Persona: radici e valenze.  superare l’antropocentrismo.

Scuola, Formazione & Università

Di

Sebastiano Tafaro

  1. Il termine ‘persona’ è oggi diventato indicativo, per antonomasia, di quello che si definisce soggetto del diritto[1] esporre alcune riflessioni su persona, termine e concetto che investe l’essenza stessa del diritto. Su di esso il contributo dei giuristi Romani è stato e (mi si consenta l’affermazione) è penetrante ed elevatissimo.

Tra i molti ricordo un figlio dell’Oriente, che seppe raccogliere l’eredità dei giureconsulti romani del Principato e divulgarla in forma incisiva, sicché il suo pensiero più di ogni altro ha segnato il diritto dall’età romana ai giorni nostri, in quasi tutto il pianeta. Intendo riferirmi a Domizio Ulpiano. Egli nel 3  secolo d. C., era stato allievo del grande suo connazionale Emilio Papiniano, del quale era stato adsessor e al quale era poi succeduto al vertice dell’Amministrazione della giustizia, facendo una carriera che lo aveva portato al vertice dell’Amministrazione imperiale. Il giurista, legato da vincoli di amicizia e di affetto con l’Imperatore[2], doveva avere ricevuto la sua formazione nella sua Terra d’Oriente, in Siria o a Tiro, città di origine alla quale pare rimasto sempre legato[3]. Egli si propose di esporre in forma chiara ed esaustiva tutto il diritto, rivolgendosi anche al lettore‑fruitore non familiare con il diritto romano; in tal modo la sua produzione, ampia ma anche enciclopedica e divulgativa, proprio perché consapevolmente rivolta a sintetizzare e diffondere il diritto[4], ebbe grande fortuna ai suoi tempi e andò oltre la stessa esperienza romana; è stata il perno sul quale si è articolata la raccolta dei Digesta di Giustiniano ed è stata, per tal via, la base sulla quale si è fondato e sviluppato il pensiero giuridico moderno. Il giurista era polemico nel rivendicare al diritto il primato nelle scienze umane, perché esso, a suo dire, era matrice della vera filosofia[5], ed aveva un valore così profondo da far considerare i suoi cultori (i giuristi) dei veri e propri sacerdoti[6] Ma il diritto cui guardava Ulpiano è quello più elevato della giustizia, equità e razionalità, sintetizzato da lui in tre (celebri) precetti fondamentali, a ragione ritenuti simbolo ed fondamento della civiltà giuridica:

  1. 1. 1. 10.1 Ulp. 1 reg.: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.

Come ognuno vede sono qui enunciati da Ulpiano tre pilastri sui quali deve poggiare il rispetto e la salvaguardia della persona umana. Sono essi tre principî che riassumevano il cammino secolare della filosofia greca[7], rivisitata dai Romani e che, specie attraverso la mediazione del Cristianesimo, si sono proposti come riferimento del diritto sino ai nostri giorni. Del quale si avverte ancora l’opportunità in un periodo, qual’è quello attuale, nel quale l’onestà, il rispetto della persona umana, il riconoscimento dei diritti fondamentali di ciascun popolo e di ciascun uomo, anche proprio qui, nel nostro Mediterraneo, appaiono messi in discussione o calpestati.

è per questo motivo che oggi appare necessario far partire il discorso sulla persona umana e sui suoi diritti fondamentali dalle radici del pensiero moderno, che nel diritto risiedono nelle fonti romane. In esse Ulpiano ci insegna che il diritto è la giustizia e risiede nello sforzo perenne di dare a ciascuno ciò che gli spetta, di non negare a nessun uomo ciò che la natura gli ha destinato e che la sua condizione esige[8].

La visione alla quale Ulpiano ci introduce era dunque quella che poneva un’equazione di corrispondenza totale tra diritto e giustizia, miranti alla salvaguardia della dignità umana. Il che è ancora più evidente se si considerino le fonti, al cui insegnamento Ulpiano doveva ispirarsi, e che possiamo cogliere anche nelle affermazioni di retori e filosofi; tra i quali significative testimonianze sono offerte dall’autore della Retorica ad Erennio e da Gregorio Taumaturgico:

Ret. ad Herenn. 3. 2. 3: (Iustitia est) aequitas ius unicuique rei tribuens pro dignitate cuiusque

.

Greg. Thaumat. In Origenem oratio panegyrica – Migne patr. Gr. 10 c. 9, p. 1079 B: dikaiosyne, hè tà axia hekàstois aponèmei.

Ecco dunque stabilito un legame indissolubile tra diritto e giustizia e tra diritto e salvaguardia della dignità umana, tèlos (scopo) della vera philosophia, vero cardine del vivere civile, che farà dire a Giustiniano che tutto il diritto è finalizzato all’uomo:

Inst. Iust. 1. 2. 12: …Nam parum est ius nosse, si personae, quarum causa statutum est, ignorentur.

Si può, pertanto, concludere che in un momento, come l’attuale, di crisi di valori e di crisi del diritto occorre tornare ai fondamenti della nostra civiltà giuridica, per scoprire qual’è l’essenza del diritto. Si vedrà così che essa risiede nella custodia e difesa della dignità del singolo uomo, nella consapevolezza che tutto il diritto è stato creato per le personae[9].

  1. A questo risultato dette un apporto significativo il pensiero Greco, ma la base fu la peculiare esperienza giuridica dei Romani, che dedicarono gelosa attenzione alle prerogative dell’uomo in quanto soggetto del diritto.

Tale soggettività, certo, era per antonomasia quella del civis e non dell’uomo tout court, ma fu suscettibile di allargamento e, dopo il 212, a seguito della concessione della cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero (ad opera di Antonino Caracalla), riguardò gran parte dell’orbe conosciuto e certamente tutto il Mediterraneo[10].

È questa la ragione per la quale la concezione della persona‑soggetto del diritto affonda le radici nelle specificità del retaggio che l’esperienza romana si portava dietro sin dall’età repubblicana e proto‑imperiale, quando il diritto pervenne alle forme passate nella giurisprudenza severiana e nel Corpus iuris, proiettandosi nel diritto canonico, nelle esperienze medievali e moderne, sino agli attuali diritti vigenti.

Com’è risaputo i Romani non conobbero un termine unificante — quale è per noi quello di persona o di capacità — per indicare il soggetto del diritto[11].

Essi concepirono il soggetto come un centro di prerogative legato a determinate situazioni e finalizzato alla crescita della Civitas, all’interno della quale tuttavia manteneva sempre la propria specificità, senza mai annullarsi nella collettività né perdere le prerogative personali dinanzi all’organizzazione cittadina.

Deriva da ciò la peculiare concezione di Popolo, che ha affascinato non pochi dei pensatori moderni e contemporanei[12]. Scaturisce anche da ciò la connessa singolarità dell’acquisto della capacità[13] non al raggiungimento della maturità intellettuale o quanto meno psico‑fisica, come è negli ordinamenti giuridici contemporanei e anche in molti dell’antichità, bensì al sopraggiungere della pubertà.

Sono questi due punti che visti da vicini mostrano quanto penetranti siano stati i principî romani nella costruzione di una giuridicità attenta alle istanze dei singoli, purtroppo spesso persi nel corso delle successive esperienze.

La pubertà nelle società in formazione assume sempre un significato sacrale ed è legata alle visioni più profonde del destino dell’uomo e delle fasi della sua evoluzione, in altre parole è una delle tappe più significative del ciclo della vita umana[14]. Solo tenendo presente questa premessa si comprende la  singolarità della scelta romana, in base alla quale l’adolescente, divenuto pubere, poteva percorrere la carriera politica sino alle più alte cariche e poteva diventare pater familias, avendo sotto di sé la madre e le sorelle[15]. Ora tutto ciò si può spiegare solo avendo presente il vincolo, che si nutrì di nessi e di antagonismo, esistente tra le familiae e la Civitas. In esso si inseriva il singolo quale componente delle une e dell’altra; ma mentre nelle prime era assorbente la figura del ‘capo’, nella seconda fu determinante l’apporto di ‘tutti i componenti’: perciò nella Civitas l’individuo trovò la sua affermazione più piena. La quale caratterizzò definitivamente il ‘diritto’, perché alla lunga la Civitas prevalse. Essa, infatti, era contraddistinta da un’idea di ‘crescita’ costante, che ne segnò tutta l’evoluzione[16]. In essa si allocò e trovò giustificazione il ricorso alla pubertas: essa, con l’acquisizione della capacità a generare, consentiva al singolo di ‘far crescere’ la collettività e, in quanto autore della crescita, gli dava titolo per entrare nell’organizzazione cittadina. Inoltre, poiché con la pubertà si passava ad una nuova fase della vita, nella quale un nuovo organismo veniva a sostituire il precedente, si potè affermare che vi era una nuova nascita e che essa, a differenza della prima, che avveniva nella famiglia, avveniva nella e per la Civitas. Nella struttura cittadina il pubere, dunque, entrava con titolo suo specifico e con attribuzioni connesse ai cicli della vita insopprimibili ed inalienabili, perché scaturenti da un ordine universale, che reggeva l’intero creato e del quale l’individuo era parte, ma anche depositario[17].

Perciò i Romani fissarono la pubertà al compimento del 14° anno, che nella visione cosmogonica della vita umana si presentava come multiplo del numero ‘sette’, ritenuto il numero intorno al quale si era costruito l’Universo (sette erano i pianeti, sette le note musicali, le fasi lunari etc.) ed era articolata la vita degli uomini e delle città[18]. La scelta della pubertà denota quanto si fosse radicata nella cultura romana la concezione che vedeva la vita dell’uomo, di ogni uomo, legata allo svolgersi di sequenze aventi carattere insopprimibile e universale. Essa contribuì alla consapevolezza della necessità che anche il ius ne dovesse tenere conto, poiché a nessuno era consentito, senza andare contro le leggi profonde della vita stessa, dimenticare ciò.

Persino quando si fosse trattato di schiavi, cui erano comunque garantiti alcuni diritti ritenuti essenziali e talora anche patrimoniali[19].

Proprio per questi motivi fu colta dai romani l’insostituibilità e la non coercibilità della realtà cosmico‑terrestre ‘uomo’, che si manifestava sin dal concepimento, ed implicò la salvaguardia dei nascituri, di qui in utero sunt[20].

Progressivamente questa realtà dell’uomo vivente, portatore di prerogative proprie ed espressione di leggi generali (per taluni autori antichi, cosmiche) venne sussunta nel termine persona. Riguardo al quale è da osservare che probabilmente, anche se radicata, la tesi che il termine stesse ad indicare esclusivamente l’homo, cioè l’uomo‑individuo, come espressione meramente biologica appare priva di reale fondamento o quanto meno decisamente incompleta[21]. In realtà le cose non sembrano essere state esattamente in questi termini, perché il pensiero romano fu più poliedrico e sfaccettato di quanto la dottrina moderna ha ritenuto e pervenne ad attribuire a persona anche il significato di soggetto del diritto, secondo un’articolazione variegata, che andava dagli schiavi ai liberi, dalle personae alieni iuris a quelle sui iuris, dai cives ai peregrini[22].

Esemplare mi sembra proprio la disciplina, già segnalata, dei nascituri. Per essi si discuteva se fossero o meno homines[23], considerandoli alcuni giuristi solo parte del ventre materno, che non si potevano riconoscere come figli, così come non si poteva chiedere alla madre di esibirli o di consegnarli[24], tuttavia fu ugualmente considerato centro di imputazioni giuridiche, concedendo la missio in possessionem ventris nomine, facendolo oggetto di lasciti e di designazione di erede etc., tanto che il giurista Salvio Giuliano, ne 2  secolo d. C. potè generalizzare affermando:

  1. 1. 5. 26 Iul. l. 69 dig.: Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse…

La misura della modularità seguita dai Romani è evidente, così come è chiara l’inadeguatezza dei concetti moderni per cogliere quei principî, rispettosi dell’uomo sin dal concepimento[25].

Tutto ciò è la conferma che la vita del singolo, pur se confluente nell’Organizzazione cittadina, era un proprium che gli apparteneva e che si completava senza scomparire nella Res Publica.

Ne scaturì anche una stretta compenetrazione di pubblico e privato[26] che è difficile riscontrare in altre esperienze e che segnò una felice armonizzazione delle esigenze del singolo con quelle della collettività.

Non a caso è stato notato che publicus mentre “fonctionne comme dérivé de populus, c’est à pubes qu’il se rattache pour la forme. Publicus est ainsi un hybride de populus et de pubes”[27]. E pubes indica sia il singolo sia la collettività, come nella locuzione Pube praesenti in contione, omni poplo ovvero in quelle che parlavano della Dardana pubes o della Albana pubes o della Italica pubes o Romana pubes e similari[28].

L’esperienza romana offre un intreccio significativo nel quale l’individuo era nella collettività ma nello stesso tempo era la collettività.

Il che è evidente nella concezione e della Città‑Stato e del suo substrato personale, il Populus Romanus Quirites, vissuto come entità concreta intesa come “tutti i cittadini”[29] e non come entità ideale e astratta, quale è nelle concezioni moderne. In siffatta concezione “certi diritti sono acquistati e difesi dal singolo cittadino”[30] e pone in evidenza, di volta in volta, “l’aspetto della ‘unione’ (o della ‘riunione’) e quello della pluralità”, la quale “ha implicazioni normative ben precise negli iura populi Romani”[31].

Questi iura meriterebbero un esame approfondito per evidenziare quanto le posizioni dei singoli, componenti la pluralità mantenesse un rilievo proprio, attraverso il riconoscimento di un ruolo che era allo stesso tempo di inerenza e di distinzione.

Al momento, a titolo esemplificativo delle implicazioni che ne conseguirono, mi limito ad accennare alle actiones populares, la cui suggestione ancora oggi mi sembra viva ed attuale.

In esse più che altrove si appalesa l’immedesimazione di pubblico e privato e risalta il ruolo essenziale dato al singolo ed ai suoi diritti vitali. Il tema, oggetto di numerose riflessioni e di vivaci discussioni, animate anche dalle dottrine liberali del secolo scorso[32] era intrinsecamente legato all’accezione di popularis, la cui storia è davvero esemplificativa, perché accompagna l’involuzione della posizione del civis nella società romana.

Non foss’altro per la sua risalenza, appare come proficuo punto di partenza quello relativo ai sacra, ricordato da Festo a proposito dei popularia sacra:

Festi L. 298. 22: Popularia sacra sunt, ut ait Labeo, quae omnes cives faciunt, nec certis familiis adtributa sunt: Fornacalia, Parilia, Laralia, porca praecidiana.

Nel brano vi è traccia di un significato di popularis connesso alla nozione di popolo, come insieme di cittadini[33]. Esso riflette le difficoltà di Labeone a sistemare entro le nuove categorie di ‘pubblico’ e ‘privato’ quella di ‘popolare’ che era antecedente alle prime due e a me pare esprimere anche un significato di popularis connesso con l’idea di crescita: infatti le cerimonie richiamate erano, per quel che se ne può sapere, legate ai momenti di sostentamento e di nascita, cioè a momenti essenziali per la ‘crescita’[34].

L’aggettivo conserva questa valenza per tutta l’età repubblicana e per buona parte di quella imperiale[35], ma progressivamente svilisce sino a diventare sinonimo di ‘popolo minuto”; resta in connessione con l’actio popularis, che spetta ad ogni cittadino per la tutela di interessi della collettività, dei quali, evidentemente, egli è considerato fruitore a titolo proprio[36] in quanto componente insostituibile del popolo[37].

Vi era, pertanto, una radice profonda perché la persona venisse considerata come portatrice di istanze e diritti proprî. Certo essa concerneva i cives e non gli uomini in quanto tali, ma bisogna tenere presente che le elaborazioni giuridiche furono fatte per i cittadini e poi vennero estese agli ‘uomini’ sotto la spinta dell’allargamento dei confini dell’Impero e, più tardi, della concessione della cittadinanza a gran parte dei sudditi. A quel punto si era affermata nella terminologia l’uso di persona per indicare gli uomini in quanto relazionanti con il diritto.

Queste radici sono, a mio avviso, determinanti, perché disposero all’accoglimento del pensiero Greco, che, in gran parte aveva fatto dell’uomo il centro delle proprie speculazioni e costruzioni.

  1. È dunque a questa matrice culturale, rimodellata nell’esperienza giuridica che bisogna guardare per penetrare nella storia della terminologia e delle determinazioni che concernono la persona.

Essa, proprio per le motivazioni illustrate, è stata il risultato di una concezione quasi esclusivamente antropocentrica, che trova radici e fulcro nel pensiero greco‑romano, così come fu vissuto, con evidenti connotazioni di specificità, nel diritto romano.

Da questo contesto parte e si fa strada il termine ‘persona’, la cui fortuna è incontrovertibile.

Come mai? La risposta la si può avere appunto solo dalla storia di questa felice espressione, che da ambiti ristretti, ha finito per contrassegnare l’uomo e i suoi valori più alti, assumendo una carica di ‘positività’ intrinseca.

Certo si deve tenere presente, come avverte il Cotta, che “la nozione di persona è passata per una lunga storia filosofica, segnata da approfondimenti, ma anche da equivoci e da cadute nel discorso retorico … Il primo punto da rilevare è che la storia della nozione filosofica di persona si è variamente intrecciata anche per la notevole influenza dell’elaborazione giuridica del termine all’avventura semantica della parola stessa, fino a giungere alle sue odierne indiscusse fortune. Oggi, infatti, persona è un termine connotato generalmente da un apprezzamento intensamente favorevole, venendo usato per designare una realtà umana dotata ‘di per sé’ di senso positivo”[38]. Ma proprio per questo è opportuno ripercorrerne le tappe principali, sia pure per sommi capi

In origine persona (in greco prósopon) indicava ‘la maschera teatrale’[39] e, per traslato, passò a significare il ruolo attribuito a ciascuna specifica maschera, cioè il personaggio teatrale, che era cosa ben diversa dall’uomo, esprimendo una realtà fittizia[40]. Ma ben presto si passò ad una ‘lettura’ antropomorfica del termine, poiché filosofi, come Epitteto[41], videro la stessa vita umana come una rappresentazione teatrale, nella quale l’uomo era chiamato a recitare bene la parte assegnatagli, ma non scelta da lui stesso, poiché egli, come dirà ai nostri tempi Heidegger, viene “gettato” nella vita mondana.

Il favore per l’accoglimento del termine si manifestò subito perché “La maschera teatrale, infatti, si presta bene a celare molte differenze di coloro che la portano; e pertanto persona si prestava meglio di homo (che poteva essere distinto da mulier, da puer, ecc.), a designare ogni essere umano, indipendentemente da differenze di sesso, di età, di condizione giuridica”[42]. Il termine si presentava, perciò, come idoneo a farsi carico di una visione generalizzante dell’uomo, di là dalle distinzioni imposte dalla sua specifica condizione.

Tuttavia il mondo romano, pur ponendo le premesse per la sua diffusione e per la sua percezione riguardo alle prerogative dell’uomo, non procedette ad una completa elaborazione intorno a persona.

Il salto di qualità persona lo compie nel pensiero cristiano, attraverso l’accostamento a Cristo e alla SS. Trinità, in parte mantenendo, in parte ignorando, ma sempre superando il riferimento all’origine scenica del termine.

Il significato originario di “maschera” si presta facilmente ad essere inteso come “volto” e, in tale accezione, viene impiegato in riferimento alla SS. Trinità per indicare il ‘volto’ del Padre, cioè Gesù Cristo; il Padre, infatti, si mostra attraverso il Figlio, che, in tal senso, è ‘persona’[43]. Di qui si compie un ulteriore passo, che consiste nell’uso del termine con significato analogo anche per gli uomini, visti come ‘persone’ viventi un’esperienza propria storicamente contrassegnata nell’ambito del messaggio salvifico dell’Incarnazione. A conclusione di questo iter cultural‑semantico si perviene ad attribuire definitivamente al termine il significato “di persona individuale e individuata”[44]. Non c’è più motivo di ricordare l’origine teatrale, ma talora essa appare utile a far risaltare il contenuto di ‘valore’ del termine, a sottolinearne l’attinenza con la dignità delle persone, come farà, ad esempio, S. Tommaso d’Aquino, che spiega: maxime Deo convenit quia enim in coemediis et tragoediis rapraesentabantur aliqui homines famosi, impositum est hoc nomen, persona, ad  significandos aliquos dignitatem habentes[45].

  1. Come che sia, si può dire che la situazione non cambia per lungo tempo e che la nozione di persona non è oggetto di particolari determinazioni fino al XVI secolo[46], ma progressivamente si avvia ad una specificazione che finirà per alterarne i connotati. Pur se importanti discussioni non si registrano, si assiste ad una precisazione graduale nel linguaggio giuridico.

Il termine, giunto già con Gaio (nel 2  secolo d. C.) a denotare l’uomo, dà vita a progressive specificazioni tecnico‑giuridiche.

La prima porta a puntualizzare che persona nel diritto è diverso da homo, in quanto la sua qualifica passa attraverso un riconoscimento del diritto, che prescinde dalla situazione naturale. Ad esempio, dirà Hugues Doneau, (Donellus, 1517-1591): homo naturae, persona iuris civilis vocabulum[47]. Il cammino in questa direzione l’iniziano i Canonisti medievali i quali usano persona per qualsiasi ente cui sia imputabile l’agire e quindi la capacità giuridica. Essi partono da un’assimilazione metaforica (quasi una «finzione»), per includere tra le personae anche le personae fictae, (le universitates), dando inizio alla figura dogmatica delle cosiddette «persone giuridiche», distinte, con brutta formulazione, dalle cosiddette «persone fisiche». Su questa nuova concezione si innestano due spinte che conducono da un lato alla ‘patrimonializzazione’ dall’altro all’astrazione del concetto di persona.

Considerando che uomo è colui che, potendo disporre pienamente di sé, acquisisce il dominium rerum externarum, la seconda Scolastica e le correnti di pensiero di cui punta d’avanguardia fu il Locke, posero le premesse per l’assunzione di un contenuto economico nel concetto di persona, che, specie nel XIX secolo, viene a realizzarsi nella figura del proprietario[48].

Per altro verso si costruisce una nozione formale ed unitaria di persona, riferibile tanto agli uomini quanto alle collettività, come centro d’imputazione di doveri e diritti fissati e riconosciuti dall’ordinamento giuridico, che il Kelsen indicava in questi termini: “La persona fisica o giuridica che ‘ha’ (come titolare dei medesimi) doveri giuridici e diritti soggettivi, è questi doveri giuridici e questi diritti soggettivi, è cioè un complesso di doveri giuridici e di diritti soggettivi, la cui unità si esprime in modo figurato nel concetto di persona”[49]. In conseguenza di ciò viene considerata persona qualsiasi ente cui sia imputabile il compimento di atti.

A conclusione di questo processo si perviene alla specificazione del termine, che perde il suo significato generale, frutto della concettualizzazione filosofica che aveva portato all’identificazione tra persona e uomo (inteso come realtà razionale da Boezio e da pensatori moderni, tra i quali spicca Kant). Esso si particolarizza. Su di lui premono le esigenze sempre più ‘esclusive’ dell’economia, che ancora oggi condizionano il diritto vigente.

Vi è una più vigorosa esigenza di adeguare ‘il giuridico’ alla realtà giornaliera, di concretizzarlo nello specifico del contesto socio‑economico difendendo la facoltà di scelta dell’Ordinamento, unico arbitro della giuridicità e della soggettività. Questa “ricerca di una adeguazione giuridica alla realtà dell’agire e degli interessi, sempre meno imputabili in via prevalente al singolo, cade nell’astrattezza d’un concettualismo formale, per cui non ogni persona (in senso giuridico) è uomo. Codesta duplice ma opposta valenza semantica (restrittiva l’una, estensiva l’altra) viene divulgata da ideologie, recepite anche dalla scienza giuridica, e resa operante dal completo monopolio d’una invadente normazione giuridica che lo Stato moderno‑contemporaneo si è attribuita. Persona viene perciò a significare, da un lato, il concretissimo proprietario, dall’altro l’astratto e quasi disumanato «attore» giuridico. Si determina, pertanto, ai giorni nostri una diffusa reazione filosofica, che nega al primo la capacità di risolvere in sé l’integralità della persona, poiché ne rileva la dipendenza ultima dalle cose, l’eteronomia. E critica il secondo, perché privo di consistenza esistenziale, mera apparenza artificiale, come aveva già rilevato Hegel nella sua dura critica al Rechtszustand, di nuovo maschera come in antico: e la maschera può nascondere il duro volto del proprietario, dell’uomo «dell’avere»”[50].

Si arriva ad una costruzione, attuale ancora ai nostri giorni, nella quale ogni posizione giuridica dell’uomo dipende dal riconoscimento dell’ordinamento giuridico (per lo più statuale) ed è oggetto di astrazioni che spesso sono dettate da interessi economici, più che dalla considerazione della dignità umana. L’uomo è schiacciato nell’ordinamento, esso stesso dichiaratosi persona, come Stato o altro, dove è accerchiato da altre persone che sempre più e più di lui contano: le persone giuridiche, le grandi società, le multinazionali[51].

Ecco perché i filosofi si sono impegnati a riscoprire il valore della persona‑uomo, tornando a riflettere sul tema ed ad avocare a sé la competenza di indicare i ‘valori’ della persona. Ma le costruzioni che ne sono scaturite sono state imperniate sulla dualità tra uomo isolato e uomo inserito nel contesto sociale, che ha finito paradossalmente per rinforzare l’assorbimento dell’uomo nella collettività.

Ciò perché la via scelta è stata quella dell’opposizione tra individuo e persona, come espressione di diverse ‘esistenze’ riconducibili alle categorie di autenticità (definiente la persona) e di inautenticità (definiente l’individuo). Sul punto si è significativamente inoltrato l’esistenzialismo filosofico, dando vita al cosiddetto «personalismo» e ad un’accezione entrata nell’uso corrente, almeno in dottrina. La distinzione si basa per alcuni sulla prevalenza di un criterio che possiamo indicare come ‘valutativo’, sul quale si installerebbe la persona, rispetto al criterio ‘conoscitivo’, proprio dell’individuo[52]. Oppure si è fatto leva sulla distinzione tra l’agire e l’essere: Maritain, Renouvier, Gentile, Berdiaev insistono nel sottolineare che mentre si è individuo, ci si fa persona e che criterio discriminativo è il valore, che appartiene esclusivamente al farsi della persona. Maritain osservava: «in quanto individui, siamo sottomessi agli astri». A questa posizione di supino abbandono al proprio destino l’uomo può contrapporre la propria iniziativa, che gli fa perseguire fini superiori, che lo trasforma in persona. Egli, in tal modo passa dalla posizione ‘statica’ a quella ‘dinamica’; ossia, come incisivamente diceva il Renouvier, l’uomo può: «fare e, facendo, farsi», secondo una formula condivisa da Giovanni Gentile e ripresa da enunciazioni successive. Così Marcel sosteneva che la migliore indicazione della persona «non è sum, ma sursum» e Berdiaev rilevava che essa «non è mai un dato tutto già fatto: è … l’ideale dell’uomo», insomma è «attività creativa». In sintesi: si ‘è’ individuo, ‘ci si fa’ persona[53].

In tal modo, si ripropone con forza la problematica del nesso tra persona e valore: l’uomo in sé non significa molto, è mera espressione biologica; invece si valorizza attraverso l’azione, se indirizza il suo comportamento verso i valori. Egli realizza il suo destino, cioè se stesso, attraverso l’agire, ma l’azione da sola non dice ancora nulla sulla teleologia del suo divenire, occorre che sia rivolta al perseguimento di contenuti positivi, vale a dire bisogna che persegua dei valori.

Vi è qui però un evidente vizio, che si risolve in una contraddizione in obiecto: se la persona, infatti, è valore in quanto ‘si fa’ come si può sostenere che tuttavia il farsi debba essere rivolto alla realizzazione di valori, sicché, non ogni farsi è valore?

Più appropriatamente i pensatori di ispirazione cristiana difendono, all’opposto, l’identità tra individuo e persona, in quanto è l’uomo, ad un tempo individuo e persona, ad essere stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio, avente dignità propria risiedente tanto nella ragione, come voleva Kant, quanto nel sentire ed agire etico, come viene evidenziato da Scheler, Hartmann, Kierkegaard, sino ad Heidegger, secondo una proiezione che rende attuali la prima e la seconda Scolastica e le introspezioni esistenziali di S. Agostino[54].

Ma, nel complesso, si può dire che la contrapposizione individualismo e socialità, spesso ricondotta a quella tra egoismo e apertura verso gli altri, impernia costantemente le tematiche della persona e porta a situazioni che, talora di fatto, annullano il singolo e le sue istanze fondamentali. È ovvio che posta in termini di egoismo o di perseguimento del Bene Comune la questione sembri di facile decisione; ma è pura illusione.

In realtà (ove si prescinda dall’ipotesi convenzionale dell’uomo secondo natura del Rousseau, che supponeva lo sviluppo dell’uomo da una origine di vita isolata e autosufficiente[55]), si può affermare che nessuno ha mai pensato ad un individualismo del tutto isolante. Gli stessi giusnaturalisti moderni, sostenitori dello stato di natura, hanno sempre pensato ad una vita di relazione, anche quando l’hanno ritenuta fondata sugli impulsi passionali o dominata dai rapporti di forza (Hobbes, Spinoza), piuttosto che regolata dalla ragione naturale (Locke). Ma tale relazione è stata vissuta o in forma esasperata, come nel caso dell’individualismo[56] o in forme che annullano il singolo nella collettività[57].

I danni (gli orrori!) causati da queste posizioni sono noti e catastrofici.

Si è reagito tornando alla rivalutazione dei valori come obiettivo del farsi e mettendo in evidenza “l’insopprimibile relazionalità delle persone: vita da vita, vita con vita”[58], dove l’esistenza stessa è una co‑esistenza (il Das‑sein è un Mit‑sein, affermava Heidegger[59]), e la riflessione su di sé implica il riconoscimento degli altri uguali a sé stessi[60]. Viene, pertanto, rilanciata la centralità della persona, “colta nella sua intrinseca sintesi di unicità e relazionalità”, poiché: “di contro alle considerazioni fenomeniche della persona e della sua socialità — che o considerano la società una costruzione volontaria o risolvono la persona nella società storica, fino a farne dipendere l’esistenza da questa, o collocano la persona in una indefinibile comunità — emerge la realtà ‘strutturale’ della persona. Essa è unica e irripetibile”[61].

Ma sono i termini di tale centralità e di tale relazionalità a dover essere profondamente ridiscussi.

In nome della centralità della persona oggi stiamo per arrivare ad un punto di non ritorno per la vita del pianeta, che vuol dire anche ad una compromissione irrimediabile per la sopravvivenza stessa dell’umanità.

In nome della relazionalità, dell’uomo con l’altro uomo ma in un rapporto legato ai valori universali, si sta tornando ad una coartazione dei diritti fondamentali — magari in nome della religione o dell’Etica (vedasi l’insorgenza dei fondamentalismi di varia matrice). Inoltre i valori vengono sempre più inclusi in contesti specifici (quali, la nazionalità, la razza etc.) e conflitti supportati da spinte anche ideali[62] diventano sempre più sanguinosi. Per di più i condizionamenti economici stanno minando le possibilità di sviluppo e sopravvivenza di intere popolazioni.

In tutto questo drammatico contesto, paradossalmente, è costante il richiamo alla persona ed ai valori.

A che serve l’enunciazione e la rivendicazione di un diritto, di principî, sui quali tutti concordano, perché paiono connotati di una accentuata positività, ma che spesso per risultato mostrano la sopraffazione e la distruzione?

Credo proprio che sia da chiedersi se forse non sia giunto il momento di abbandonare vecchi percorsi, anche prestigiosi (quale è quello legato al termine persona ed alle sue implicazioni e suggestioni) e tentare vie nuove, se non ci si voglia rassegnare al fallimento del diritto.

Punto di partenza non può non essere la consapevolizzazione intorno al fatto che il tempo presente si svolge in una situazione profondamente mutata rispetto all’intera Storia dell’Umanità. Perché oggi è in forse la stessa possibilità di sopravvivenza dell’uomo. Oggi, infatti, lo ‘sviluppo’ sta compromettendo il futuro della sua specie e forse del Pianeta, o quanto meno della Vta evoluta. Le questioni dell’aumento dell’anidride carbonica nell’aria, del buco nella fascia dell’ozono, della deforestazione selvaggia, dell’affollamento delle zone costiere, soprattutto nelle zone costiere del Mediterraneo (mare, per giunta, dal lento e faticoso ricambio), sono di tale entità che non possono essere inquadrate e risolte nell’alveo dei concetti giuridici tradizionali.

Occorre farsi carico di ciò fino in fondo. Per la verità i problemi sono diffusamente affrontati in più aspetti e con provvedimenti o elaborazioni persino sovrabbondanti. Manca però la consapevolezza profonda che essi non possono venire risolti negli schemi tradizionali del diritto e che, al contrario, richiedono un’ottica nuova, che non può non essere quella della centralità di Gea (della Terra).

A ciò si suole obiettare che è comunque non pare concepibile un diritto che non nasca e non sia finalizzato all’uomo, perché lui e solo lui ne è l’artefice. Ma mi pare falso illudersi che il diritto, pur se rimesso all’uomo per la sua esecuzione, non abbia fondamenti che lo trascendono[63].

Invece mi pare che solo abbandonando le costruzioni antropocentriche, oggi dominanti, si può ridefinire il ius in funzione della Terra e delle generazioni future. Questa nuova ottica[64] comporta la individuazione delle situazioni oggettive nelle quali l’azione dell’uomo può essere ritenuta giuridicamente giustificabile e impone una rivoluzione nel diritto. Non più gli Stati, le persone giuridiche confessionali o economiche, possono essere arbitri dei valori e decidere il diritto degli uomini. Vi è necessità di definire gli standards minimi che in qualsiasi condizione vanno garantiti e, naturalmente, va individuata una Autorità che abbia il potere di imporli. Questa Autorità dovrà essere necessità sovranazionale e deve muoversi in consonanza con l’esigenza della salvaguardia dell’Ambiente e dei Suoi abitanti, rispettandone la dignità e la tutela.

Appare questa la via più diretta per intervenire imponendo innanzitutto la pace, e con essa politiche di perequazione dei redditi contro la fame derivante dalla diffusa indigenza dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Si dovrà in questa ottica altresì rivedere i rapporti economici tra i Paesi e nei confronti delle grandi Società (le persone giuridiche multinazionali..), con particolare riferimento al debito internazionale, che in ogni caso non dovrà comportare oneri che (come oggi avviene) compromettano la sopravvivenza dei Paesi stessi e dei suoi abitanti[65].

Ne deriverà l’accrescimento di quegli strumenti (azioni popolari, ricorso a Corti sovranazionali etc.) che già oggi, in alcuni Stati o in alcune aggregazioni regionali dovrebbero garantire l’uomo.

Il termine persona, nel diritto, o si rivitalizza oppure, per il retaggio della storia che porta con sé, è meglio che venga abbandonato a favore di nuove terminologie, che implichino il nuovo approccio e la nuova dimensione. Solo così l’uomo, la Sua dignità, il Suo futuro, potranno essere salvaguardati ed uscire dalle mistificazioni di un linguaggio ambiguo, che in nome dei valori, in nome della persona, oggi spesso soffoca l’uomo.

La prospettiva non è semplice da realizzare. Fin dalla filosofia Greca l’Uomo moderno si è abituato a ragionare in nome di un antropocentrismo[66] che finiva per divenire particolarismo o utilitarismo o isolazionismo; ma l’idea della persona centro del tutto era ed è radicata.

La sfida che ci attende è quella di uscire da essa per porci in una prospettiva geocentrica, volta alla salvaguardia delle prospettive, del futuro.

Essa non vuole essere un utopistico ritorno ad irrealizzabili stati di natura, bensì un concreto porsi come questione centrale quella del superamento dei ‘valori’ di qualsiasi natura (economici in primo luogo, ma anche nazionali, di religione, di razza), anche se affermati nella Storia, a favore di una prospettiva che salvaguardi le specificità ambientali e culturali. In essa l’uomo, anche se non più referente esclusivo, verrebbe ugualmente e forse meglio valorizzato, in quanto essenziale al contesto, ma non come l’unico detentore del potere di decidere di esso. In tal modo ognuno vedrebbe riconosciuto e tutelato il diritto a popolare la Terra, con tutte le sue specificità.

Mi pare che, anche se a prima vista può non apparire evidente, la nuova impostazione comporterà una revisione di tutto il diritto a tutti i livelli (nazionali e sovranazionali), con articolazioni  anch’esse tutte da specificare ed elaborare.

Su di esse occorre iniziare da subito la riflessione e la costruzione.

[1]    L’uso di tale terminologia è diffuso. Tuttavia va avvertito che non appare corretto, perché fa capo ad una ripartizione tra  soggetto ed oggetto, che nel diritto non ha molto senso; meglio sarebbe far riferimento alla rilevanza giuridica. Per un penetrante sguardo d’assieme sul diritto contemporaneo se ne veda, da ultimo, l’esaustiva esposizione, riferita al diritto italiano, in perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli, 1997, pp. 115-6: “Persona umana e soggetto. Persona fisica è l’uomo considerato da diritto nella sua individualità e nei rapporti con gli altri. Preliminarmente occorre individuare il rapporto esistente tra la persona ed il soggetto. Due sono le linee di tendenza nelle quali sembra possibile riunire numerosi indirizzi dottrinali. Taluni, senza effettuare alcuna distinzione, discorrono indifferentemente di persona, soggetto, uomo, individuo. Storicamente, l’atteggiamento si accentua man mano che l’individuo è liberato dalla soggezione perviene agli status, fonti di privilegi e di discriminazioni. Lineare la conseguenza: ogni essere umano vivente è persona e quindi soggetto di diritto. Meno diffuso, invece, è l’orientamento che, ravvisando l’esistenza di differenti ámbiti di incidenza per il soggetto e per la persona, propone di tenerli separati. Le dispute sulla confluenza o sulla precisa suddivisione delle sfere d’influenza tra soggetto e persona non segnano alcun progresso rispetto al fine, perseguito dall’ordinamento, di valorizzare a pieno l’uomo nel suo essere e nelle manifestazioni del suo agire. In tal modo, però, si ridimensiona l’affermazione che tutte le persone umane sono soggetti di diritto: lo sviluppo storico e lo studio comparatistico degli ordinamenti giuridici dimostrano che il dato non è immutabile e la dottrina ricorre al termine soggetto (anziché a quello di persona), là dove si occupa del fenomeno soggettività in termini di struttura, mentre alla persona riserva un significato piú contenutistico”. La separazione tra persona umana e soggettività giuridica, nella dottrina contemporanea, è poi evidenziata dalla terminologia che distingue, talora per identificarveli, tra capacità giuridica, soggettività e personalità. In proposito il perlingieri, loc. cit., osserva: “Per unanime opinione la capacità giuridica assurge a principio generale dell’intero ordinamento giuridico. Essa è definita dalla dottrina come idoneità di un soggetto ad essere titolare di diritti e doveri e piú in generale di situazioni soggettive. Secondo taluni però occorre distinguere la capacità giuridica “generale”, che in quanto attitudine astratta e generica è estesa a tutti gli uomini, dalla capacità giuridica speciale, quale incidenza della capacità generale sulla possibile titolarità delle singole situazioni.

[2]    V. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juriste2, 1967, pp. 224 ss., 245 ss.; Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50. 17. 23, Appendice, 1989 p. 1 ss.1-3.

[3]    V. Frezza, La cultura di Ulpiano, SDHI 1968, pp. 365 ss., il quale mette in risalto il legame che doveva esserci stato tra il giurista ed i grandi pensatori della Siria, Origine e Porfirio, i cui insegnamenti sembrano presenti anche nell’impostazione dell’attività giuridica di Ulpiano, che espressamente si vantava della sua origine fenicia in D. 50. 15. 1. pr. Ulp. 1 de cens.: Sciendum est esse quasdam colonias iuris italici, ut est in Syria Phoenice splendidissima Tyriorum colonia, unde mihi origo est, nobilis regionibus, serie saeculorum antiquissima, armipotens, foederis quod cum Romanis percussit tenacissima: huic enim divus Severus et Imperator noster ob egregiam in rem publicam imperiumque romanum insignem fidem ius italicum dedit:

[4]    V. Frezza, La cultura di Ulpiano, SDHI 1968, pp. 365 ss., il quale mette in risalto il legame che doveva esserci stato tra il giurista ed i grandi pensatori della Siria, Origine e Porfirio, i cui insegnamenti sembrano presenti anche nell’impostazione dell’attività giuridica di Ulpiano, che espressamente si vantava della sua origine fenicia in D. 50. 15. 1. pr. Ulp. 1 de cens.: Sciendum est esse quasdam colonias iuris italici, ut est in Syria Phoenice splendidissima Tyriorum colonia, unde mihi origo est, nobilis regionibus, serie saeculorum antiquissima, armipotens, foederis quod cum Romanis percussit tenacissima: huic enim divus Severus et Imperator noster ob egregiam in rem publicam imperiumque romanum insignem fidem ius italicum dedit:

[5]    Nella contrapposizione, insita nell’affermazione di Ulpiano, forse vi era l’eco di una polemica risalente che aveva contrapposto la vera philosophia alla simulata philosophia, e che “sembra raccogliere echi ciceroniani e quintilianei” (cosí Bretone, Storia del diritto romano2, 1987, 273 ed ivi nt. 82, con ragguaglio bibliografico, anche riguardo alla tesi del Nörr, che vede in Ulpiano la risposta all’accusa mossa da Cicerone, quando nel pro Murena 14. 30 aveva bollato l’attività dei giuristi come verbosa simulatio prudentiae).

[6]    D. 1. 1. 1. pr. – 1 Ulp.: 1 ist. Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes. Va detto che Ulpiano proponeva un ideale di vita pratico, calato nella realtà e non lontano da essa come i filosofi, ed in particolare Origene, avevano sostenuto, asserendo che bisogna perseguire la vera filosofia per vivere la vera vita, lontana dalla milizia, dall’attività forense, dallo studio delle leggi (cfr. Greg. Thaumaturgus, in Origenem, oratio panegyrica, – Migne, patr. Gr., 10, p. 1069 A – B). Ulpiano, invece si collegava alla tradizione aristotelica ed alle correnti di pensiero che avevano visto il nómos come la forma che consentiva di discernere ciò che giova da ciò che nuoce (v., per esempio, riguardo ad Archelao ed Ippocrate Polenz, Nomos und Physis, in Klass. Schriften, 2, 341 ss.) e che sostanziava la virtú degli dei di distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, come già Euripide (Hecuba, vv. 800-801) aveva detto. Il Nörr, Iurisperitus sacerdos, Xénion. Festschrift Zepos, 1973, p. 557, suppone una probabile antecedenza alla qualifica di sacerdotes rivendicata da Ulpiano per i giuristi in una formulazione di Seneca, De vita beata 26. 7

[7]    Soprattutto della neoplatonica: v. Frezza, La cultura, cit., p. 371. Era la concezione superiore del diritto a fornire ad Ulpiano una visione elevata del ruolo dei giuristi, visti come sacerdoti chiamati ad una missione totalizzante della scienza divina ed umana: D. 1. 1. 10. 2: Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia.  Sul punto e sulle tematiche connesse v. Bretone, Storia del diritto romano2, cit., partic. pp. 270 ss., 346 ss. che ricostruisce tutti gli itinerari culturali e le valenze connesse alle affermazioni ulpianee e alle visioni sul ius della giurisprudenza romana.

[8]    Nel pensiero di Ulpiano la priorità spetta alla giustizia che consiste nella costante e perpetua volontà di riconoscere a ciascuno il proprio diritto (D. 1. 1. 10. pr.: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi), secondo un’affermato assioma greco, divulgato in Roma da Cicerone (De legibus 1, 6, 19).

[9]    La centralità della persona è pienamente avvertita dai filosofi moderni. Rosmini assa sulla persona le sue teorie etico‑giuridiche; per lui: «il concetto del diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente» (Filosofia del diritto, I, ed. 1967, pp. 106, 191).

[10]  Sull’evento, ricordato anche avanti alla nt. 5, che va sotto il nome di Constitutio Antoniniana , da ultimo v., anche per la disamina della piú significativa letteratura, Bretone, Storia del diritto romano2, cit. pp. 443 s.

[11]  I termini usati, status, caput, (ancora meno) capacitas avevano tutti portata specifica, connessa al contesto nel quale venivano adoperati: v. quanto osservo in La pubertà a Roma. profili giuridici, 1993, p. 14 s. con bibl. in nota, “Essi  — i Romani — trattarono della idoneità negoziale … per lo piú partendo da problemi singoli, in un contesto, che, pur non escludendo concezioni generali, era molto diverso e piú complesso del nostro. In esso, infatti, come si è detto, le situazioni soggettive erano dipendenti dagli status (di libertà — libertatis —, di cittadinanza — civitatis —, di famiglia — familiae) della persona e strettamente legate all’organizzazione della famiglia e della patria potestas (patria potestà). Perciò la realtà romana non avvertí l’esigenza di una concezione generale della capacità, né pervenne a distinzioni, prima fra tutte quella tra capacità giuridica e capacità di agire, raffrontabili con quelle degli ordinamenti odierni. A ciò faceva riscontro anche l’assenza di una terminologia che esprimesse in via generale l’attitudine della persona ad essere titolare di diritti o doveri e a compiere gli atti idonei a provocare gli effetti giuridici previsti dall’ordinamento, che sostanzia l’odierna nozione di capacità”.

[12]  Sul punto v. Catalano, Populus Romanus Quirites, 1974, cap. I: Populus e civis: Da Rousseau a Nietzsche.

[13]  Il termine verrà usato nel significato odierno, perché è parso quello piú idoneo ad indicare le situazioni di soggettività e capacità giuridica, in considerazione del fatto che capacità nell’uso odierno ha portata generale e può riferirsi ad ogni situazione con implicazioni giuridiche rilevanti: v. Falzea, sv. Capacità (Teoria generale), ED VI, 1960, p. 8 s.

[14]  V. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche — Contributo alla storia della famiglia romana2, 1978, p. 39 s. Mutuo l’espressione ciclo della vita dal Pugliese, Il ciclo della vita individuale nell’esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni Lincei 61 (1984) – Colloquio: Il diritto e la vita materiale (Roma, 22-23 novembre 1982), 55 ss. Segnalo il fatto che il contributo è un archetipo esemplare per i temi legati alla considerazione della vita individuale ed in particolare alla problematica relativa all’età minorile; esso, peraltro, è l’ultimo di alcuni saggi, che denotano l’acuita attenzione dell’Autore per i problemi dei minori nella realtà romana; gli altri sono: Precedenti romani della moderna legislazione sui minori, in Atti dei Convegni Lincei 59 (1983) — Colloquio italo-polacco: La legislazione sui minori (Roma, 22-23 novembre 1979), 111 ss.; Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano, in St. Biscardi IV (1983), 469 ss. Rinvio comunque alle specificazioni, anche bibliografiche, da me fatti in Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, 1988, cap. I. 1.

[15]  La peculiarità di tale posizione richiederebbe un lungo discorso che non si può qui nemmeno accennare. Per lo status doctrinae, l’analisi dello sviluppo e dell’esercizio della patria potestas all’interno dell’organizzazione della familia e per un vaglio critico e completo delle fonti giuridiche e letterarie: Rabello, Effetti personali della “patria potestas”, I – Dalle origini al periodo degli Antonini (1979). Ricordo i riferimenti nei manuali istituzionali: Burdese, Diritto privato romano, 1977, pp. 221 ss.; Guarino, Diritto privato romano7 (1984), 309 ss.; Serrao Diritto privato economia e società nella storia di Roma 1 – Prima parte, 1984, 211; Marrone, Istituzioni di diritto romano, 1988, 288; Talamanca, Istituzioni di diritto romano, 1990, pp. 119 ss.; Nicosia, Institutiones – Profili di diritto privato romano, parte I, 1991‑92, pp. 86 ss.

[16]  L’etimologia di pop(u)lus, che potrebbe provenire da una radice mediterranea, importata dagli Etruschi, equivalente a “crescere”: cfr. Devoto, Storia della lingua di Roma (1940), 57, 77,80; De Martino, Storia della costituzione romana I (1958), 88 ed ivi nt. 30.  Il collegamento tra poublicus, publicus e il significato di crescita era già intravisto dal Ceci, La lingua del diritto romano, I, Le etimologie dei giureconsulti Romani , 1892, 1112, che richiamava, in proposito, l’opinione del Thurneysen.

[17]  Sono questi i temi affrontati in altra sede, nella ricerca sulla pubertà, alla quale, qui, non posso che rinviare: La pubertà a Roma. Profili giuridici, 1993 – ed. parzialmente rivista di Pubes e viripotens, cit.

[18]  Il sette era il numero intorno al quale era organizzata l’intera esistenza umana. Richiamo quanto ho già osservato in La pubertà a Roma, cit, 124 s. nt. 20-21, il sette diventò il simbolo della perfezione e il multiplo intorno al quale si scandivano gli avvenimenti piú importanti della vita. Perciò la Città, che aveva una posizione ed un destino particolare al centro del mondo, doveva nascere da una combinazione di sette, cosí come la vita dell’uomo doveva avere un ritmo settenario. Queste idee furono espresse da Varrone con accuratezza e in forma precisa non meno che diffusa, in modo particolare nelle Imagines o Hebdomades, nelle quali magnificò le molte e varie potestates del numero sette: Gell., III.10.16 Haec Varro de numero septenario scripsit admodum conquisite. Gellio ricordava le principali tesi del Reatino, dalle quali risulta che questi poneva il sette come perno di una visione cosmogonica e globale dell’esistenza, tale cioè da essere a fondamento di tutto l’universo e della vita degli uomini, immersi in esso. Tra l’altro, il sette era il numero che ripartiva le zone del cielo (di qui forse nasceva un paragone con Roma, fulcro della Terra, che imitava il cielo, secondo una configurazione che venne poi esplicitata dopo molti secoli da Claudiano: cfr. Gelsomino, Varrone cit., 63). Sette erano i circoli dell’asse celeste e intorno al sette era strutturato lo zodiaco, cosí come alla scansione di sette corrispondevano i solstizi e gli equinozi, mentre anche le fasi lunari potevano ricondursi a multipli di sette (Gell., III.10.1-6). In questa vasta visione del creato si collocava anche la nascita e lo sviluppo degli uomini, anch’essi regolati dal sette: Ad homines quoque nascendos vim numeri istius porrigi pertinereque ait (Gell., III. 10. 7). La trasformazione del seme in uomo, la gestazione (riguardo alla quale, per giustificare il richiamo a sette, non prendeva in considerazione il termine normale dei nove mesi, bensí quello minimo per poter dare alla luce un figlio vitale), la dentizione, la corporatura e i periodi fortunati o pericolosi della vita dell’uomo, il sistema sanguigno, le malattie e la stessa morte  erano regolati dal sette (Gell., III.10.7-15). … le concezioni sui numeri e il collegamento con la vita dell’uomo avevano origini antichissime nella filosofia greca, anche se forse attinte a concezioni derivate da altre correnti di pensiero. La corrispondenza, sul punto, tra il pensiero di Varrone, e quello di Cicerone, che arrivò a vedere il numero sette come rerum omnium fere nodus (De Rep. VI.13), è la conferma piú eloquente della diffusione e del favore delle nozioni elaborate dalla speculazione ellenica…. Plutarco annodava ad Eraclito una dottrina degli Stoici, secondo la quale la trasformazione del seme in uomo dovesse avvenire in base ad un multiplo di sette, dopo due settimane. Del posto occupato dal numero sette nel pensiero di Platone, di Stratone Peripatetico, di Dione Caristio e, soprattutto, di Ippocrate ci hanno parlato, piú di ogni altro, Galeno e Macrobio. Il primo a piú riprese lascia intendere che Ippocrate dovette avere presente la scansione settenaria della vita umana. Di particolare rilievo, per noi, appaiono i punti nei quali questa scansione veniva collegata alla pubertà. Negli ‘Aforismi’ il medico del 2° sec. d. C., commentando e completando l’aforisma del venerato capostipite di Coo sulle malattie acute, aggiungeva che forse esso poteva essere riferito anche alle malattie diuturne, le quali si manifestavano entro sette mesi, entro sette anni, sino al quattordicesimo anno, che rappresentava l’età della pubertà, secondo una sequenza settenaria (Medicorum Graecorum opera quae exstant — Claudii Galeni Opera Omnia — edit. Kühn (1829, rist. 1963) fr. XXVIII (Chart. IX.124 – Bas. V.264), p.638 s. E che l’Autore desse per scontata la scansione settenaria è evidente anche da altre sedi: ad esempio dal successivo aforisma XXX in cui diceva che la gioventú era delimitata dal quinto settenario e, perciò, dimostrava che la partizione in sette accompagnava la visione di tutta la vita umana. Le stesse opinioni erano esposte anche altrove: (Chart. IX.126 – Bas. V.264), (Medic. Graec. cit. – De Hippocratis et Platonis placitis l. 8 — Chart. V.240 – Bas. I.325 —,  695), (Med. Graec. cit. – De sanitate tuenda l. 6 — Chart. VI.165 – Bas. IV.277 —, 387). Ancora piú ricche di indicazioni e di sfaccettature sono le notizie fornite da Macrobio. Un’attenzione particolare, secondo l’Autore, venne accordata ai numeri dai Pitagorici, per i quali il numero sette meritava addirittura ammirazione, perché racchiudeva gli elementi ‘vitali’ per la perfezione e completezza: infatti era composto di un numero dispari e di un numero pari. L’Autore, allo scopo di mostrare che quel numero si inseriva in una teoria universale sia dell’umano quanto del divino, richiamava il Timeo di Platone e si diffondeva in una vasta trattazione, nella quale intrecciava notizie generali sui numeri, dei quali il sette, con l’otto, appariva “ad multiplicationem annorum perfecti in re publica viri” (1. 6. 3) e adatto a rappresentare l’anima del mondo, con notizie relative alla scansione settenaria della vita umana. La formazione del seme, i primi movimenti del feto, il tempo del parto, il distacco dalla placenta, l’acquisto della vista, la dentizione, l’allattamento, tutto lo sviluppo successivo, erano sempre riconducibile a partizioni in sette dei giorni, delle settimane, dei mesi o degli anni. Anche la pubertà era un multiplo di sette e, per la natura, si verificava al 14° anno. L’uomo risultava composto di sette membra e di sette parti. Per avere un’idea dell’insistenza sul collegamento tra il sette e la vita umana, appare utile guardare alcuni punti, piú significativi, dell’esposizione di Macrobio: Ita est ergo natura fecundus hic numerus, ut primam humani partus perfectionem quasi arbiter quidam maturitatis, absolvat. (Com. 1. 6. 16-17); Com. 1.6.61-74. Ed ancora : Septem sunt enim intra hominem quae Graecis nigra membra vocitantur: lingua, cor, pulmo, iecur, lien, renes duo; et septem alia… guttur, stomachus, alvus, vescica et intestina principalia tria… In aperto quoque septem sunt corporis partes, caput, pectus, manus pedesque et pudendum (1. 6. 77,80).

[19]  Cfr. Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, 1976; Buti, Studi sulla capacità patrimoniale dei servi, 1976; Catalano, Diritto e persone – Studi su origine e attualità del sistema romano, I, 1990, p 168; Reduzzi Merola, «Servo parere», 1990.

[20]  Sulla pregnanza di questa espressione, che riconosce la vita al nascituro, v. Catalano, Diritto e persone, cit., 169 ss.

[21]  Per tutti cito Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, 1968, pp. 8 ss.; ma l’opinione è radicata presso gli studiosi di diritto romano, i quali si richiamano ad un testo delle Institutiones  di Gaio, che, nel 2  sec. d. C., parlava di personae anche riguardo agli schiavi: Gai 1. 9: et quidem summa divisio… personarum haec est, quod omnes homines aut liberi sunt aut servi. Dal brano si suole dedurre un significato generico di persona, senza implicazioni giuridiche, ma cosí non è.

[22]  Non è questa la sede per ridiscutere la questione, complessa e atavica. Basti osservare che tutte le personae, anche gli schiavi, in realtà, avevano, nella visione dei Romani, una loro soggettività, sia pure diversamente articolata: sul punto, v. Catalano, Diritto e persone, cit., partic. pp. 163 ss.; v. anche Tafaro, La pubertà a Roma. Profili giuridici, 1993, p. 11 s. In effetti devo qui ribadire che le concezioni moderne della ‘personalità giuridica’, condizionano la ricostruzione della realtà antica, la quale spesso viene forzata per farla aderire ad uno schema che non corrisponde affatto all’evoluzione dell’esperienza del passato. In realtà nell’esperienza romana non troviamo nulla di assimilabile ai concetti contemporanei di soggetti di diritto e di capacità (giuridica e di agire). Il fatto di avere letto il passato in base ad essi ha portato ad una omogeneizzazione dei criterî di valutazione delle realtà giuridiche, che, ad indubbi vantaggi ha associato la perdita delle sfaccettature e dei differenti gradi di rilievo dato alla presenza degli ‘uomini’ nel ‘concreto’ dell’esperienza giuridica. Non di rado ne è derivata la sottovalutazione delle articolazioni presenti in un diritto (ius) organizzato intorno alla considerazione preminente dell’essere umano (homo), quale era quello dei Romani. Di esso si è stati portati a sottovalutare (quando non ad ignorare) le implicazioni profonde che vi erano, nella visione della posizione delle persone, tra pubblico e privato, cosí come si è teso a dare scarso peso all’incidenza del ius sacrum (diritto sacro) nella concezione dell’homo quale centro di riferimento del diritto. Si è dimenticato cosí che la posizione dei soggetti andava colta nella dimensione dinamica, che di periodo in periodo si modellò in base ad un rapporto dialettico tra il retaggio del vecchio assetto gentilizio e l’avanzante ed assorbente assetto della Città‑Stato (Civitas). Da questa impostazione è derivata la quasi unanime negazione della soggettività giuridica dei servi (schiavi), che, come la dottrina piú recente sta mettendo in evidenza, invece partecipavano a varie sfere del ius: certamente al ius sacrum o al ius naturale, ma non solo ad essi, stante l’idoneità a compiere alcuni negozi patrimoniali o ad essere fonte autonoma di responsabilità o, ancora, la riconosciuta possibilità di attivare le procedure giudiziarie: v. Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, 1976, 72 ss.; Buti, Studi sulla capacità patrimoniale dei servi, 1976; Di Porto, Impresa collettiva e schiavo manager in Roma antica (II sec. a.C. – II sec. d.C.), 1984. Anche da tale visione è stato originato “il venir meno della stretta connessione tra le nozioni di homines e di qui in utero sunt (propria degli antichi giuristi romani) sostituita dalla contrapposizione, che direi inumana, tra le nozioni di ‘persona’ e di ‘feto’”: v. Catalano,  Diritto e Persone cit., 172. Si deve alla nozione della ‘personalità’, definita dal Savigny e, in Italia, dallo Scialoja, la distinzione tra ‘persona’ e ‘feto’, dalla quale si è voluto trarre la conclusione che il feto non è persona. Su di essa  si sta sviluppando una cospicua critica nella dottrina civilistica contemporanea: cfr. Caferra, Diritti della persona e stato sociale, rist. 1992, 39 ss.; Catalano, op. cit., 17223. Le concezioni basate sulla ‘personalità giuridica’ sono consone alla formazione europea degli Stati borghesi, ma spesso si rivelano inidonee a cogliere le realtà di altre esperienze. Soprattutto non colgono le realtà in formazioneo o in evoluzione, quali (ad esempio) ancora oggi, almeno in parte, sono alcune esperienze latino-americane e, in passato, fu quella romana. Questa si articolò in un intreccio dialettico e magmatico tra sfere differenti di influenza che spesso si intersecavano. Rispetto alle quali lo Stato rappresentò la costruzione di sintesi ultima, che tuttavia convisse con esse almeno fino al 2° a. C. Nel quadro che ne scaturí l’individuo si collocò su piani molteplici, che implicavano i sacra, attraverso un legame stretto tra pubblico e privato, nel quale si fece via via sempre piú strada il vincente tentativo dello Stato di rivolgersi direttamente ai singoli, superando le organizzazioni delle gentes e delle familiae: cfr. Fiorentini, Ricerche sui culti gentilizi, 1988.

[23]  D. 35. 2. 9. 1 Pap. l. 10 quaest.: Circa ventrem ancillarum nulla temporis admissa distinctio est nec immerito, quia partus nondum editus homo non recte fuisse.

[24]  D. 25. 4. 1. 1 Ulp. 24 ad ed.: Ex hoc rescripto evidentissime apparet senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. Post editum plane partum a muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut exhiberi sibi aut ducere permitti. Il testo mi pare esprimere un concetto ovvio e cioè che prima del parto non è consentito nessun atto ammesso nei confronti dei figli già nati; pertanto la sua portata è molto limitata e relativa al contesto discusso e non implica un generale disconoscimento della ‘personalità’ dei nascituri.

[25]  Una panoramica dello status doctrinae sul punto e piú in generale sulle persone in diritto romano è offerta dall’Albanese, Le persone nel diritto privato romano (1979), p. 15 e i capitoli II-IV, V, VII; Id., v. Persona (diritto romano), ED. XXXIII, 1983, pp. 169 ss. In particolare, sui nascituri v. P. Ferretti, In rerum natura esse. In rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico, Milano 2008; cui adde S. TAFARO, Rc. P. Ferretti, In rerum natura esse. In rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico, in Iura, 57 (2008-2009) [pubbl. 2009], pp. 504-520.

[26]  V. Nocera, Il binomio pubblico‑privato nella storia del diritto, 1989.

[27]  Beneveniste, Pubes et publicus, R. Philol. XXIX, fasc. 1, 1955, p. 7; v. anche Colaclidès, A propos de ‘publicus’, Rev. Étud. Latin. 37 (1959), pp. 113 ss.

[28]  v. Morel, Pube praesenti in contione, omni poplo, Rév. Étud. Latin. 42, 1964, 375 ss. e il mio Pubes e viripotens, cit. 38 ss.

[29]  Von Jhering, Geist des römischen Recht auf verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, IV, 1878, p. 183; ricordato da Catalano, Populus Romanus, cit., 64 ss.; Diritto e persone, cit., 164 ed ivi nt. 5. Anche il Peppe, v. Populus (Diritto Romano), ED XXXIV, 1985, p. 328, ritiene che la nozione piú generale di popolo valevole per tutta l’esperienza romana potrebbe essere quella di “populus come insieme di cives”.

[30]  Catalano, Diritto e persone, cit., 166, che richiama anche il suo Populus Romanus, cit., pp. 118-154.

[31]  Catalano, Diritto e persone, cit., 166.

[32]  Fondamentali sono la interpretazione che ne dava il Fadda, L’azione popolare, 1984. Il punto sulla dottrina, con proiezioni originali si trova in Casavola, Studi sulle azioni popolari romane. Le “actiones populares”, 1958. Per l’economia dell’esposizione, non mi diffondo sulle problematiche inerenti all’azione popolare e alle sue varie forme..

[33]  Cosí Catalano, Populus Romanus, cit. 126.

[34]  V. per Fornacalia Festi L. 82. 30: Fornacalia feriae institutae sunt farris torrendi gratia, quod ad fornacem, quae in pristinis erat, sacrificium fieri solebat. Festi ex Pauli Epit. L. 73. 19: Fornacalia sacra erant, cum far in fornaculis torrebant. Per Parilia v. Festi L. 248: Pales dicebatur dea pastorum, cuius festa Palilia dicebatur; vel, ut alii volunt, dicta Parilia, quod partu pecoris eidem sacra fiebant. Ma addirittura i Parilia erano legate all’atto primo e sommo di crescita dell’Urbs, la fondazione di Roma: Festi L. 272. 3: <Parilibus Ur>bem condidit Romu<lus, quem diem festum precipue> habebant iunior<es>; mi pare significativo che la festa legata alla fondazione della Città fosse appannaggio di tutti e primieramente dei giovani, che sono ed esprimono piú di ogni altri la proiezione di ‘crescita’. Al riguardo il Fadda, L’azione popolare, cit., p. 300, osserva che, per l’appunto, una delle proiezioni delle feste popolari era rivolta alla fertilità delle terre.

[35]  V. Catalano, Populus Romanus, cit., 125 s.

[36]  Ancora oggi mi sembra si debba convenire con il Fadda, L’azione popolare, cit., 298 ss. quando ha sottolineato che popularis non avrebbe mai indicato “cosa fatta nell’interesse dello Stato come tale”, bensí l’interesse dei cittadini, per la tutela in veste di “individuo appartenente ad una comunione sociale”; pertanto l’antitesi di popularis è ciò che non appartiene a tutti i cittadini ma solo ad una parte di essi. Tutto ciò era chiaramente presente agli Autori romani della Repubblica, a partire da Cicerone.

[37]  Ciò fu nella consapevolezza dei giuristi romani per tutto il Principato. Cito soltanto due notissimi e tormentati (per gli esegeti moderni) frammenti del severiano Paolo: D. 47. 23. 1 Paul. l. 8 ad ed.: Eam popularem actionem dicimus, quae suum ius populi tuetur; D. 3. 3. 43. 2 Paul. l. 9 ad ed.: In popularibus actionibus, ubi quis quasi unus ex populo agit, defensionem ut procurator praestare cogendus non est. Soprattutto il primo frammento paolino deve avere subito contrazioni consistenti, che rendono difficile la percezione dell’originale; tuttavia mi sembra incontrovertibile la connessione tra actio e ius populi: ed è quanto basta per il punto di vista che qui sostengo. Piú chiaro è il secondo frammento nel quale la legittimazione del singolo in quanto componente del popolo (il quasi latino equivale al nostro ‘nella veste di_’, ‘a titolo di_’) è enunciata chiaramente.

[38]  Cosí Cotta, voce Persona (filosofia del diritto), ED XXXIII, 1983, pp. 159 s. Il cui penetrante articolo sarà da me preso a base per l’analisi successiva.

[39]  Lo attesta Gellius, Noctes Atticae 5. 7. V.  Blumenthal v. persona in pwre 19, 1, coll. 1036-1040; Walde‑Hoffmann, Lateinisches etymologie Worterbuch3, 1954, 2, 291 s.; Ernout‑Meillet, Diction. éetymolog. de la langue latine4, 1959, 500. Piú controversa è un’eventuale origine, nei primissimi tempi della storia di Roma dall’etrusco fersu.

[40]  La situazione è felicemente espressa dal Cotta, Persona, cit. 160: “In greco persona è dapprima prósopon che, dal significato di maschera teatrale (letteralmente ciò che è posto «davanti agli occhi»), viene a designare l’attore teatrale, che porta appunto la maschera. Come tale non designa affatto l’uomo (ánthropos), né in senso generale, o anche fisico, né tanto meno in senso etico – spirituale, bensí il ‘personaggio’, la parte recitata dall’attore, che ricorre alla maschera per apparire ciò che non è ‘in persona propria’, come oggi si direbbe con un evidente rovesciamento radicale di senso. Anche in latino persona è la maschera, la quale, come dice Aulo Gellio sulla scorta di Gavio Basso, perciò persona è detta «a personando», e quindi passa a designare la parte teatrale, il personaggio e non l’homo. Mentre, dunque, reale è l’uomo la persona, sia essa prósopon o persona, e apparenza fittizia e ludica tanto piú che, stante l’uso di non far recitare le donne in teatro, la maschera permette a chi è uomo di apparire donna. Nulla di piú lontano dal significato odierno.”

[41]  Manuale, 17: «Sappi che sei l’attore (prósopon) di uno spettacolo, scelto dal direttore del teatro, breve, se lo desidera breve, lungo, se lo desidera lungo; e se vuole che tu faccia l’accattone, devi far bene questa parte; e lo stesso se si tratta d’uno zoppo, di un principe o di un privato cittadino. Il tuo compito consiste nel far bene la parte che ti è stata assegnata; sceglierla però spetta a un altro».

[42]  Albanese, v. Persona (diritto romano), ED cit., p. 170.

[43]  In tal senso, ad esempio, si esprimeva Clemente Alessandrino: v. citazione in Cotta, persona cit., 1603, dove viene ricordato che “Ai nostri giorni N. Berdiaev ripropone il nesso tra persona («immagine totale dell’uomo») e volto umano («culmine del processo cosmico»)”.

[44]  Cotta, loc. cit., che nota “Per san Giovanni Damasceno esso «è ciò che esprimendo se stesso per mezzo delle sue operazioni e proprietà, porge di sé una manifestazione che lo distingue dagli altri della sua stessa natura» “

[45]  Summa Theologiae, I, 29, 3.

[46]  Cosí Orestano, Il «problema delle persone giuridiche», cit., p. 7.

[47]  Commentaria iuris civilis, II, 9.

[48]  Nasce cosí l’individualismo giuridico.

[49]  La dottrina pura del diritto2, tr. it. 1966, p. 197.

[50]  Persona, cit. p., 162.

[51]  Val la pena sorridere con un giurista italiano su questa “creatività” del diritto: Galgano, Il rovescio del diritto, 1991, pp. 24 ss., “Iddio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, ma l’uomo non volle essergli da meno: creò, a immagine e somiglianza propria, la persona giuridica. Le dette un’assemblea ed un consiglio di amministrazione e le disse: questi sono i tuoi organi; l’assemblea è il tuo cervello; vedrai, ascolterai, parlerai con gli occhi, con le orecchie, con la bocca dei tuoi amministratori. Alla loro creatura gli uomini dettero, se non un’anima, sicuramente un corpo. Che la persona giuridica abbia un corpo erano convinti già i Romani, dal momento che corpus habere equivale, nel loro linguaggio, ad essere persona giuridica; ed è convinzione che si perpetua: di “corpi morali” parlavano ancora i codici dell’Ottocento (con ciò sottintendendo che le creature di Dio sono banali corpi fisici) e corporation dicono tuttora gli americani. Iddio aveva detto al primo uomo e alla prima donna: crescete e moltiplicatevi. La persona giuridica è stata dall’uomo concepita come unisex: le società madri generano le società figlie e queste, a loro volta, le loro figlie; e i cinque continenti si sono popolati di società madri, società figlie, società sorelle. Lo sviluppo demografico degli esseri umani e delle persone giuridiche procede, se non di pari passo, secondo la legge della compensazione: dove il tasso di natalità rallenta, come accade nei paesi industrializzati, cresce in modo vertiginoso il numero delle persone giuridiche. E ci sono paesi, sia pure minuscoli paesi, che si vantano di essere simbolo di questa stupenda prolificità: nel Liechtenstein, a Monaco, a Panama i cittadini in carne e ossa sono una trascurabile minoranza della popolazione, formata per la quasi totalità da una imponente moltitudine di persone giuridiche, e di cosí solida razza da rivelarsi capaci di muovere alla conquista del mondo. Una considerevole quota della ricchezza mondiale appartiene a persone giuridiche nate in questi prolifici paesi. Ma l’uomo volle fare di piú e di meglio: alla persona giuridica, che è sua creatura, permise ciò che a lui stesso, creatura di Dio, non è consentito. L’uomo è mortale, la persona giuridica può essere immortale. Le basta, per assicurarsi l’immortalità, che ad ogni scadenza del termine di durata l’assemblea ne deliberi la proroga, e cosí all’infinito. E c’è ben altro: le persone giuridiche possono fondersi. Di due o piú persone giuridiche se ne può fare una sola, sia che una incorpori le altre, sia che tutte si fondano in una nuova persona giuridica. Nulla di simile è dato all’uomo. Nelle sacre scritture è rivelato: “sarai una sola carne”; ma è solamente una metafora; di due o piú corpora l’uomo ha saputo fare davvero, e non soltanto per metafora, una sola corporation. Altro prodigio: la persona giuridica può essere scorporata e, di una Persona giuridica se ne possono fare, per scissione, due o piú, praticamente senza limiti di numero. La creatività umana ha, dunque, largamente superato quella divina: al Creatore un simile prodigio era riuscito solo per gli esseri unicellulari. Iddio aveva detto alla prima donna: partorirai nel dolore. Il parto della persona giuridica è, all’opposto, quanto di piú semplice e indolore si possa immaginare. Non si versa sangue, ma solo danaro; e nei minuscoli felici paesi, che sopra ho menzionato, basta per creare una persona giuridica il versamento di una somma pari al prezzo di un vestito. La superbia dell’uomo ingelosí il suo Creatore, che volle castigarla, e ne incaricò il proprio vicario in Terra, Papa Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo de’ Fieschi. Questi usò l’arma della persuasione, elaborò una teoria, si studiò di convincere gli uomini che la persona giuridica era null’altro che una persona ficta. La mediazione del Sommo Pontefice produsse i risultati sperati: Bartolo di Sassoferrato, sommo giurista, ma uomo timorato di Dio, dovette convenire che la persona giuridica vere et proprie non est persona; Baldo degli Ubaldi, giurista non meno sommo, ma anch’esso timorato, ne completò l’opera con dovizia di argomenti: persone sono soltanto gli uomini, anche se a costoro è dato di agire, anziché uti singuli, uti universi. E da allora di persona giuridica non si parlò piú per secoli. Erano, del resto, i secoli dell’Inquisizione, e nessun giurista volle rischiare il rogo”.

[52]  Leggasi Cotta, Persona, cit., 163 “Invero, che l’individuo ‘sia’ è indubitato: ciò che gli si contesta è appunto che abbia ‘valore’; del pari, che la persona sia ‘anche’ individuo è indubitato: ciò che le si attribuisce è un ‘piú’, il valore, individuo piú valore. Si ascolti per tutti N. Berdiaev: «la persona non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale» ; invece l’individuo è una categoria naturalistica, biologica e sociologica. L’uomo è bensí un individuo, ma non è soltanto un individuo. L’individuo e la persona si trovano riuniti nel medesimo uomo, non come due entità distinte, bensí come due qualificazioni, come due forze. L’uomo – individuo vive nell’isolamento, preoccupato egocentricamente di se stesso [. . .]. L’uomo – persona è il medesimo uomo ma che cerca di superare il proprio isolamento egocentrico, di scoprire in sé l’Universo»”.

[53]  Cotta, op cit., 163.

[54]  Se ne segua l’evoluzione dalle parole del Cotta, op. cit., 166 “D’altra parte, è certamente vero che la riflessione cristiana – oltre ad aver fissato la valenza semantica del termine – ha posto un accento ancor piú preciso e vigoroso sulla persona, in quanto ne ha fatto la nozione che esprime la congiunzione, per partecipazione e analogia, dell’uomo col Dio personale. Ma è altrettanto vero che tale riflessione non traccia alcuna distinzione tra individuo e persona. Ogni singolo uomo – senza distinzione di età, sesso, posizione sociale, razza e cultura – e non soltanto la persona è «immagine e somiglianza» di Dio. In ogni sua forma (mistica, teologica, filosofica) la meditazione cristiana ripete e chiosa questa parola biblica. Basti ricordare sant’Agostino: «Singulus quisque homo, qui [. . .] imago Dei dicitur, una persona est». Non va certo dimenticata l’opposizione paolina tra «uomo carnale» e «uomo spirituale» (di cui è uno sviluppo grandioso il De civitate Dei agostiniano), ma quello non è identificabile con l’individuo né questo con la persona. Inoltre, se si tien conto della accurata distinzione tra «immagine» e «somiglianza» precisata dalla Patristica greca e mantenuta particolarmente viva nella Chiesa ortodossa, l’«immagine» è un dato ontologico, pertanto non è cancellata né cancellabile neanche nell’uomo carnale, mentre la maggiore o minore fedeltà della «somiglianza» è connessa all’impegno personale dell’individuo. In breve: il farsi «secondo la carne» oppure «secondo lo spirito», sono due itinerari esistenziali della libertà, non riconducibili a concetti, quali sono appunto individuo e persona. Piuttosto è da rilevare che la tematizzazione della persona nel pensiero contemporaneo piú valido si è svolta, non già in contrapposizione al concetto astratto o stipulativo di individuo … bensí nei confronti della posizione kantiana, considerata come l’apice d’una riduzione della persona alla esclusiva dimensione razionale, anche nel campo dell’etica (razionalismo etico). A Kant si imputa di aver negato intellettualisticamente ogni validità alle dimensioni cosí della decisione e della scelta esistenziali come del sentimento e della relazione interpersonale interiore ed intima. In questa direzione si svolge una ricchissima e varia riflessione che da Kierkegaard, attraverso Scheler e Hartmann, giunge a Heidegger, per ricordare solo i maggiori. In tale quadro torna di straordinaria attualità, rispetto al lungo dominio del procedimento razionalistico della Prima e Seconda Scolastica, la raffinata analisi esistenziale di sant’Agostino (con la quale quella di Kierkegaard presenta notevolissima affinità), svolta specialmente nelle Confessioni e nel De Trinitate, nella quale, come si è detto, persona e individuo (umano) coincidono. Per quanto concerne il nostro problema, alcuni rilievi si rendono qui opportuni. Il «Singolo» (Enkelte), la categoria fondamentale del pensiero di Kierkegaard – in quanto è «la determinazione dello spirito, dell’essere uomo» – si oppone da un lato tanto alla kantiana persona come puro «essere razionale» quanto alla risoluzione hegeliana dell’uomo nella suprema eticità politica dello Spirito Oggettivo; dall’altro lato si oppone alla anonimità della «folla» (Maengde), «determinazione dell’animalità». Ma il Singolo è quanto di piú individuale ci sia e questa per Kierkegaard è la caratteristica piú propria al genere umano: «In ogni genere animale la specie è la cosa piú alta [. . .] l’individuo è sempre [. . .] realtà precaria. Solo nel genere umano la situazione – a causa del cristianesimo – è che l’individuo è piú alto del genere». Del pari il termine persona non ha alcun rilievo nel pensiero di Heidegger. Nell’analisi esistenziale di Sein und Zeit, la decisa critica dell’inautentico mondo del «si» (Man ), non lo riconduce affatto alla figura empirica, o al concetto astratto, dell’individuo, bensí all’epocale «oblio dell’Essere». D’altro canto Heidegger ripropone vigorosamente la critica alla persona in senso kantiano: «l’essenza» (Wesen) dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di piú che un semplice uomo inteso come essere vivente fornito di ragione […]. Il ‘piú’ significa: piú originario e quindi piú essenziale nella sua essenza», ossia in rapporto con quell’Essere che è stato obliato. Si può concludere sulla dibattuta questione: di là dalle differenze di indirizzo filosofico (razionalistico, fenomenologico, esistenziale), la piú seria e costante speculazione teoretica concorda nell’affermare l’identità reale di persona e individuo umano – Il vero spartiacque in codesta tradizione comune si stabilisce tra i pensatori che vedono la persona partecipe della trascendenza divina (da sant’Agostino a Kierkegaard, da san Tommaso a Rosmini) o aperta alla trascendenza (Scheler, Hartmann) o in rapporto con l’Essere (Heidegger) e coloro che invece la considerano risolta nell’immanenza. Ma in nessuno di codesti indirizzi è reperibile l’odierna divulgata opposizione tra persona e individuo La persona è (il concetto, il nome che designa) l’individuo umano.”

[55]  Discours sur l’inégalité, in Oevres complètes, ed. Pléiade, III, Paris 1964, pp. 132 ss.

[56]  Esso trae origine dall’illuminismo, ma trova terreno fertile nell’empirismo anglosassone e (sebbene con peculiarità proprie ed accenti differenti) in Kant. Sostiene l’uomo‑individuo come creatore (per utilità o per ragione) e regolatore della società.

[57]  In proposito due correnti di pensiero, in particolare, meritano menzione: il societarismo ed il comunitarismo. La prima sostiene che sia la società a costituire la persona ed indicarne i valori. Ciò o per volontaria cessione di tutti i propri diritti da parte della persona alla comunità (Rousseau) o per necessità, come avviene nello storicismo idealistico di Hegel o in quello materialistico di Marx. In Hegel, diversamente da quello che si suole affermare, la persona non è annullata nello Stato, ma è solo in esso che assume eticità concreta e perde dialetticamente “sia la particolarità naturalistica che ha nel «Diritto astratto», sia l’astratta universalità che ha nella «Moralità»”; mentre “In Marx, infine, cancellati i passaggi dialettici hegeliani, la persona è integralmente dissolta nella società operante”: Cotta, op. cit., 167.

[58]  Cotta, Persona, cit., 168.

[59]  Essere e tempo, tr. it., 1969, 199.

[60]  Husserl, Méditations cartésiennes, 1931, V § 48-55, cit. da Cotta, loc. cit. nt. 50.

[61]  Cotta, Persona, cit. 169.

[62]  Spinte connotati da un marcato idealismo sono indubbie, ad esempio, nell’integralismo islamico, persino nei conflitti slavi.

[63]  Ancora Ulpiano ci mostra quanto sia possibile e opportuno superare il concetto di un diritto solo degli e per gli uomini; egli affermava l’esistenza di un ius naturale comune ai viventi: D. 1. 1. 1. 3 Ulp. 1. 1 inst.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, que in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Il punto di vista del giurista romano può offrire un modello per l’inizio della riflessione in termini nuovi, evitando di cadere in un naturalismo improduttivo, ma acquisendo la coscienza di una realtà, che è diritto, di là dall’uomo e dalle sue costruzioni, spesso erronee. Ma ancora piú significative indicazioni potranno dedursi dalle visioni che i romani posero a base della posizione dell’uomo nella collettività: prima fra tutta quella concernente la pubertà e la scansione della vita secondo una partizione settenaria; essa, infatti, era addirittura l’espressione di una realtà cosmogonica, della quale l’uomo era partecipe, in veste di protagonista attivo, ma senza esserne l’unico centro di riferimento.

[64]  Essa in parte viene qua e là anticipata da leggi, iniziative e decisioni dell’ONU, della CEE, delle Corti di giustizia (soprattutto internazionali). Ad esempio i tribunali e la dottrina italiani riconoscono il danno biologico. Quello che urge è il passaggio ad un quadro unitario, superando l’occasionalità e la frammentazione.

[65]  E per abitanti si devono intendere innanzitutto gli uomini, ma anche le altre specie viventi, soggette a predazione continua e a spogliazioni che immiseriscono l’habitat e annullano le ‘specificità’ terrestri.

[66]  Ma già nell’antichità non mancarono voci dissonanti che prefigurarono il superamento della visione antropocentrica. Basti citare Pitagora (anch’egli forse della Fenicia) ed Aristarco di Samo, che addirittura precorse la costruzione eliocentrica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube