Il novecento tra antropologia e letteratura

Arte, Cultura & Società

Di

Pierfranco Bruni*

Lingua e letteratura in un processo non omologato o omologante ma unificante. Ernesto de Martino ha intrecciato il percorso antropologico, la ricerca etno-antropologica e demo-etnoantropologica, con un processo prettamente letterario. La letteratura, che rilegge il contesto estetico e linguistico attraverso il modello antropologico, si serve di alcuni codici precisi che sono quelli dell’immaginario, della visione della territorialità e, soprattutto, quelli della tradizione. Il concetto di tradizione lega il modello antropologico a quello letterario.
Tra gli scrittori contemporanei che hanno maggiormente creato un confronto con l’antropologia, e in particolare con la lezione di De Martino, va ricordato inizialmente Luigi Pirandello che può essere definito uno dei primi etno-linguistici poiché si laureò con una tesi sulla parlata di Girgenti. In lui il linguaggio, la parola, la parlata costituiscono un’asse portante all’interno di un processo antropologico. Pirandello accanto alla lingua aveva posto il recupero della tradizione attraverso i riti e il mito della grecità diffusa, ma anche mediante gli archetipi provenienti dalla cultura greca e mediterranea (araba, musulmano- islamica ed egiziana). Un altro importante autore che ha impostato la sua ricerca sul piano letterario antropologico è stato Gabriele D’Annunzio.
Nelle “Novelle della Pescara” si assiste a un recupero di quella cultura popolare contadina che è alla base della ricerca demartiniana. Il canto popolare diventa canto del’oralità. L’antropologia nasce grazie a questa visione. Anche le tradizioni sono una trasmissione dell’oralità e D’Annunzio, nelle “Novelle della Pescara”, porta la loro testimonianza nell’ambito di due aspetti significativi: il concetto di madre-terra e quello di padre-viaggio. Elementi mutuati da Ernesto de Martino dentro una dimensione in cui l’antropologia non è solo virtuale, ma diventa antropologia dell’umanesimo sul cui modello si sono soffermati studiosi come Lévi-Strauss e Malinowski, oltre agli antropologi che hanno avuto un rapporto diretto con la letteratura.
Anche il cinema ha costituito un modello di recupero antropologico demartiniano, dimostrando di servirsi dell’antropologia. Mi riferisco, in special modo, a Ermanno Olmi con “L’albero degli zoccoli” e al capolavoro di Bertolucci “Novecento”. Cesare Pavese è stato un altro importante autore (contemporaneo a Ernesto de Martino) che ha inserito il senso del primitivo, del selvaggio, della magia contadina, all’interno di quella dimensione popolare che diventa percorso onirico.
Tre scrittori italiani (Pirandello, D’Annunzio e Pavese) che hanno come radicamento un confronto con la ricerca del rito e del furore demartiniano.
Uno dei primi percorsi antropologici è nato nella fase pre-illuminista. Nel momento in cui si recupera la lingua come forma dialettale, ponendola come modello etnico, si entra automaticamente nel campo della demo-etnoantropologia.
Uno dei grandi poeti ad essere entrato in questa visione, soffermandosi a lungo sullo studio della lingua, è stato Giacomo Leopardi. Nelle sue ricerche di saggistica-linguistica ha analizzato il senso del primitivismo, studiando con attenzione gli archetipi della lingua, ossia come e da cosa nasce la lingua che diventa immaginario popolare. In diverse circostanze ha espresso il desiderio di unificare la lingue, rendendosi ben presto conto dell’impossibilità di una omologazione dei riti e di una unificazione delle tradizioni e dei costumi. Il suo concetto di “viandante” ha come punto di riferimento l’inizio di un nuovo processo in cui la cultura dello “straniero” è fondamentale. Sarà infatti Leopardi a recuperare il canto del pastore errante, simboleggiante la tradizione di un messaggio non solo biblico e laico, ma anche di un messaggio in cui l’antropologia si impossessa della lingua.
Senza la visione antropologica la letteratura sarebbe solo estetica e avrebbe una funzione esclusivamente esistenziale. L’antropologia “atropos” è la comunità della centralità dell’uomo, dei popoli e delle civiltà.
È naturale che anche la letteratura contemporanea si sia avvalsa dello strumento antropologico, come in Carlo Levi, in Ignazio Silone e in tutta quella linea di cultura popolare che nasce con Rocco Scotellaro. Soprattutto la letteratura meridionale diventa letteratura antropologica in quanto lo scavo sul territorio, dentro il territorio e nel territorio, penetra nelle radici della memoria. La letteratura, attraverso l’antropologia, va alla ricerca della memoria e della identità. “Conversazioni in Sicilia” di Elio Vittorini è un bellissimo libro di estetica, ma soprattutto uno straordinario libro antropologico.
Si pensi a Grazia Deledda. Non c’è un solo suo libro, da “Canne al vento” al “Paese del vento” a “La madre” a “Cosima” che non contenga connotati antropologici. Grazia Deledda fa appello a un’antropologia religiosa, del fatalismo e della magia della religiosità. Forse tra i grandi che ho citato, Grazia Deledda è colei che crea il legame tra la religiosità popolare, il fatalismo e la magia, provenendo da un ambiente geografico in cui la letteratura è etnia, intreccio tra la parola reduce dell’Ottocento e quella moderna.
Ecco perché Grazia Deledda rappresenta uno dei punti di riferimento di un percorso antro-letterario del tutto da rileggere, esattamente come per Corrado Alvaro. Il suo “Gente in Aspromonte” possiede il senso dell’antropologia dell’ambiente dei pastori. Linee non omologanti che si intrecciano creando un concetto forte di letteratura della metafora.
In che modo può essere considerata in un tale contesto l’etnolinguistica?
L’etnolinguistica trova il suo radicamento all’interno del territorio che costituisce l’espressione più vera di un processo culturale che porta in essere singolari testimonianze in termini di un vocabolario linguistico radicato nella tradizione, ma che trova le sue radici nella innovazione.
La lingua è fatta di memorie, un bene immateriale che rinviene la sua principale espressione nella modalità di comunicazione. Il linguaggio comunica la materialità in modo immateriale.
Gli oggetti vengono espressi in termini linguistici, ma rimandano a una dimensione che ha la sua oggettualità. Attraverso la parola, l’oggetto diventa immateriale. La parola è immateriale, e in quanto tale, propone la proiezione di un’immagine che si fa immaginario.
Nel momento in cui io parlo di un oggetto, la parola in sé me lo mostra esattamente come se lo vedessi. La rappresentazione metaforica dell’oggetto passa attraverso la percezione data dal linguaggio. Una visione fortemente innescata nell’allegoria. L’antropologia si muove intorno alla metafisica e a vere e proprie allegorie, anche se la centralità è rappresentata sia dal luogo geografico che dal luogo dell’essere.
Per questo motivo sempre più spesso si parla di centralità dell’antropos, di modelli etnici che non potrebbero sussistere senza il vocabolario della lingua. Mettere insieme i concetti etnici e i significanti linguististici porta a questa giunta etnolinguistica e a una chiave di lettura prettamente antropologica.
L’antropologia ci permette di respirare ciò che è stato e che non abbiamo più. È questa la filosofia del tempo, ovvero la filosofia delle comunità e delle civiltà che si trasformano in una vera e propria identità. Ma l’identità conduce ad una appartenenza, di conseguenza il modello etnolinguistico spinge a scavare all’interno di una appartenenza.
Il legame tra identità e appartenenza è forte, ma sia l’uno che l’altro nascono da un principio di base che è l’eredità. La civiltà ha sempre la sua identità. Scavando nella civiltà, la cultura si appropria dei segni che diventano simboli. Anche la parola è un simbolo. Ritrovare questi simboli è sempre più un affondare nelle radici del proprio essere.
L’antropologia dell’essere costituisce un’antropologia dell’umanesimo. L’antropologia si muove sulla base di una tradizione forte, ma anche sulla volontà di costruire quello che potrebbe andare perduto. Il ricordo nella favola, nella leggenda e nei proverbi rappresenta un grande emisfero in cui il senso del tempo costituisce un percorso trascorso della vita dei popoli che ritorna costantemente.
L’antropologia è un attraversamento dell’età dell’uomo. Per questo motivo è necessaria la ricerca e ricontestualizzare un tempo che non è mai perduto e che vive dentro di noi. Un dato importante intorno al quale si muovono le cosiddette “comparazioni”. Sorella dell’antropologia resta la letteratura che deve uscire fuori dalla dicotomia e dall’oppressione del realismo.
Una letteratura che ha bisogno di queste icone che sono vissuti dentro la linguistica antropologica. Modelli che spesso vengono richiamati e che non vorremmo dimenticare. Perché sentirsi radicati significa non sradicarsi. Ritualità ed etnolinguistica è un binomio cui il “vocabolario” antropologico crea un processo con esiti simbolici. Infatti in Alvaro e nella Deledda il reale vive come una griglia simbolica.
I simboli sono l’espressione più autentica di un messaggio che trasmette identità. La parola non è solo comunicazione. È percezione e ricerca in un attraversanto di eredità per la quale il senso di appartenenza costituisce un vero proprio processo esistenziale.
L’antropologia è la chiave di lettura che pone al centro modelli culturali per i quali la dimensione del tempo è fondamentale.
Il tempo come rievocazione ma anche come evocazione. Il caso di Pavese ma anche di Pirandello.
La memoria nel tempo è come fermare tratti di vita che abitano nel nostro essere stati. Questo spazio ci riporta a ciò che chiamiamo tradizione. La etnoliguistica è, in fondo, trasformare l’immaginario in linguaggio. Ciò che fa la letteratura. Si attraversa il linguaggio trasformando, o mutuando, l’immateriale in materiale.
I codici della lingua sono le voci che legano il tempo al territorio. Intorno a questi temi i popoli le civiltà le società sono i veri riferimenti per allontanarsi da ogni sradicamento.
La lingua è le etnie radicano. Una pedagogia dell’esistente oltre il senso del perduto orizzonte.

*Responsabile Antropologia Sabap-Le

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