunto fra i 100 e i 150 miliardi l’anno. Questo significa che servono risorse di grandi dimensioni. Risorse necessarie per creare una politica europea del welfare.

Dove reperirle?
Queste risorse sono un aiuto europeo, ma non intaccano il principio della sussidiarietà. Le risorse per gli investimenti che fornirà il Fondo non pregiudicano
in alcun modo la potestà dei singoli Stati o delle singole regioni, in base all’organizzazione costituzionale di ogni Paese, di decidere le proprie politiche sociali. Su questo punto
noi siamo stati ben attenti a chiarire che saranno le istituzioni politiche nazionali a manifestare la necessità di una determinata infrastruttura
su cui convogliare la richiesta di finanziamento. La premessa ha una conseguenza: mentre gli investimenti di istituzioni europee come per esempio la Bei sono per la maggior parte di grande calibro, da miliardi di euro, nel nostro caso saranno investimenti da poche decine di milioni di euro. Questo proprio perché provengono da scelte maturate a livello nazionale o locale.

Torniamo agli investitori: a quali soggetti guardate?
In prima battuta ci sono le banche e i fondi pubblici. Poi vengono gli investitori istituzionali a lungo termine come fondi pensione e fondi assicurativi, i quali saranno disposti ad abbassare di moltissimo gli interessi a fronte di solide garanzie pubbliche. Non solo. Questo meccanismo in una seconda fase prevede anche il coinvolgimento di soggetti prettamente privati mobilitati, e qui torniamo al punto, da garanzie pubbliche serie, ma disponibili a incassare bassi interessi. Prevediamo proprio modalità di finanziamento “blending”: ovvero un misto di finanza pubblica e finanza privata, ovviamente long-term disposta ad investire in questo progetto una quota-parte del loro portafoglio…

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