Donna, giovane, laureata: la vera vittima del sistema Italia

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I dati del Global Gender Gap Report 2017 non rivelano solamente che in Italia non esiste parità di genere, ma spiegano anche perché il problema è più ampio di così e coinvolge pure i giovani e le persone istruite. Un pezzo di Paese sacrificato sull’altare di bisogni e paure dei maschi di mezza età

 

Ottantaduesima su 144 Paesi del mondo. Basterebbe il dato aggregato, la posizione in classifica generale nel Global Gender Gap Report 2017 del World Econonmic Forum per sparare a palle incatenate sull’Italia. Per gridare vendetta contro un Paese del G7 che sulla parità di genere – calcolato indipendentemente dal benessere assoluto di quello stesso Paese e dall’effettiva emancipazione delle donne in quel Paese – riesca a fare peggio di tutta Europa, con esclusione di Cipro e Malta, ma anche di Paesi asiatici come Russia, Filippine, Kazakhstan, Mongolia, Bielorussia, Thailandiao africani come Ruanda, Burundi, Kenya, Uganda, Botswana, o centro-sudamericani come Colombia, Argentina, Messico.

Basterebbe questo per dire che in Italia c’è una questione di genere grande come una casa. Ma fare l’elenco di tutti gli squilibri non basta a spiegarli. Innanzitutto, perché non ci sono legislazioni consapevolmente e deliberatamente anti-femminili a determinarli. È lo stesso Wef a riconoscerlo: l’Italia ha leggi contro la discriminazione femminile, contro la violenza domestica, contro la discriminazione delle figlie nei diritti di successione, per la tutela delle mogli nelle cause di separazione e – confrontare per credere! – pure uno dei congedi parentali per le neomamme tra i più generosi al mondo.

C’è di più e c’è dell’altro, è evidente. E la tana del Bianconiglio, sorprendentemente, è proprio l’unica cosa in cui l’Italia eccelle nella classifica del World Economic Forum: l’educazione superiore. Le iscrizioni delle donne all’università superano infatti quelle maschili di 36 punti percentuali. Tradotto: per ogni cento maschi iscritti all’università, ci sono 136 donne. A completare il percorso di studi, peraltro, è il 17,4% della popolazione femminile, contro il 12,7% dei maschi.

Di fatto la popolazione femminile, soprattutto quella più giovane, è più istruita di quella maschile. Ma, sorprendentemente, – sono sempre i dati del Wef a parlare – le donne lavorano meno. La disoccupazione femminile al 12,8% contro il 10,9% maschile, percentuale che aumenta patologicamente tra i giovani – è tre volte tanto – e ancora di più tra le giovani donne, visto che la disoccupazione giovanile femminile è quasi di quattro punti percentuali più alta di quella giovanile maschile (37,6% a 33,8%). Soprattutto escono molto di più e molto prima dal mercato del lavoro: per ogni cento “scoraggiati” che non cercano più lavoro, sessanta sono donne.

Veniamo al punto: perché le donne lavorano meno degli uomini? Perché le donne istruite lavorano meno degli uomini meno istruiti? Perché le donne giovani e istruite lavorano meno di tutti?

Veniamo al punto: perché le donne lavorano meno degli uomini? Perché le donne istruite lavorano meno degli uomini meno istruiti? Perché le donne giovani e istruite lavorano meno di tutti?

Comprendere il senso di questo apparente paradosso è andare dritti al cuore della malattia italiana. E non chiama in causa oscuri e consapevoli complotti contro i giovani, le donne e i cervelli. Ma politiche tese a salvare chi, evidentemente, non è né giovane, né donna, né istruito. I fondi europei per la formazione dirottati sulla cassa integrazione straordinaria e in deroga negli anni della crisi, ad esempio. I tagli alla scuola nell’ordine del 10%, quando il resto della spesa pubblica veniva tagliato del 2%, nel momento in cui si tentava di salvare lo Stato italiano dalla tempesta dello spread. Le politiche di sostegno alla conciliazione tra vita e lavoro, pressoché inesistenti. I mille asili in mille giorni, rimasti promessa di una conferenza stampa di fine estate (di tre anni fa). Più in generale, tutte le riforme, dal lavoro alle pensioni costruite ai margini di chi già stava lavorando o di chi già aveva una pensione. E ancora più in generale un sistema di protezione sociale costruito attorno alla figura del “capofamiglia” maschio, adulto, meno istruito, soggetto sociale attorno alle cui paure al cui bisogno di protezione lo Stato italiano, i partiti, i sindacati tutti continuano a costruire le loro proposte politiche.

Domanda: e se un giorno qualcuno provasse a costruite un’Italia a misura di una giovane donna istruita? Un’Italia che investe nella scuola, che valorizza il talento attraverso investimenti in ricerca e innovazione, che bilancia il welfare attraverso un maggior sostegno all’indipendenza giovanile, all’emancipazione femminile, al sostegno alle giovani coppie e alla natalità. Sicuri che staremmo peggio di come stiamo oggi? Sicuri sicuri?

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