“Gli operai della vigna” non è una parabola antisacrificale

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“Una parabola antisacrificale” è il titolo che Massimo Recalcati ha dato al paragrafo dedicato alla parabola “Gli operai della vigna” (Mt 20, 1 – 16), nel suo libro “Contro il sacrificio” (Raffaello Cortina Editore). Ma “Gli operai della vigna”  non è una parabola antisacrificale, il suo significato non è una condanna del sacrificio. Trascrivo dal libro di Recalcati: “In questa parabola è chiarissimo l’intento di Gesù: ribaltare la logica sacrificale per indicare l’esistenza di un’altra logica che risponde a una Legge diversa dalla Legge della giustizia ordinaria.

Perché il padrone della vigna gratifica il lavoro dei suoi salariati senza tenere conto delle differenti ore di lavoro effettivamente compiute?”. E più avanti: “Vorreste fare del vostro sacrificio un vantaggio, un premio, una condizione di superiorità? Non m’importa nulla dei vostri sacrifici! Mi importa che abbiate risposto alla mia chiamata  e abbiate onorato il vostro patto. Se attraverso il fantasma sacrificale il soggetto intende acquisire un diritto di riscossione, la predicazione di Gesù sospinge piuttosto verso la perdita, la rinuncia, il disarmo, il dono, l’esposizione gratuita  e dispendiosa di sé che nulla ha a che fare con un calcolo o un tornaconto economico”.

Ora, questa ultima considerazione riguardo alla predicazione in genere di Gesù ovviamente è giusta, ma il significato della parabola è un altro. Il fatto che il padrone della vigna attribuisca uguale ricompensa alle prestazioni ineguali degli operai, non significa che il sacrificio degli uni e degli altri non sia lecito, che sia da condannare, che non meriti di essere ricompensato. Il padrone della vigna semplicemente non fa differenza tra chi ha lavorato di più e chi ha lavorato di meno. Ma non toglie niente a nessuno, non condanna nessuno, dà agli operai della prima ora il giusto compenso.  Non è vero che non gliene importa che gli operai abbiano “sopportato il peso e il caldo della giornata” (Mt 20, 13). Gliene importa, giacché dà loro il giusto salario. E’ generoso verso gli ultimi (i popoli pagani), gli “esclusi”. E ai primi rimprovera l’invidia per i secondi.

Negli operai della prima ora sono da ravvisare i Giudei, negli ultimi sono da ravvisare i gentili. Israele si sentiva superiore agli altri popoli, si sentiva popolo privilegiato, la ricompensa divina non riconosce posizioni di privilegio. “In fondo il vero significato della parabola, nascosto sotto il velo del linguaggio parabolico per i motivi ben noti (cfr 13,10 – 15), è l’abolizione, nel regno messianico, della condizione di privilegio vantata da Israele” (Angelo Lancellotti, Matteo, Edizioni Paoline, pag. 269). Condizione di privilegio non basata sui sacrifici, ma sulla elezione da parte di Dio. Il sacrificio non è il tema di questa parabola, né delle altre tre che seguono: “I due figli” (21,28 – 32 ); “I cattivi vignaiuoli” (Mt 21,33 – 41); “Il convito nuziale” (Mt 22, 1 – 14). Sono tutte e quattro “«lezioni» che Gesù dà sul problema scottante della sostituzione del giudaismo con un altro popolo che darà i frutti a suo tempo” (Angelo Lancellotti, nello stesso commento).

Renato  Pierri

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