L’ego dei giornalisti

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di Anna Momigliano

È un periodo in cui tra, chi scrive e legge i giornali, si sta parlando molto di fact-checking e di fake news. È una cosa, credo, positiva. Sta diventando sempre più normale farsi delle domande che prima sembravano appartenere a un altro pianeta, rispetto a quello del giornalismo italiano. Si è creato un clima in cui vedo sempre più amici e colleghi pronti ad ammettere che un problema di standard giornalistici, un’anomalia italiana, esiste e che va affrontato. Eppure. Eppure manca un pezzo. In tutti i discorsi che ci stiamo facendo, su questa anomalia, ancora non ho sentito una riflessione su quanto siamo disposti a metterci in gioco.

Questa settimana per Studio ho fatto due chiacchiere con Peter Canby, il capo della squadra di fact-checker del New Yorker. Sono molti i fattori che rendono il processo di fact-checking del New Yorker davvero unico, anzi «leggendario», come scrive Matteo Codignola. C’è una squadra di venti professionisti di prim’ordine, c’è il budget, ci sono una prassi e una conoscenza sedimentate nel tempo. Esiste però anche un elemento più terra a terra, che potrebbe essere più facilmente trasposto nelle redazioni italiane: la volontà di controllare (ovvero mettere in dubbio) quello che scrivono i giornalisti, e la disponibilità, da parte di questi ultimi, all’idea che il loro lavoro venga controllato, e dunque messo in dubbio.

In tutta la mia carriera m’è capitato soltanto una volta di avere a che fare con il dipartimento di fact-checking di un magazine americano e ammetto che, in un primo momento, non è stata una cosa facile da mandare giù. Il fact-checking è un processo, dove il giornalista è l’imputato e il fact-checker è dell’avvocato del diavolo: «Prendiamo un articolo, lo facciamo a pezzi e poi proviamo a rimettere i pezzi insieme», nelle parole di Canby. Il problema è che prendere il lavoro di un collega e farlo a pezzi è il genere di cose che da noi non si fa: è inelegante, poco corporativo, e si rischia di offendere qualcuno. Mi domando quanti, tra noi, sarebbero veramente disposti a sottoporsi a un processo di questo genere. Siamo pronti a renderci un po’ più vulnerabili, per essere più credibili?

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