Al lavoro come in guerra: il nemico e’ in casa nostra

Attualità & CronacaLombardia

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STRAGE OPERAIA A MILANO 

 Ancora una volta, ieri a Milano, tre operai sono morti sul lavoro. 

Secondo le prime ricostruzioni sembra che i primi due lavoratori -Arrigo Barbieri, 57 anni, responsabile di produzione e Marco Santamaria, 42 anni, elettricista – appena scesi nel locale sotterraneo, profondo due metri, che contiene il forno in cui si scalda l’acciaio; abbiano perso subito i sensi a causa dell’aria satura di gas. Un altro operaio – Giuseppe Barbieri, fratello di Arrigo – resosi conto del pericolo, ha chiamato aiuto e con Giuseppe Setzu, 48 anni, nel tentativo di salvarli scende nella camera sotterranea: i due, a loro volta, rimagono intossicati. Altri due lavoratori cercano di portare aiuto ma l’ambiente saturo di gas li costringe a indietreggiare (rimarranno intossicati). In quattro rimangono intrappolati nella camera a gas nella fabbrica . «Lamina Spa» di via Rho 9 a Milano. Tre sono uccisi subito e uno è in condizione gravissima. 

Quando si lavora e si vive quotidianamente fianco a fianco per un salario da fame, quando la solidarietà con i propri compagni resta l’unica possibilità di difendersi dallo sfruttamento, può anche succedere che non si esiti a portare aiuto anche in situazioni di pericolo. 

Ancora una volta, nel disperato, generoso, tentativo di salvare la vita ai compagni di lavoro degli operai perdono la vita. Al momento non sappiamo se la strage operaia poteva essere evitata con adeguate misure di sicurezza o se i padroni, come spesso accade, hanno risparmiato anche sulle misure antinfortunistiche. 

I morti sul lavoro non sono mai una fatalità e non dipendono dal destino,sono parte della brutalità e della violenza del sistema capitalista. 

Davanti a questo ennesimo omicidio di massa ora si sprecano le solite lacrime dei rappresentanti di governo, istituzioni, padroni  e sindacati, che parlano di morti bianche: come ricorda oggi il Corriere della Sera, nel 2017 (dati Inail, per difetto)  591 lavoratori: e noi ci chiediamo quanti padroni sono in galera per questi morti di lavoro. 

Coloro che piangono oggi lacrime di coccodrillo sono gli stessi che ogni giorno, in nome dell’aumento della produttività e del profitto, in nome del mercato, costringono milioni di lavoratori a lavorare in condizioni pericolose.  

Al di là delle chiacchiere istituzionali di circostanza è sempre l’aumento dello sfruttamento la causa principale dell’aumento degli infortuni e dei morti sul lavoro, perché nel sistema capitalista il profitto vale più della vita degli esseri umani e gli operai non sono altro che carne da macello. Il nemico è in casa nostra e si chiama profitto, non fatalità.  

Nessuno oggi rappresenta gli operai e – anche se siamo coscienti che solo abolendo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la classe operaia può liberarsi – è arrivato il momento in cui gli operai stessi si auto-organizzino per difendere la loro vita, i loro interessi, rivendicando che senza sicurezza non si può lavorare.  

Le nostre più sentite condoglianze ai famigliari dei lavoratori uccisi dal capitalismo. 

Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio  

Sesto San Giovanni 17 gennaio 2018

Risultati immagini per 1400 morti all'anno una repubblica fondata sulla strage immagini
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– La carneficina quotidiana che insanguina i luoghi di lavoro e le strade risultato dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della circolazione. Il governo ha messo in cantiere un nuovo “testo unico sulla sicurezza” nei luoghi di lavoro, ma già con la “finanziaria” ha sospeso i controlli per un anno sulle imprese. Non ci sono “scudi esterni” né “ispettori” che possano proteggere la salute dei lavoratori. Solo l’organizzazione dei lavoratori può arginare la carneficina. Costituire i “comitati ispettivi” operai negli ambienti di lavoro e sul territorio. Bloccare il lavoro e la circolazione in caso di nocività e di pericolo. Combattere il padronato e il capitale per una società ugualitaria senza sfruttati e sfruttatori.

La catena di omicidi bianchi e di infortuni, che strazia ogni giorno decine di migliaia di lavoratori tra vittime e conviventi, non deve suscitare solo angoscia indignazione rabbia. Deve anche suscitare comprensione del fenomeno. E, soprattutto, deve spingere i lavoratori a organizzarsi, a mettere in atto gli strumenti di salvaguardia della propria incolumità fisica e della propria salute. Questa catena di morti e mutilazioni deve portare i lavoratori a creare un’autodifesa permanente perché essa non è figlia del caso o della fatalità, ma è il risultato dello sfruttamento padronale della forza-lavoro, il risultato intrinseco dell’organizzazione capitalistica del lavoro, nella sua specifica concretezza storica. Ed è perciò un fenomeno, un flagello che non si può estirpare senza sradicare il capitalismo.  

I dati nazionali e mondiali del “macello”  

La carneficina di lavoratori salariati, giovani e adulti, locali e immigrati, ha dimensioni impressionanti. 

Secondo i dati forniti dall’INAIL, che come è noto registra solo gli infortuni denunciati non quelli realmente accaduti, dal 2001 al 2006 si è verificato più di un milione di infortuni all’anno, con oltre 1.200 morti e 30.000 invalidi. Nell’ultimo triennio i morti sono stati: 1.328 nel 2004; 1.280 nel 2005; 1.250 nel 2006. L’andamento degli infortuni in questa prima parte del 2007 registra un’impennata degli omicidi bianchi. Per avere un quadro completo del fenomeno alla massa di infortuni bisogna aggiungere la quantità enorme di casi di malattie professionali. Alla fine del 2006 l’INAIL ha erogato quasi 200.000 rendite per invalidità di malattia. Quindi è l’intero corpo del lavoro salariato che viene flagellato. 

Secondo i dati forniti dall’Ilo (organizzazione mondiale del lavoro) nel 2006 sono avvenuti nel mondo 270.000.000 di infortuni. E sono morti per infortuni e malattie professionali 2.200.000 lavoratori. Inoltre sono stati registrati 160.000.000 di casi di malattie professionali. Questo è quindi il prezzo che il salariato mondiale paga nel complesso con la propria vita e con la propria salute allo schiavismo tecnologico

Il costo sociale di questo olocausto è stimato in Italia in 42 miliardi di euro (che rappresentano il grosso delle erogazioni dell’INAIL). E, a scala mondiale, nel 4% del Pil globale.  

Il “sangue sull’asfalto”  

Agli effetti pratici e ai fini operativi bisogna poi tener conto che, nel nostro paese, il 50% degli infortuni mortali è legato alla circolazione stradale (infortuni in itinere), che è il canale di convogliamento della forza-lavoro all’entrata e all’uscita del generale processo di produzione. La circolazione stradale riflette il flusso della mobilità della forza-lavoro ed è il termometro del suo grado di fluidità. Per cui la scia di sangue che scorre ininterrottamente nei luoghi di lavoro (aziende, cantieri, depositi, porti, ecc.) e le pozze che coprono l’asfalto rappresentano (fatte le debite distinzioni tra la circolazione connessa al lavoro e quella legata alle attività extra) un fenomeno unitario. L’espressione di un campo unico di macellamento della forza-lavoro, mantenendo tuttavia la distinzione tra i due elementi costitutivi per pesarne la rispettiva incidenza interna. 

Ad illustrazione del mattatoio stradale ricordiamo che il 10 giugno 2003 perdeva la vita in via Ovada a Milano il nostro militante e dirigente Sergio Rosola mentre si recava al lavoro alla centrale Barona della Telecom di cui era dipendente. Nell’occasione sottolineavamo che il macello di vite umane che si verifica giornalmente sulle strade e autostrade ha la sua causa nella flessibilità generalizzata del lavoro e dell’esistenza; che non esistono accorgimenti protettivi atti a eliminarne gli effetti micidiali all’infuori della lotta proletaria; e che non basta denunciare la matrice pubblica del macello stradale, ma che occorre battersi contro questo tipo di distruttività sistemica; specificando in proposito che la lotta contro questo settore del mattatoio va collegata al fronte generale di lotta contro lo sfruttamento del lavoro e contro il potere statale che lo protegge a partire dai luoghi di lavoro ove la carneficina non si ferma mai (ved. Suppl. 1/7/2003). 

Detto questo veniamo alla prevenzione.  

Il paravento della prevenzione  

Il principio fasullo, e comunque subalterno, del sindacalismo confederale, portato ai governi di turno, è che senza vigilanza e sanzioni le leggi non vengono applicate e che lo scudo contro gli infortuni sono i controlli. Su questa premessa di principio c’è chi invoca una task force per i controlli; chi suggerisce di rafforzare lo strumento ispettivo accentuando le competenze attribuite ad ASL INAIL ARPA; chi lamenta che gli ispettori intervengono poco e in modo inefficace. A vedere quello che accade si capisce subito che si tratta di finzioni o tutt’al più di velleità. 

Lo confessano gli stessi addetti ai lavori. Gli ispettori ministeriali lamentano in primo luogo la mancanza di mezzi e le difficoltà degli accertamenti; in secondo luogo il clima di minaccia che circonda tante imprese a nero. I medici del lavoro raccontano che dedicano il 75% del loro tempo a svolgere attività di polizia giudiziaria sull’infortunio già avvenuto. I rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza (Rls), a prescindere della loro nomina da parte dei burocrati sindacali, hanno scarsi poteri (peraltro sempre più smangiati dalla contrattazione articolata). Sono limitati alla singola azienda. E, quando arrivano, arrivano a fatto compiuto. Quindi nella concreta realtà produttiva e/o circolatoria tutti gli strumenti della prevenzione si rivelano punte spuntate.  

Le lacrime di coccodrillo dei vertici istituzionali e il nuovo disegno sulla sicurezza  

Di fronte alle ultime stragi sul lavoro il capo dello Stato ha dichiarato visibilmente commosso che non “ci sono parole per esprimere il cordoglio”; mentre il presidente del consiglio ha reperito la parola solenne “martirologio” scambiando le vittime con volontari della morte. Come sempre i vertici istituzionali versano lacrime sul latte versato. Lacrime che sono tanto più patetiche quanto più ipocrite e impotenti. Tuttavia non c’è dubbio che alla base di tanti tragici eventi ci sono precise responsabilità istituzionali, ministeriali governativi statuali, costituite da inottemperanze omissioni mercimonio delle funzioni pubbliche, ecc., in quanto o le misure anti-infortunistiche disposte per legge spesso restano lettera morta o i controlli affidati agli ispettori del lavoro e al personale medico sono radi e poco incisivi. Per cui nessun rappresentante delle pubbliche istituzioni può tirarsi fuori dalla responsabilità politica, e per tanti versi anche da quella giuridica, delle stragi sul lavoro

Sull’onda delle recite istituzionali il Consiglio dei Ministri ha varato il 13 aprile un disegno di legge per raccogliere in un testo unico le norme sulla sicurezza sui posti di lavoro. Il disegno porta la firma dei ministri Damiano-Turco e imposta il riordino della materia su tre linee: a) stabilendo premi alle imprese che ridurranno il numero degli infortuni; b) riconoscendo la tutela anti-infortunistica ai para subordinati e interinali; c) estendendo, nell’appalto, la responsabilità dalle società appaltatrici alle società appaltanti. Il disegno tra l’altro non precisa come possano agire i RLS. Riservandoci ad altro momento un’analisi più esauriente e dettagliata del disegno dobbiamo fare subito alcune osservazioni preliminari. 

Prima di tutto bisogna rilevare che l’estensione della normativa anti-infortunistica ai parasubordinati senza prima abolirne il fittizio stato di autonomi, che maschera la condizione reale di dipendenza, mantiene normativamente questa categoria di lavoratori in una situazione di svantaggio. In secondo luogo va denunciato che la linea dei premi porta a sgravare le imprese dai controlli, come ha già fatto la Finanziaria in vigore (comma 1198) che ha sgravato dai controlli per un anno le imprese che riemergono dal nero. In terzo luogo va inoltre denunciato che il disegno Bersani sulle liberalizzazioni ha attribuito ai privati una parte della sicurezza, spostando per i macchinari a pressione (che riguardano una vasta gamma di lavorazioni) la competenza dei controlli dalla Ispcsl a società private. In quarto luogo va ancora denunciato che il disegno, pur estendendo la responsabilità alle società appaltanti, non si occupa della struttura societaria delle subappaltatrici spesso costituite da cooperative di lavoratori che mascherano rapporti di lavoro di tipo negriero. Infine va da ultimo denunciato che il disegno si disinteressa delle condizioni di flessibilità del lavoro e dei luoghi di lavoro e non prende neanche in considerazione il prolungamento illimitato degli orari, la detassazione degli straordinari, ossia tutto ciò che rende usurante intorpidente epperciò più rischiosa la prestazione lavorativa. Il nuovo disegno sulla sicurezza allarga quindi la forbice tra attività lavorativa e insicurezza; esautora i lavoratori e affida il controllo alle imprese; legalizza le condizioni di insicurezza proprie della precarizzazione del lavoro.  

La prevenzione, se non è attuata dai lavoratori, si adegua alla logica del profitto  

Il ministro del lavoro, ex sindacalista della Cgil, e il vice-presidente della Confindustria reclamano insieme più sorveglianza dall’esterno e più ispettori. Si tratta della proverbiale ricetta delcane che si morde la coda. Chi può infatti stabilire quando ci sono le condizioni per poter lavorare e quando bisogna invece bloccare le operazioni lavorative se non gli addetti comandati ad eseguirle?! Non ci sono controlli esterni che mettano in discussione il dominio unilaterale del capitale sulle condizioni di lavoro. Il dilemma, che non si può nascondere, è che l’utilizzo padronale usa e getta della forza-lavoro costituisce un meccanismo di sfruttamento e al contempo di distruzione della forza-lavoro. Analizzando il riassetto del mercato del lavoro, avvenuto nel 2003, abbiamo messo subito in evidenza che la competitività basata sulla flessibilità a tutto spiano, elimina ogni limite alla razzia del lavoro; e abbiamo conseguentemente chiarito che non c’è comparto dell’economia, o settore operaio o impiegatizio, che non sia sconvolto dalla riorganizzazione flessibile del lavoro; e precisato che con la legge Biagi il padronato ha rimosso ogni residuo limite all’utilizzo elastico dei lavoratori e portato a termine una legislazione del lavoro schiavizzato (ved. Suppl. 16/11/03). Il dilemma perciò è che la razzia del lavoro (non solo la frantumazione del ciclo produttivo o la svalutazione dei lavori rischiosi e disagiati) innesca meccanismi selvaggi di torchiatura e di mutilazione della forza-lavoro; nei cui confronti cedono regole e controlli esterni. Esempio: la Lombardia è in testa al numero di infortuni sul lavoro ed occupa questo primato non tanto perché abbia la percentuale più alta di lavoratori, quanto perché manca la sicurezza negli ambienti di lavoro e perché è terreno principe di razzia del lavoro. La regione marcia verso un livello più alto di privatizzazione, ossia verso un livello più alto di manipolazione distruttiva della forza-lavoro. E, quindi, non ci sono controlli esterni che possano garantire la sicurezza nel lavoro. 

 La “sicurezza” deve essere imposta dai lavoratori 

 Il 13 aprile trecento operai del porto di Genova hanno bloccato il lungomare Canepa in segno di protesta contro la straziante fine di Enrico Formenti, quarantenne, rimasto schiacciato da due balle di cellulosa di 1.700 kg l’una mentre lavorava in una stiva. Per il porto si tratta della trentesima vittima in 10 anni; dell’ultimo omicidio bianco di un ambiente di lavoro che, come sanno i portuali, divora il corpo a pezzetti (prima una mano, poi un braccio, poi una gamba, fino a tutto il corpo). Dopo avere vegliato il corpo del compagno, i trecento lavoratori si sono riversati sulla strada, ove hanno acceso un gran falò a base di copertoni, per manifestare col fumo nero non solo il loro dolore ma la volontà di reagire contro il sanguinoso stillicidio. La protesta ha assunto la forma di una sollevazione; tanto che i burocrati sindacali per calmare gli animi hanno indetto uno sciopero di 24 ore. Ma quello che è importante, e che merita di essere sottolineato di questa sollevazione, è la consapevolezza dei manifestanti che chi parla di sicurezza dall’esterno inganna i lavoratori e la volontà che la sicurezza va imposta dai lavoratori stessi. E va imposta intervenendo sugli spazi troppo stretti, sulle condizioni di nocività e di pericolo, sui ritmi e orari; in breve su tutto ciò che mina la salute e l’incolumità personale di chi il lavoro lo fa effettivamente. Perciò, se non è errato dire, come ripetono a iosa i liturgici della prevenzione, che gli incidenti non sono intrinseci al lavoro, questo non vale o è estremamente relativo per il lavoro salariato, per l’organizzazione capitalistica del lavoro, che, come i dati dimostrano, è la fonte principale in assoluto di distruzione di vite umane; e di vite umane di sfruttati e oppressi. 

Pertanto, concludendo e traducendo in termini pratici le considerazioni che precedono, diamo a braccianti operai addetti ai trasporti lavoratori dei servizi e di ogni altro settore le seguenti indicazioni operative. 

– Sollevarsi contro le stragi sul lavoro per affermare la dignità, personale e sociale, di chi lavora. 

– Promuovere uno sciopero generale di un giorno intero, di tutti i comparti e di tutte le categorie, a sostegno della dignità della salute e dell’incolumità fisica dei salariati. 

– Costituire i comitati ispettivi operai di fabbrica quartiere zona per difendere concretamente salute e incolumità fisica dalla nocività-pericolosità degli ambienti di lavoro e delle vie di circolazione; col compito di bloccare l’attività lavorativa fino alla rimozione della fonte di danno e di pericolo e al ripristino delle condizioni di sicurezza. 

– Assicurare la base necessaria di sviluppo ai comitati ispettivi operai, mediante l’organizzazione autonoma di tutti i lavoratori salariati, fino alla costituzione di un autentico sindacato di classe

– Opporsi al delirio punitivo contro i conducenti in nome della sicurezza stradale ed esigere la messa in sicurezza di strade e autostrade. 

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