Dani Rodrik, celebre economista enunciatore del famoso e omonimo trilemma, torna a parlare del rapporto tra stato nazionale, democrazia e globalizzazione, avvisando le élites globaliste che se non rinsaviscono dagli eccessi della propria ideologia cosmopolita, potrebbero ritrovarsi con l’economia globale e la democrazia liberale spazzate via. Gli Stati-nazione, dice Rodrik, ognuno con la propria peculiare configurazione istituzionale frutto dei compromessi sociali interni, forniscono una base di legittimazione politica e l’infrastruttura istituzionale e materiale su cui si reggono i mercati globali, che non hanno la capacità di auto-crearsi o regolarsi. Se gli Stati nazione vengono indeboliti in una corsa all’omologazione istituzionale, senza che le loro prerogative siano assunte da altre istituzioni, questa trama si sfalderà; inoltre, andrà persa la possibilità di sperimentare forme istituzionali differenti, la concorrenza tra di esse e l’apprendimento dagli altri, ovvero quanto di più vicino ci sia ad un laboratorio di capitalismo.

di Dani Rodrik, 

La rivolta populista del nostro tempo riflette la profonda divisione che si è aperta tra la visione del mondo delle élites intellettuali e professionali globali e quella dei cittadini comuni. Questi due gruppi oggi vivono in contesti sociali paralleli e si orientano utilizzando differenti mappe cognitive. Tuttavia il consenso generale di opinione che ci ha portato a questa divergenza rimane intatto. I rimedi proposti dai leader del pensiero mainstream raramente vanno oltre l’invocazione del problema della disuguaglianza e un po’ più di attenzione nel compensare i perdenti.

Ma il problema si trova più in profondità, nell’attaccamento delle élites ad una mentalità globalista che minimizza e indebolisce lo Stato-nazione. Senza un cambiamento, potremmo ritrovarci con la nostra economia globale aperta spazzata via, assieme al nostro ordine liberale e democratico, dal contraccolpo provocato dai punti ciechi e dagli eccessi di questa mentalità.

All’interno dell’intelligentsia, lo Stato-nazione trova pochi sostenitori. Più spesso, è considerato inefficace – moralmente irrilevante, o persino reazionario – di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione. Economisti e politici centristi tendono a considerare deplorevoli i recenti fallimenti del globalismo, fomentati da politici populisti e nativisti che hanno saputo capitalizzare sulle rimostranze di coloro che si sentono lasciati indietro e abbandonati dalle élites globaliste. Lo scorso ottobre, il primo ministro britannico Theresa May ha acceso un grido di protesta quando ha denigrato l’idea di cittadinanza globale. «Se credete di essere cittadini del mondo», ha detto, «siete cittadini del nulla».

I mercati hanno bisogno di istituzioni normative e legittimanti per prosperare – norme sulla sicurezza dei consumatori, sui regolamenti bancari, sulle banche centrali, sulle assicurazioni sociali e così via. Quando si tratta di fornire le disposizioni sulle quali fanno affidamento i mercati, lo Stato-nazione rimane l’unico attore efficace, non c’è niente di meglio in giro. L’ossessione per il globalismo delle nostre élites e dei tecnocrati ha indebolito la cittadinanza dove è più necessaria – a casa – e rende più difficile raggiungere la prosperità economica, la stabilità finanziaria, l’inclusione sociale e altri obiettivi desiderabili. Come tutti abbiamo avuto modo di vedere, il globalismo elitario abilita anche percorsi politici per i populisti di destra, che possono dirottare il patriottismo per scopi distruttivi.

La visione globalista del mondo è fondata sulla tesi secondo cui un’economia mondiale interconnessa richiede un’azione collettiva a livello globale. Ma questa premessa è in gran parte falsa. L’immagine convenzionale dell’economia mondiale come quella di “comunità globale” – in cui tutte le nazioni sarebbero condotte alla rovina economica a meno che non cooperino – è fuorviante. Se le politiche economiche falliscono, lo fanno più spesso per motivi interni e non internazionali. L’amministrazione globale rimane cruciale in alcuni settori, ad esempio i cambiamenti climatici o le pandemie, in cui la fornitura di beni pubblici globali è essenziale. Ma nella sfera economica il miglior modo in cui le nazioni possono servire al bene globale è mettere in ordine la propria economia.

Storicamente lo Stato-nazione è strettamente associato al progresso economico, sociale e politico. Esso ha frenato la violenza interna, ha ampliato le reti di solidarietà al di là dei mercati locali, ha stimolato i mercati di massa e l’industrializzazione, ha permesso la mobilitazione di risorse umane e finanziarie e ha favorito la diffusione delle istituzioni politiche rappresentative. Gli stati-nazione falliti solitamente portano al declino economico e alla guerra civile. Tra gli intellettuali, la perdita di prestigio dello Stato-nazione è in parte una conseguenza dei risultati che ha raggiunto. Per chi vive in paesi stabili e prosperi, il ruolo vitale dello stato-nazione è diventato facile da trascurare.

Ma lo Stato-nazione, come entità politica territoriale confinata, è diventato veramente un ostacolo al conseguimento dei risultati auspicabili in campo economico e sociale in vista della rivoluzione della globalizzazione? O lo Stato-nazione rimane indispensabile per il conseguimento di quegli obiettivi? In altre parole, è possibile costruire una difesa dello Stato-nazione maggiormente basata sui principi, che vada oltre il dire che esiste e che non si è estinto?

Per molti, lo stato-nazione evoca il nazionalismo, i cui eccessi hanno significato guerra e morte per milioni di persone. Ma è appropriata una correzione, per ricordare non solo gli eccessi ideologici della componente “nazione”, ma anche il ruolo trasformativo e storico della componente “stato”. Come piace dire agli studiosi di nazionalismo, lo Stato normalmente precede e produce la nazione, non viceversa. La migliore definizione della nazione rimane quella di Abbé Sieyès, uno dei teorici della Rivoluzione Francese: ‘Che cos’è una nazione? Un corpo di associati che vivono sotto una legge comune e rappresentati dalla stessa assemblea legislativa”. Gli etno-nazionalisti, con la loro enfasi sulla razza, l’etnia o la religione come base della nazione, rovesciano questa definizione. Come ha affermato recentemente lo storico Mark Lilla della Columbia University: “Un cittadino, semplicemente in virtù di essere cittadino, è uno di noi”.

In realtà, Stati-nazione robusti sono vantaggiosi per l’economia mondiale. La molteplicità di stati-nazione aggiunge valore piuttosto che sottrarlo.

Una difesa di principio dello Stato-nazione partirebbe dalla proposizione che i mercati richiedono regole. I mercati non si creano, non si regolano, non si stabilizzano o legittimano da sé stessi, quindi dipendono da istituzioni non di mercato. Qualsiasi cosa che vada oltre un semplice scambio tra vicini richiede investimenti in trasporti, comunicazione e logistica; l’applicazione dei contratti, la fornitura di informazioni e la prevenzione dalle truffe; un mezzo di scambio nella compravendita, stabile e affidabile; disposizioni che consentano di conformare i risultati distributivi alle norme sociali; e così via. Dietro ogni mercato funzionale e sostenibile si trova un’ampia gamma di istituzioni che forniscono funzioni critiche di regolamentazione, ridistribuzione, stabilità monetaria e fiscale e gestione del conflitto. Queste funzioni istituzionali sono state finora fornite in gran parte dallo Stato-nazione.

Durante tutto il dopoguerra, non solo questo non ha impedito lo sviluppo di mercati globali, ma lo ha facilitato in molti modi. La filosofia guida dietro il regime di Bretton Woods, che ha governato l’economia mondiale fino agli anni Settanta, era che le nazioni – non solo le nazioni avanzate ma anche quelle da poco indipendenti – avevano bisogno di uno spazio politico all’interno del quale poter gestire le loro economie e proteggere i loro contratti sociali. I controlli sui capitali, limitando il libero flusso della finanza tra i paesi, sono stati considerati come un elemento intrinseco del sistema finanziario globale. La liberalizzazione commerciale rimase limitata ai beni industriali e alle nazioni industrializzate; quando le importazioni di tessuti e capi di abbigliamento provenienti da paesi a basso costo minacciavano gli accordi sociali nazionali causando perdite di posti di lavoro nelle industrie e nelle regioni interessate, pure queste erano trattate sotto regimi speciali.

Tuttavia gli anni del dopoguerra hanno visto una crescita storica del commercio e degli investimenti, in gran parte perché Bretton Woods incoraggiava sani ambienti regolatori nazionali. La globalizzazione economica si è basata sulle regole sostenute dai principali centri commerciali e finanziari. I sistemi monetari nazionali, le banche centrali e le pratiche regolatorie in ambito finanziario hanno funzionato come pietre angolari della globalizzazione finanziaria. Gli accordi politici nazionali, più che le regole del GATT, hanno sostenuto l’economia aperta che è finita col prevalere. Le comunità benestanti all’interno degli Stati nazionali – i grandi centri urbani, gli hinterland e i centri tecnologici – sono cresciuti proprio perché potevano contare sull’infrastruttura istituzionale creata dai governi nazionali.

Un’economia veramente globale, in cui l’attività economica è sganciata dalla sua base nazionale, richiederebbe istituzioni regolatrici transnazionali che si accordino alla scala e alla portata globali dei mercati. Ma non esistono tali istituzioni.

Né le regole di mercato sono universali. Gli Stati Uniti, il Giappone, le singole nazioni europee e tutte le società avanzate sono in misura diversa società di mercato, ma tutte si sono anche sviluppate storicamente in circostanze e con configurazioni istituzionali diverse. Queste società di mercato presentano norme divergenti nei mercati del lavoro, nell’amministrazione societaria, nei sistemi di welfare e nella regolamentazione. Tutte hanno generato quantità comparabili di ricchezza con leggi molto diverse. Non esiste una singola ricetta di configurazione istituzionale per il successo economico. Sì, i mercati, gli incentivi, i diritti di proprietà, la stabilità e la prevedibilità sono importanti. Ma non implicano un unico modello.

Le istituzioni che facilitano il capitalismo sono malleabili. La storia e la realtà contemporanea lo rendono chiaro. Come ha sottolineato il teorico politico Roberto Mangabeira Unger, non c’è motivo di pensare che la gamma di divergenza istituzionale che osserviamo nel mondo odierno esaurisca tutte le possibilità praticabili. Le funzioni istituzionali desiderate – allineare gli incentivi privati ​​all’optimum sociale, instaurare la stabilità macroeconomica, raggiungere la giustizia sociale – possono essere generate in molti modi diversi. L’unico limite è fissato dalla nostra immaginazione. Semplicemente non esiste un unico insieme di buone norme.

Data la non unicità delle norme e delle istituzioni che permettono il capitalismo, non sorprende che gli stati-nazione risolvano in modo diverso i principali compromessi sociali. Il mondo non è d’accordo su come bilanciare l’uguaglianza e le opportunità, la sicurezza economica e l’innovazione, i rischi sanitari e ambientali e l’innovazione tecnologica, la stabilità e il dinamismo, i risultati economici e i valori sociali e culturali e molte altre conseguenze della scelta sulla configurazione istituzionale. Le nazioni in via di sviluppo hanno requisiti istituzionali diversi dalle nazioni ricche. In breve, ci sono argomenti forti contro l’armonizzazione istituzionale globale.

Consideriamo la questione di come regolare i mercati finanziari. Le banche commerciali dovrebbero essere separate da quelle d’investimenti? Dovrebbe esserci un limite alla dimensione delle banche? Dovrebbe esserci un’assicurazione sul deposito e, in caso affermativo, cosa dovrebbe coprire? Le banche dovrebbero essere autorizzate a fare operazioni per proprio conto? Quante informazioni dovrebbero rivelare sulle proprie operazioni? La compensazione dei dirigenti dovrebbe essere stabilita dal consiglio di amministrazione, senza controlli regolamentari? Quali dovrebbero essere i requisiti di capitale e di liquidità? E così via.

Un compromesso centrale è tra l’innovazione finanziaria e la stabilità finanziaria. Un approccio leggero alla regolazione massimizzerà la portata di innovazione finanziaria (lo sviluppo di nuovi prodotti finanziari), aumentando la probabilità di crisi finanziarie e di crash. Una forte regolamentazione ridurrà l’incidenza e i costi delle crisi, ma aumenta il costo della finanza escludendo molti dai suoi benefici. Non esiste una risposta globale, nessuna formula universale da applicare a queste domande. Le diverse comunità troveranno una vasta gamma di risposte al compromesso ottimale tra stabilità e innovazione. Una soluzione globale potrebbe avere la virtù di ridurre i costi di transazione in finanza, ma comporterebbe altri costi significativi dovuti al non essere in sincrono con la realtà e le preferenze locali. Al momento, la regolamentazione finanziaria si trova di fronte a questo stallo: le banche stanno spingendo verso regole globali comuni e le istituzioni nazionali e i responsabili politici stanno facendo resistenza.

Infine, poiché non esiste un modello fisso e ideale per le istituzioni, e la diversità è la regola piuttosto che l’eccezione, un sistema di governo globale diviso rappresenta un ulteriore vantaggio. Permette la sperimentazione, la concorrenza tra forme istituzionali e l’apprendimento dagli altri. Per essere sicuri, l’apprendimento empirico può essere costoso quando si tratta delle regole della società. Tuttavia, la diversità istituzionale tra le nazioni è quanto di più vicino ci si possa aspettare ad un laboratorio di capitalismo nella vita reale.

Ma un mondo con meno regole globali che reprimono gli stati-nazione non sarebbe maturo per il protezionismo? I governi nazionali sono tenuti a ricercare l’interesse nazionale, e giustamente. Ciò non esclude la possibilità che gli elettori possano agire con un autentico e illuminato interesse personale, tenendo conto delle conseguenze delle azioni di politica interna per gli altri. Ma cosa succede quando il benessere dei residenti locali confligge con il benessere degli stranieri?

Fortunatamente, nella maggior parte delle aree economiche – tasse, politica commerciale, stabilità finanziaria, gestione fiscale e monetaria – ciò che ha senso da una prospettiva globale ha un senso anche da un punto di vista nazionale. L’economia insegna che i paesi devono mantenere frontiere economiche aperte, una solida regolamentazione prudenziale e politiche di piena occupazione, non perché queste sono buone per altri paesi, ma perché servono ad allargare la torta economica nazionale. La magia del vantaggio comparato è che il commercio internazionale allarga le opportunità economiche per ogni nazione, indipendentemente dalla sua struttura economica o dal livello di sviluppo.

Ovviamente, in tutti questi settori si verificano fallimenti delle politiche – ad esempio, il protezionismo. Ma questi riflettono una scarsa capacità amministrativa nazionale, non una mancanza di cosmopolitismo. Derivano dall’incapacità dei responsabili politici di convincere i collegi nazionali a beneficiare di scelte migliori, dalla cattura della politica da parte di potenti interessi o dalla mancanza di volontà di apportare adeguamenti per garantire che effettivamente ne benefici la maggior parte dei gruppi nazionali. Ciò che dà al nazionalismo economico la sua fama meritatamente negativa non è il perseguimento dell’interesse nazionale in sé. È il ricorso a rimedi che servono ancora un altro gruppo di interessi particolari – lobby protezioniste o gruppi nativi.

Quando spingono accordi commerciali, le élite intellettuali e finanziarie spesso accusano i loro critici di trascurare gli interessi dell’economia globale o delle nazioni povere. Ma in questi casi il nascondersi dietro il cosmopolitismo è un povero sostituto per vincere le battaglie politiche nel merito. E svaluta la moneta del cosmopolitismo quando ne abbiamo veramente bisogno, come nella lotta contro il riscaldamento globale.

Il disegno istituzionale richiede un compromesso fondamentale. La diversità dei bisogni e delle preferenze sociali spingono l’amministrazione verso il basso, a livello locale. Allo stesso tempo, la scala e la portata dell’integrazione dei mercati spingono l’amministrazione a livello globale. Un risultato intermedio, un mondo diviso in diversi sistemi di governo, è il meglio che possiamo fare.

L’insufficiente riconoscimento del valore degli stati-nazione conduce a vicoli ciechi. Spingiamo i mercati oltre ciò che la loro capacità di governo può supportare; o stabiliamo regole globali che sfidano la diversità dei bisogni e delle preferenze che ne sta alla base. Indeboliamo lo Stato-nazione senza compensare i miglioramenti nel governo altrove. L’incapacità di capire che gli stati nazionali costituiscono la base dell’ordine capitalista è al centro sia delle ingiustizie non affrontate della globalizzazione, sia del declino della salute delle nostre democrazie.