Il pasticcio in Libia come occasione per riformare l’Italia

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Mentre Alitalia, a giorni, sarà a Tripoli su mandato della Farnesina, il Viminale non decide ancora di riaprire lo spazio aereo tra i due paesi.

C’è un passaggio nell’iperbolico punto di frizione tra Italia e Francia sul caso libico che dovrebbe essere sottolineato con più veemenza, per evitare di incorrere nell’effetto “è sempre colpa degli altri”. Esiste un’oggettiva sordità tra Farnesina e Viminale in questa partita? Corrisponde al vero che se da un lato c’è la volontà politica (finalmente) di collegare Italia e Libia con un volo, dall’altro la burocrazia si frappone ancora come un freno a mano inamovibile?

Più volte è stato osservato come, a maggior ragione in questa fase di macro mutamenti nel dossier libico, l’importanza strategica di un volo diretto tra Tripoli e Fiumicino e/o Malpensa sarebbe fondamentale sia per le nostre imprese che stanno tornando lì, sia per dare un segnale esterno. E invece i primi tentativi legati all’iniziativa di una compagnia privata, la Libyan Wings, non sono stati raccolti con sufficiente considerazione.

Adesso pare che la nostra compagnia di bandiera sia intenzionata a vagliare l’opportunità in loco, con già una data cerchiata in rosso: il prossimo 7 agosto Alitalia sarà a Tripoli, su mandato della Farnesina, per tentare di definire i perimetri di una simile operazione. Come dire che la volontà politica di aprire un volo pare esserci, ma il Viminale sullo spazio aereonon cede di un millimetro.

A chi giova questo stallo? Possibile che una contrapposizione (personale, politica, elettorale o cosa?) sia foriera di una possibile mancata occasione per il paese? Interrogativi legittimi che fanno il paio con quella finestra sul centro Africa che l’Italia tarda ancora ad aprire, mentre invece Francia, Germania e Cina da anni ormai hanno un canale operativo diretto e produttivo. E’evidente che non c’è solo la questione legata ai cantieri navali tra Italia e Francia nell’ombelico libico, ma anche altre (aperte ma fino a quando?) che meriterebbero un maggiore coordinamento tra Palazzo Chigi, Viminale e Farnesina.

Le navi da guerra possono essere una cornice tramite la quale agire, ma occorre prima una strategia che sia essa stessa guida e non improvvisazione fatta a colpi di interviste sui giornali. Invece Roma avrebbe dovuto avviare produttive e costanti interlocuzioni in loco, con la promessa di offrire infrastrutture, mezzi e coordinamento in cambio di protezione sulle coste e possibilità di azione invasiva “with boots” sui territori, dove con quei boots non si intende solo ed esclusivamente militari, ma anche cingolati in un’ottica di insieme come fatto da Franca e Inghilterra.

Ecco che il pasticcio andato in scena in Libia potrebbe però essere l’occasione per Roma di specchiarsi nelle proprie deficienze e riformare la politica estera in Italia, se solo comprendesse come su questi temi strategici non c’è divisione o personalismo che tenga: l‘interesse nazionale è al primo posto perché uno Stato non è evidentemente una Ong e non fa del volontariato su questi temi. Altre sono le assise per fare solidarietà e assistenza.

La Frankfurter Allgemeine Zeitung annuncia uno sforzo congiunto di Berlino e Parigi per “un’autonomia strategica nella politica di difesa”, con un gruppo di 20 paesi dell’UE che intendono collaborare strettamente dal punto di vista militare, e con “grandi ambizioni e con Germania e Francia che devono avere idee molto precise”.

Come dire che gli altri membri seguiranno a ruota. E come se Roma non avesse un Commissario Europeo italiano dalla sua parte.

twitter@FDepalo

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