Dal produttore al consumatore

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Consumatore e lavoratore si uniscono naturalmente nella stessa persona, ma sottoponendola a una dissociazione: come consumatore consuma reddito e risparmio, come lavoratore fa fronte alla precarietà del reddito e di conseguenza alla precarietà del risparmio.

di Stefano Levi Della Torre

La globalizzazione ha comportato una certa riduzione nei prezzi dei consumi e una maggiore concorrenza tra le forze di lavoro. In generale, per quanto riguarda le figure sociali, ha lusingato la figura del consumatore e umiliato quella del produttore e del lavoratore. Ad icona di questo fenomeno, l’apertura dei commerci nei giorni festivi. È certo un vantaggio per i consumatori, ma uno svantaggio per chi lavora, costretto ad accettare questa situazione per conservare il posto in una situazione in cui sul mercato della forza lavoro è minacciato dal precariato, dalla disoccupazione, dalla concorrenza anche internazionale tra la forza lavoro e tra lavoro umano e automazione. Nonché dal progressivo smantellamento dei diritti sindacali e dei diritti sociali.

Consumatore e lavoratore si uniscono naturalmente nella stessa persona, ma sottoponendola a una dissociazione: come consumatore consuma reddito e risparmio, come lavoratore fa fronte alla precarietà del reddito e di conseguenza alla precarietà del risparmio. In veste di consumatore soddisfa il suo presente, come lavoratore e risparmiatore vede precario il suo futuro. Nella simbologia sociale, nella pubblicità che è inevitabilmente propaganda di valori e modelli sociali, la stessa persona viene lusingata in qualità di consumatrice, mentre viene umiliata e ricattata come lavoratrice; viene esaltata nel suo presente ma resa incerta nella sua prospettiva di vita. Anzi: il lavoro che presuppone tempi medio-lunghi, sia dal lato dei tempi di formazione del lavoratore sia nel suo costituire prospettiva di vita, viene costretto al paradigma a breve del consumo. Nel precariato il lavoratore viene sottoposto alla logica dell’usa e getta che è propria dell’oggetto di consumo. Si può dire che la “costituzione materiale” ribalta il primo articolo della Carta Costituzionale, là dove questa parla di una repubblica fondata sul lavoro piuttosto che sui consumi.

Con il referendum costituzionale del 2016 il Pd di Renzi ha voluto dare una battaglia campale da cui è uscito disfatto

Anche la politica si va spostando dalla sfera della produzione a quella del consumo. Se un tempo i partiti erano, bene o male, luogo di produzione di cultura e di educazione politica, ora si vanno riducendo ad agenzie pubblicitarie per il mercato del consenso e del voto. I quali, nella logica dei consumi, diventano labili, fluttuanti e a breve termine. Condizionata per vocazione originaria dal consenso e dalla domanda che in tempo digitale si accorciano, la democrazia stenta a proiettarsi in strategie a lungo termine, e l’ambizione politica perde la sua dimensione storica per ripiegarsi sugli interessi personali e sulla corruzione. La democrazia sembra non garantire più un rapporto diretto con la crescita. La Cina si impone allora come modello alternativo: un regime autoritario, che abbia l’intelligenza di perseguire la propria durata nella selezione qualitativa della sua classe dirigente invece che sul consenso a breve, dimostra la capacità di una strategia a medio e lungo termine sul mondo, anche in forme di invadente neo-colonialismo, come in Africa.

Facile indignarsi delle scomposte manifestazioni di Trump, della sua ambigua alleanza con la Russia di Putin: pure da esse risulta uno scenario realistico circa l’emergere della Cina come problema crescente. Può avere una sua logica uno spostamento verso la Cina della linea di demarcazione che un tempo era tracciata dalla Nato contro la Russia. Il potente sviluppo cinese lascia prevedere una crescita al suo interno delle rivendicazioni sociali su salari e diritti. Ma ciò indurrebbe una pressione sui livelli di consumo capace, per le sue dimensioni continentali, di sbilanciare il mondo in termini ambientali, se non si troveranno modelli di consumo radicalmente alternativi a quelli vigenti: oppure, se la classe dirigente cinese vorrà contenere tale pressione all’interno dei suoi confini, sarà indotta a compensare le masse intensificando pericolosamente il tenore nazionalistico e colonialistico della sua azione verso il resto del mondo. È una minaccia di futuri conflitti anche militari.

Torniamo al problema di come il ceto politico in Italia ha cercato di garantire se stesso rafforzando il proprio potere istituzionale a compensazione di una perdita della sua efficacia decisionale alla scala della nazione. Con il referendum costituzionale del dicembre 2016 il Pd di Renzi ha voluto dare una battaglia campale da cui è uscito disfatto. Non si è più ripreso. In pochi anni ha perduto la metà del suo elettorato e non ha saputo neppure aprire un dibattito interno sui motivi del suo precipitoso declino. La proposta del referendum – avrebbe detto Talleyrand – non era un crimine, ma peggio, era un errore. Già nella forma il testo si allontanava dallo spirito della Costituzione vigente: questa si era preoccupata, per sua fondamentale vocazione democratica, di essere in ogni punto accessibile per chiarezza ad ogni cittadino; mentre viceversa il testo della riforma presentava tecnicismi astrusi che rivelavano l’autoreferenzialità del ceto politico che lo proponeva. Il quale si era mostrato per mesi alquanto distratto su problemi cruciali, perché tutto concentrato a parlare con se stesso di governabilità invece che parlare ai governati dei problemi loro. L’errore del referendum stava a monte dei suoi contenuti, ed era un errore che spesso, in politica, è più fatale di un errore di contenuto: sbagliare l’ordine del giorno.

Chi nell’intimo del suo privato possiede un computer diventa il possessore di un mezzo di produzione, un infinitesimo imprenditore di sé stesso

Come si poteva pensare che quella riforma costituzionale potesse essere sentita come necessaria e inderogabile mentre imperversavano tante sofferenze sociali e psicologiche di massa nella crisi? Come poteva essere convincente un ceto politico che pretendeva una sua questione più urgente di qualunque altra urgenza ben più evidente e più coinvolgente? Il famoso concetto di Carl Schmitt (“sovrano è chi decide nello stato d’eccezione”) lo potremmo così parafrasare: “sovrano è chi sa decidere dell’ordine del giorno”. Sbagliando l’ordine del giorno, questo passò alle destre e ai populisti. Ma non, come credono ancora in molti, perché chi votò contro fu colpevole di aver indebolito il Pd renziano come baluardo contro destre e populisti, ma perché il referendum in se stesso – il suo carattere autoreferenziale e il suo imporsi indiscreto e intempestivo su altre esigenze, impellenti e trascurate – erano la porta che si spalancava alla demagogia populista della destra. Da dove proveniva questo errore? Dal fatto che nei limiti dello Stato nazione la decisione politica va perdendo strutturalmente di efficacia perché condizionata da altri centri di decisione economica e politica esterni, e il ceto politico è indotto a compensare questo indebolimento rafforzando e centralizzando istituzionalmente il suo potere per recuperare possibilità di governo. È una tendenza che non riguarda solo l’Italia. Aspetti autoritari, negli Usa come in Europa, stanno erodendo i controlli reciproci dei poteri attraverso interventi degli esecutivi sui sistemi giudiziari, sulla libertà di stampa e di informazione, sull’uso delle carceri e delle forze dell’ordine, sulla modificazione dei sistemi elettorali in nome di una governabilità che surroghi la rappresentatività.

In un periodo in cui per effetto della crisi e della divaricazione tra povertà e ricchezza la società si polarizza, Renzi e Berlusconi hanno cercato di convergere sul centrismo, attaccando la sinistra, e sulla centralizzazione attaccando i sindacati e i corpi intermedi, nonché l’autonomia del potere legislativo e della magistratura. Condividevano l’aspirazione fuori tempo, ciascuno dal suo versante, di farsi “partito della nazione”, idea inscritta già nel nome di “Forza Italia”. Declinavano appunto in senso centrista, insensibile agli umori sociali, l’istanza nazionale, che la destra ha invece saputo animare di rabbia xenofoba e contro le “élites”. Questione su cui la sinistra da noi ha qualche parola, ma più etica che politica. Mentre in altri luoghi qualcosa dice e fa, puntando più a sinistra che al centro, come in Portogallo o in Spagna, tra i democratici negli Usa o tra i laburisti in Inghilterra, forse in Canada o forse nel Messico di Obrador o nel Brasile di Lula, per ora scalzato da una specie di golpe giuridico.

La tecnologia digitale produce ribaltamenti nelle identità sociali. I mezzi di produzione che nell’epoca industriale erano prerogativa del capitalista vengono ridistribuiti grazie alla tecnologia digitale. Il computer è un mezzo di produzione travestito da bene di consumo, si insinua nelle nostre case con la familiarità di un elettrodomestico, ma come il cavallo di Troia reca nelle sue viscere una potenza aliena: anche quando ci invita al gioco, ci mette al lavoro. Quanto meno, a riprodurre noi stessi come merce, il profilo delle nostre inclinazioni da vendere sul mercato dei sondaggi politici e pubblicitari. L’ha dimostrato l’affare Cambridge Analytica, che ha influito sullo spostamento dei poteri nel mondo. Ciascuno ha in tasca un cellulare che è più potente del calcolatore, gigantesco e d’altissimo costo, che ha organizzato l’atterraggio dell’uomo sulla luna. Miniaturizzandosi, la tecnologia digitale ha rapidamente diminuito il suo prezzo ed esteso capillarmente la sua diffusione.

Ma chi nell’intimo del suo privato possiede un computer incorre in una inavvertita trasfigurazione sociale: diventa il possessore di un mezzo di produzione, un infinitesimo imprenditore di se stesso. In modo crescente si scaricano sulla sua tastiera funzioni amministrative un tempo affidate ad uffici e a posti di lavoro esterni: ci consideriamo ancora utenti clienti, mentre, pena inadempienza, stiamo sostituendo aree crescenti della burocrazia pubblica o privata. Così, ad esempio, nell’editoria sullo scrittore o lo scrivente si scaricano funzioni redazionali un tempo prerogative delle case editrici e dei loro impiegati.

La figura marxiana del capitalista come proprietario dei mezzi di produzione è superata là dove il capitale finanziario si affranca dalla proprietà materiale per produrre denaro tramite denaro. È un fenomeno che è lontano dalla percezione, pur influendo violentemente sulle condizioni di vita: ma affiora all’evidenza in alcuni settori dove il digitale permette al capitale di limitarsi a gestire l’organizzazione e il collegamento tra possessori dei mezzi e a raccoglierne i frutti. È il caso, ad esempio, di B&B, della cinese Alibaba, di Foodora, di Uber. Sono i lavoratori a detenere i mezzi, come un tempo i tessitori disponevano a casa del telaio: sì che nell’epoca postindustriale emergono fenomeni che riproducono modi e rapporti proto-industriali. Così anche lo schiavismo nelle campagne, che si avvale dei paria esclusi dai diritti di cittadinanza: quando non usati direttamente dalle multinazionali dell’alimentazione, lo sono da piccoli e medi produttori per reggere, sul lato dei costi, all’imposizione dei prezzi da parte delle grandi compagnie della distribuzione e commercializzazione.

Le mafie in Italia e in Europa, e i narcos in America Latina, sono, nelle viscere sociali delle nazioni, il rispecchiamento del capitale finanziario e delle multinazionali e viceversa: sono sistemi economici spesso intrecciati tra loro sul piano finanziario che colonizzano gli spazi extralegali che sussistono là dove il tessuto del diritto è ancora sfilacciato o viene lacerato. Nell’analogia delle loro procedure di esproprio, ricatto e connivenze politiche mafie, multinazionali e capitale finanziario rievocano la brutalità pre e post-democratica dell’accumulazione primitiva: il post-moderno riattiva il premoderno. Sulle mafie il potere politico e finanziario non può che essere diviso, per i grandi interessi in gioco. Alcuni le combattono, altri vi si alleano come la regina Elisabetta ricorreva al pirata Drake per battere, al di fuori dei gravami legali o diplomatici, i concorrenti spagnoli e portoghesi nella formazione dell’impero britannico. In questo caso non si tratta solo di “cedimenti” alle mafie, ma di un sistema di collusione premeditata in cui le mafie sarebbero chiamate a contribuire per la loro parte a un’accumulazione finanziaria da giocarsi sul terreno della globalizzazione.

La denigrazione dell’empatia, la pubblicità della cattiveria, la criminalizzazione di ogni più ovvia virtù perpetrate da chi si propaganda difensore dei “nostri valori”, è uno stravolgimento che riflette il cuore algoritmico del capitalismo, la sua logica problem solving senza guardare in faccia nessuno, il suo finalismo tautologico: l’accumulazione per l’accumulazione, il profitto per il profitto, il potere per il potere senza immaginazione di come possa funzionare la società umana. L’SOS è pertinente alla lettera: “salvate le nostre anime”. La cura dell’empatia è un atto di resistenza a portata di ognuno, e restare umani è già di per sé un ardimentoso progetto.

Che cosa ci insegna il populismo? Quando costruisce l’immagine di  un nemico comune ci insegna che da troppo tempo la sinistra ha rinunciato a identificare l’antagonista

In un’intervista del 2003 (La Repubblica del 9 ottobre) lo scrittore franco-tunisino Abdelwahab Maddeb, docente a Parigi di letterature comparate dell’Europa e dell’Islam, proponeva un’interpretazione paradossale e illuminante del diffondersi del fondamentalismo islamista: era dovuto, diceva, al diffondersi dell’istruzione. Ma di un’istruzione senza cultura, grazie alla quale sempre più persone (soprattutto uomini?) erano in grado di leggere il Corano, senza però avere la capacità di contestualizzarlo nella storia, di misurarlo sulle controversie che avevano animato per secoli la grande cultura islamica. Essi perciò proiettavano nella loro lettura dei testi religiosi le proprie frustrazioni sociali, personali e di genere, nonché il proprio senso di rivalsa; proiettavano sull’Occidente le responsabilità di un’umiliazione storica e politica che erano soprattutto interne allo stesso mondo islamico. Di qui il diffondersi di un populismo reazionario, maschilista, xenofobo e violento. Maddeb preconizzava infine una grande lotta culturale interna al mondo islamico.

Istruzione senza cultura: è un fenomeno che si va estendendo da noi come negli Stati Uniti. Non solo per il disinvestimento nella scuola, ma anche grazie a internet. Grazie a internet ciascuno si sente “imparato”, e pensa si riduca la distanza tra chi consuma sapere e chi lo produce. Grazie a internet ciascuno può farsi un’opinione su cose che non sa, può contestare le competenze, può combattere l’autorità e il privilegio di chi sa. È un fenomeno che abbiamo visto affiorare in Italia nel caso Di Bella per la cura del cancro, nel caso Englaro, ora nella contestazione dei vaccini, e più in generale nelle polemiche contro le élites e la cultura, nel degrado demagogico della lingua e nella degenerazione in urlo dell’argomentare in pubblico. È un buon uso politico della meravigliosa civiltà digitale da parte della destra, che lusinga la rivalsa plebea sul sapere. È una rivalsa che si presume coerentemente democratica in quanto rifiuta le gerarchie del sapere, ma deforma l’idea democratica concependola come un appiattimento stazionario invece che come uno sforzo di superamento. “La Repubblica promuove”, così si esprime la Costituzione nel suo spirito progettuale: la democrazia ha molte cose da fare, da cambiare, ha degli obiettivi da raggiungere. Ora anche quello, pena la sua morte, di salire ad altra dimensione, perché quella nazionale, in cui è nata e in cui ha avuto vigenza, non è più all’altezza delle questioni che premono.

Il rifiuto dei vaccini sarà un fenomeno marginale, pure è ricco di indicazioni circa gli spiriti di destra della “istruzione senza cultura”. Come Berlusconi aveva inverato il motto “il personale è politico”, ribaltandolo nel gestire la politica a favore dei propri affari, così il rifiuto dei vaccini sembra il ribaltamento del “corpo è mio e lo gestisco io”. Nato dal femminismo, “il corpo è mio” indicava la liberazione sociale e antropologica delle donne da una subordinazione storica, mentre chi rifiuta i vaccini rifiuta la storia a favore di un presente frainteso, perché se certe malattie non sembrano adesso incombenti è grazie alla storia dei vaccini e della loro diffusione. Chi rifiuta i vaccini pretende una gestione familistica dei corpi che rifiuta, con spirito liberista, la responsabilità sociale: nello specifico la responsabilità di evitare che i propri figli non vaccinati possano diventare portatori di contagio in ambienti collettivi come la scuola.

L’obliterare la storia e la memoria, il familismo liberista che esime dalle responsabilità sociali, sono caratteri che la destra coerentemente vezzeggia.

Dalla controversia, pur limitata, sui vaccini emerge (come già dal caso Di Bella e dal caso Englaro) un altro tema di grande importanza nella retorica della destra: l’enfasi sul corpo. È argomento non astratto, bensì letteralmente incarnato, in cui ciascuno si sente facilmente implicato: lo dice la pubblicità della moda, della culinaria, della cosmetica, del fitness, del calcio e dell’atletica. Cose care a tutti, e in particolare, queste ultime, agli hooligans e ai regimi totalitari. Il corpo dei capi, dei duci. Del corpo dell’altro parla la xenofobia, del corpo e dei sentori fisici propri e dell’altro parla il razzismo. Anche l’immigrato è metafora incarnata, fisica e antropomorfa, di invadenze potenti, esterne e indecifrabili. Negli anni settanta il movimento delle donne sollevò una critica radicale contro il pensiero e le filosofie maschili di sinistra, troppo disincarnate e astratte, troppo lontane dall’esperienza fisica della vita e del mondo. Era una critica fondata sull’esperienza decisiva, appunto, delle donne, che sanno della gestazione, dell’aborto e del parto, e più degli uomini accudiscono i corpi. Ed era una critica di sinistra, materialistica e culturale.

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