Il crollo della lira, l’ira saudita, Trump contro tutti

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IL MONDO OGGI
 
Carta di Laura Canali.

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni

a cura di Niccolò Locatelli

IL CROLLO DELLA LIRA [di Daniele Santoro]

“Loro hanno il dollaro, noi abbiamo Allah”. Tayyip Erdoğan non molla, malgrado la lira turca abbia preso a veleggiare verso orizzonti totalmente incogniti. Il dollaro balla sulla soglia psicologica delle 6 lire, l’euro si avvicina alle 7. Con l’inflazione in ascesa libera.
Il crollo verticale dell’ultimo mese (-20%) conferma che non si tratta di crisi monetaria, ma di indicatore monetario di crisi geopolitica. Il 26 luglio, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha minacciato le sanzioni contro Ankara, il dollaro era a quota 4,86.
È l’attacco contro la lira la vera “sanzione” comminata alla Turchia da Trump, che intende riportare a casa il pastore Andrew Brunson – detenuto dall’ottobre 2016 con l’accusa di fiancheggiamento del terrorismo gulenista – entro le elezioni di metà mandato per soddisfare la sua base elettorale evangelica, per la quale Erdoğan incarna nientemeno che l’Anticristo.
Di qui un quesito legittimo: perché Erdoğan non fa la cosa più semplice? Restituire il presbitero agli americani permetterebbe alla lira di respirare, dando una boccata d’ossigeno al sistema bancario e all’economia tutta. Ma così il presidente turco perderebbe la faccia, assetto geopolitico innegoziabile. Il braccio di ferro con gli Usa sul caso Gülen-Brunson-Zarrab-Atilla-Halkbank è divenuto una questione di dignità nazionale.
Perché la posta in gioco dello scontro non sono i due predicatori, il trafficante iraniano, il manager turco, la lira o i beni dei ministri turchi negli Stati Uniti. La posta in gioco è la posizione della Turchia nel vicereame balcanico-mediorientale del sistema imperiale americano. La presente crisi potrebbe risolversi con uno scambio mutuamente soddisfacente: Brunson in cambio di Atilla, manager detenuto negli Stati Uniti nell’ambito del processo Zarrab-Halkbank. Nessuno perderebbe la faccia. Anche perché queste sono solo scaramucce. Lo scontro vero e proprio – una replica del post-Cipro 1974: embargo Usa alla Turchia, chiusura delle basi turche agli Usa – arriverà quando Erdoğan non potrà fare a meno di riconoscere che Washington non ha intenzione di appaltare l’egemonia in Medio Oriente a nessuno, nemmeno a lui.

TRUMP CONTRO TUTTI

Questa settimana Donald Trump è riuscito a colpire quasi tutti i numerosi rivali geopolitici degli Stati Uniti (o suoi). Ha iniziato ripristinando alcune sanzioni contro l’Iran. Sanzioni che – salvo esenzioni che deciderà la Casa Bianca – non colpiranno solo la Repubblica Islamica ma anche chi con quest’ultima vorrebbe continuare a commerciare. A partire dalle aziende dei paesi europei, che dovendo scegliere tra l’Iran e il mercato più ricco al mondo opteranno naturalmente per quest’ultimo; i tentativi di Bruxelles di cammuffare la propria inferiorità geopolitica non andranno a buon fine.
Sistemati Teheran e l’Ue, è stato il turno della Russia, oggetto di ulteriori sanzioni per l’utilizzo di un agente nervino nel caso Skripal. Che la responsabilità di Mosca nel tentato avvelenamento dell’ex spia non sia stata provata, ai fini del confronto Usa-Russia, non conta; più interessante, per quanto non imprevisto, che gli apparati (in questo caso Congresso e dipartimento di Stato) stiano imponendo sui rapporti con Putin una linea non condivisa da The Donald.
Poi è toccato a Pechino: Washington ha pubblicato la lista dei 279 beni cinesi (valore stimato: 16 miliardi) su cui verrà applicato il dazio del 25% promesso a giugno. La Cina ha ricambiato e la guerra commerciale promette di andare avanti a lungo.
Con la moneta della Turchia punita dai mercati (sollecitati dall’annunciato raddoppio trumpiano delle tariffe Usa su acciaio e alluminio di Ankara) e il regime del Venezuela scosso dal fallito attentato a Maduro, rimaneva da colpire un solo avversario, non degli Usa ma del suo presidente: il Canada. Ci ha pensato il cliente saudita.

L’IRA DI RYAD

Nell’offensiva diplomatica di Riyad contro il Canada, il Canada stesso c’entra molto poco. Certo, Ottawa ha criticato per bocca della ministra degli Esteri la detenzione di un’attivista saudita per i diritti umani. Ma è stata decisiva la necessità – avvertita dal principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) – di proiettare un’immagine di inflessibilità e intolleranza verso le ingerenze esterne, ironica per un paese dipendente dagli Stati Uniti come l’Arabia Saudita. D’altronde con MbS Riyad ha avviato un cammino di riforme che contempla aperture cosmetiche sul tema dei diritti tanto caro all’Occidente e altre più sostanziali ma più difficili da realizzare nella gestione dell’economia. Allora il Canada cosa c’entra? Ha una colpa: il suo primo ministro Trudeau non solo è femminista, ma soprattutto è un critico di Trump.

RESILIENZE AFRICANE

La resilienza è quella di leader e apparati, al potere da decenni, intenzionati a non lasciarsi spazzare via dalle elezioni. Così in Zimbabwe il generale Emmerson Mnangagwa, subentrato al rovesciato Mugabe, ha ufficialmente vinto le presidenziali del 30 luglio con un sospetto 50.8% dei voti e sta reprimendo le manifestazioni di protesta dell’opposizione. Nella Repubblica Democratica del Congo il presidente Kabila ha annuciato che non si ricandiderà alle elezioni previste a dicembre (e in ritardo di due anni), ma manda avanti il classico delfino, tanto spietato quanto privo di carisma. Con l’obiettivo di continuare a governare da dietro le quinte.

IL TENTATO ATTENTATO

Se l’obiettivo dell’attentato durante un comizio a Caracas era uccidere Nicolás Maduro, la missione è clamorosamente fallita. Se invece l’obiettivo dei suoi esecutori era mostrare – a chi fosse interessato – che è ancora attiva una forma di resistenza armata contro il presidente del Venezuela, lo scopo è stato raggiunto. L’erede di Hugo Chávez non può dormire sonni tranquilli.
Partiamo dalla questione dell’autenticità. I dettagli di quello che è accaduto nei cieli della capitale caraibica mentre Maduro teneva il discorso conclusivo dei festeggiamenti per l’81° anniversario della fondazione della Guardia nazionale (oggi) bolivariana non saranno probabilmente mai resi noti. Non sono chiari neanche ai ministri del governo. Il regime ha più volte gridato al colpo di Stato orchestrato dalla triade opposizione interna-destra colombiana-Stati Uniti senza mai addurre prove credibili, ma è ragionevole ritenere che quanto accaduto sabato non sia frutto di una messa in scena chavista. Anche perché ci sono precedenti recenti, senza bisogno di risalire al golpe fallito di Chávez del 4 febbraio 1992 (“por ahora“) o a quello contro lo stesso Chávez riuscito solo per un paio di giorni nel 2002.
Due droni carichi di C4 (?) che esplodono durante un comizio pubblico, lo spavento della first lady Cilia Flores, la coppia presidenziale portata via in fretta e furia, il panico dei militari in parata che rompono le righe, la diretta televisiva che documenta tutto e viene bruscamente interrotta, Maduro che ricompare solo tre ore dopo: nessun governo offrirebbe scientemente una tale immagine di debolezza, né aprirebbe una finestra di opportunità ai suoi nemici. continua a leggere

limes.it

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