Nel conflitto in Yemen si fronteggiano “tre sovranità”: la sovranità giuridica del governo riconosciuto dalla comunità internazionale del presidente Abd Rabu Mansur Hadi (il cui interim è scaduto nel 2014) rilocato ad Aden; la sovranità rivendicata del quasi-Stato degli insorti huthi nella capitale Sanaa e nel nord-ovest; la sovranità territoriale del pro-secessionista Consiglio di Transizione Meridionale (Southern Transitional Council, STC), formato nel 2017 ad Aden.[1] Il 10 agosto scorso, i secessionisti del STC, che dispongono di forze militari e sostegno territoriale maggiori di quelli del presidente Hadi, hanno espugnato il palazzo presidenziale di Aden, sede temporanea del governo yemenita riconosciuto. Le istituzioni si erano qui trasferite dopo il primo golpe, quello portato a termine nel gennaio 2015 dagli huthi, gli insorti sciiti zaiditi del Nord, nella capitale Sana’a. Nonostante il palazzo fosse pressoché vuoto (il presidente Hadi trascorre gran parte del tempo in Arabia Saudita per motivi di sicurezza) e l’azione abbia incontrato pochissima resistenza da parte delle guardie filo-governative, i secessionisti hanno realizzato un secondo colpo di Stato, di portata soprattutto simbolica. L’escalation violenta, fomentata dall’uccisione di un carismatico comandante secessionista da parte degli huthi, è solo il più sanguinoso (una quarantina di morti ad Aden) degli scontri intermittenti, iniziati nel gennaio 2018, fra esercito e forze speciali filo-governative, sostenute dall’Arabia Saudita, e gruppi separatisti, appoggiati dagli Emirati Arabi Uniti (Eau).
Nel luglio 2019 proprio Abu Dhabi aveva confermato il ridispiegamento, già in corso, delle forze militari emiratine nel paese. Aden è l’epicentro della crisi intra-sunnita, ma focolai di guerriglia sono presenti anche nell’Abyan costiero (Zinjibar), a Shabwa (Ataq, Azzan) e, in misura minore, nel Wadi Hadhramawt (Sayyun). Le contraddizioni strategiche fra sauditi ed emiratini in Yemen, che guidano la Coalizione araba contro gli huthi ma sostengono qui formazioni rivali, sono ormai a nudo. L’alleanza saudita-emiratina ha istituito una commissione congiunta per stabilizzare le aree di conflitto e sono in corso, a Jedda, colloqui indiretti (shuttle diplomacy) fra governo riconosciuto e STC mediati dall’Arabia Saudita. Tuttavia, mentre i secessionisti alternano attacchi e ripiegamenti, con i filo-governativi che recuperano, e poi perdono, territori che non controllano dal 2015, la relazione fra Riyadh e Abu Dhabi ha imboccato un passaggio stretto che richiede compromessi per entrambe, nonché un’attenta analisi delle priorità geopolitiche.
Nei giorni della crisi di Aden, gli huthi hanno rafforzato i legami, anche d’immagine, con la galassia filo-iraniana, dapprima raccogliendo fondi per gli Hezbollah libanesi, poi operando un salto di qualità nelle relazioni diplomatiche con l’Iran: fra l’11 e il 13 agosto, il portavoce del movimento, Mohamed Abdul Salam, ha infatti incontrato a Teheran l’Ayatollah Ali Khamenei e il ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif, nominando un “ambasciatore” huthi in Iran. Sempre nella capitale iraniana, la delegazione degli huthi ha incontrato gli ambasciatori di Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia.[2] Lo stesso Abdul Salam ha poi avuto un colloquio, in Oman, con l’inviato speciale del presidente russo per il Medio Oriente. Il 14 settembre gli huthi hanno poi rivendicato il grave attacco con missili e droni contro installazioni petrolifere di Saudi Aramco, sebbene sia improbabile che gli insorti yemeniti abbiano realizzato in prima persona un’azione così sofisticata e precisa. Con le ultime mosse, Abdel Malek al-Huthi, leader del movimento settentrionale, sta spingendo gli huthi nell’orbita dei proxies di Teheran. Ecco che allora il colpo di scena americano è un potenziale game-changer nella crisi yemenita: gli Stati Uniti hanno avviato colloqui con gli huthi, forse in Oman, per porre fine al conflitto, come anticipato dal Wall Street Journal e annunciato da un alto diplomatico Usa nel corso di una visita, il 5 settembre, in Arabia Saudita (un luogo che di per sé racchiude un messaggio).[3] Questa potrebbe essere l’ultima finestra di opportunità per frenare l’avvicinamento politico-strategico degli huthi con Teheran e il loro processo di graduale “proxy-ization”.
L’interlocuzione fra Stati Uniti e huthi offre all’Arabia Saudita la possibilità, anche a fini di politica interna, di trattare con gli insorti sciiti mediante il filtro di Washington, al fine di mettere in sicurezza il confine e lo stillicidio di missili e droni lanciati ogni giorno verso infrastrutture militari e civili del regno. Di certo, i dissidi nel fronte anti-huthi permettono agli insorti del nord di riaffacciarsi a sud, alternando scontri a bassa e alta intensità nel nord-ovest (al-Dhale; Lahj; governatorato di Hodeida), incursioni mediante missili balistici (Aden), con l’abbattimento di due droni statunitensi per mezzo di missili terra-aria (l’ultimo caso confermato è avvenuto a Dhamar in agosto). Il presidente riconosciuto Hadi, stretto fra rivendicazioni autonomiste (nord, sud) e cattive performance di governo, è chiuso in una strada senza apparente uscita. Nel frattempo, al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) e Stato Islamico continuano a scontrarsi nel governatorato centrale di Al Bayda (distretto di Qaifa); soprattutto, essi sono tornati a sferrare attacchi su larga scala, rispettivamente nell’Abyan settentrionale (2 agosto, assedio di un centro militare delle Security Belt Forces – Sbf a Mahfad, 19 morti) e ad Aden (1 agosto, autobombe contro il quartier generale della polizia, 11 morti), contro obiettivi delle forze di sicurezza yemenite.
La crisi di Aden
La crisi di Aden, nonché nel triangolo compreso fra i governatorati meridionali di Abyan, Shabwa e Hadhramawt, riflette la frattura interna alle forze militari regolari dello Yemen. Tutti i protagonisti degli scontri estivi sono infatti componenti del security sector istituzionale: il secondo colpo di Stato è opera di un gruppo militare filo-emiratino, le Security Belt Forces/Al-Hizam Brigades (tradotto dai media italiani in “Cintura di Sicurezza”), cui si è contrapposta, a protezione del palazzo presidenziale, la Presidential Protection Unit (Guardia Presidenziale), una forza d’élite incaricata della sicurezza del presidente Hadi, guidata dal figlio Nasser. Le Sbf, attive fra Aden, Lahj e Abyan, sono formalmente controllate dal ministero dell’Interno del governo riconosciuto yemenita, dopo l’istituzionalizzazione avvenuta a fine 2016.
Composte soprattutto da membri della grande confederazione tribale meridionale degli Yafei, le Sbf combattono contro gli huthi (nell’estate 2015 il loro ruolo fu decisivo, sotto il comando degli Eau, affinché gli insorti sciiti ripiegassero al di fuori dell’area di Aden) e svolgono un ruolo fondamentale nella governance della sicurezza locale, nonché nelle operazioni di contrasto ad Aqap. Tuttavia, le Sbf sostengono l’autonomia e/o secessione del Sud dallo Stato centrale: esse sono affiliate al Stc e contano, tra le loro fila, esponenti tribali locali, salafiti armati e nostalgici dell’esperienza socialista dell’ex Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud (Pdry).
L’escalation violenta di Aden è stata innescata dall’uccisione, il 1° agosto 2019, di Munir Mahmoud Al Yafaei (alias Abu Al Yamama), il comandante delle Sbf di Aden (First Support Brigade): al Yamama, carismatico quarantenne di Mashala (Yafei district, Lahj), punto di riferimento per le molte battaglie post-2015, è stato ucciso, mentre assisteva dalle tribune a una parata militare, da un missile lanciato dagli huthi. L’attentato, diretto contro una base della Coalizione ad Aden (distretto di Buraiqa), è costato la vita a oltre quaranta militari, tra cui molte reclute. Nonostante al Yamama sia stato vittima degli huthi, le Sbf hanno fatto leva sul grave episodio per accusare Islah (il partito che raccoglie Fratelli musulmani yemeniti e parte dei salafiti, in appoggio al presidente Hadi) di complicità nell’attacco, nonché di aver infiltrato “terroristi” tra le forze che rispondono a Hadi. L’Stc, in realtà, percepisce Islah come un attore nordista al pari degli huthi: la leadership e la base tribale del partito (la famiglia tribale degli al Ahmar) è stata infatti il contrappeso, spesso dialettico, del blocco di potere “Sanaa-centrico” con cui Ali Abdullah Saleh ha governato lo Yemen per decenni, pur facendo parte dello stesso sistema di potere. Non è un caso che le Nazioni Unite abbiano denunciato intimidazioni, raid e spostamenti forzati di nordisti nella città di Aden. Gli scontri fra Sbf, Guardia Presidenziale e milizie legate a Islah sono proseguiti anche il 7 agosto, giorno dei funerali di al Yamama: in quell’occasione, il vicepresidente dell’Stc, il generale Hani bin Brik, ha chiesto ai sostenitori di marciare sul Palazzo presidenziale, occupato poi il 10 agosto. Dopo il colpo di Stato, le forze della Coalizione guidata dall’Arabia Saudita hanno bombardato due volte le postazioni dei separatisti ad Aden. Il 12 agosto, l’incontro d’emergenza a La Mecca fra il re saudita Salman, il principe ereditario Mohammed bin Salman (assai più defilato del padre nella recente gestione della crisi yemenita) e il vicepresidente degli Eau, Mohammed bin Zayed al Nahyan, a La Mecca ha permesso di avviare una de-escalation sul campo, con l’organizzazione di colloqui a Jedda fra le parti yemenite coinvolte.
Dopo la grande manifestazione pro-secessionista di Aden (14 agosto), in cui l’Stc ha chiesto il ritiro di Islah e delle forze militari nordiste (dunque le filo-governative) dalla città, i secessionisti si sono ritirati dal palazzo presidenziale e da alcune istituzioni strategiche (Banca centrale, ospedale, ministero degli Interni, raffineria), ma hanno mantenuto il controllo delle postazioni militari per due settimane, nonché del porto di Aden. Lo scontro si estende a molte aree del sud: l’Stc ha infatti espugnato due basi militari filo-governative a Zinjibar (Abyan, 20 agosto) e, mediante le affiliate Shabwani Elite Forces, milizie locali ora istituzionalizzate nell’esercito regolare, la città di Ataq, capoluogo del governatorato di Shabwa, combattendo qui contro la 21ma brigata dell’esercito yemenita (23 agosto). L’Stc ha poi reiterato l’invito a “liberare”, tra gli altri, il Wadi Hadhramawt (nord del governatorato) da “terrorismo e occupazione”.[4] La situazione è estremamente fluida: a seguito di combattimenti e di un cessate il fuoco a Shabwa, i filo-governativi hanno ripreso territori significativi nel governatorato, come Balhaf (porto e terminal gasifero) e Azzan, con le Elite Forces che hanno ripiegato da parte delle aree conquistate. Il 28 agosto, in una sola giornata, le forze governative, sostenute dai sauditi, sono entrate a Zinjibar (Abyan) e nella stessa Aden, controllandone l’aeroporto: i separatisti si sono in gran parte ritirati da postazioni e check-point, segno che l’avanzata delle istituzioni riconosciute è, in realtà, un riposizionamento concordato. Ma il 28 e il 29 agosto, gli Eau hanno bombardato forze filo-governative ad Aden definendole “gruppi armati affiliati a terroristi”, così invocando il diritto a un’azione preventiva di “autodifesa”, denunciata dal presidente Hadi come atto di “aggressione”.[5] I separatisti sono poi tornati a controllare molte aree della città e delle province del sud.
Un test per l’alleanza saudita-emiratina
Gli attori della crisi di Aden si muovono con ambiguità e calcolata strategia. L’Stc ha più volte confermato il sostegno al governo riconosciuto di Hadi, anche dopo il colpo di Stato, pur ribadendo che “l’obiettivo… di ripristinare uno stato federale indipendente del Sud è una scelta irreversibile e irrevocabile”.[6] Ma la frammentazione nel fronte sudista è massima e non riguarda soltanto le identità regionali e gli interessi locali: per esempio, al-Hiraak al-Janubi, il Movimento Meridionale di cui l’Stc è l’espressione “istituzionale”, si è dissociato dal golpe di quest’ultimo, che favorirebbe indirettamente gli huthi e l’Iran, invocando pertanto la mediazione saudita. Dando l’ennesima prova della propria superiorità militare, l’Stc intende anche ottenere quel posto al tavolo negoziale delle Nazioni Unite da cui la causa meridionale è stata fin qui esclusa. Nella crisi di Aden, gli Emirati Arabi Uniti cercano di trovare un difficile equilibrio fra la strategia geopolitica perseguita fin qui e il rapporto con l’alleato saudita. Infatti, la leadership emiratina ha chiamato alla de-escalation in Yemen solo alcuni giorni dopo il golpe e senza chiedere, pubblicamente, il ritiro delle forze secessioniste, da lei informalmente sostenute, dalle postazioni occupate. Il 25 agosto il ministro degli Esteri Anwar Gargash ha inviato un calibrato messaggio di rispetto e riconoscimento nei confronti di Riyadh, sottolineando quanto la coalizione saudita-emiratina sia una “necessità strategica” in Yemen, con Riyadh che ricopre un ruolo “centrale e di guida”, anche in relazione alla prosecuzione dell’impegno emiratino nel paese.[7] Il 26 agosto una commissione congiunta saudita-emiratina è stata poi istituita per sostenere de-escalation e stabilizzazione di Aden, Abyan e Shabwa.
La sensazione è che Abu Dhabi stia alternando concessioni (verbali) e azioni (militari), affinché gli attori del Sud ottengano di più negli assetti politico-istituzionali del governo riconosciuto. E così gli stessi Emirati: probabilmente l’uscita di scena dell’indebolito Hadi, l’arrivo di un vice presidente gradito, un ruolo per l’Stc e per i gruppi secessionisti nella futura riforma del settore militare. L’omaggio pubblico di Abu Dhabi alla guida saudita è una tappa intermedia nel percorso di influenza emiratina nel sud dello Yemen, al pari della firma di un comunicato congiunto in sostegno alla “legittimità delle istituzioni” (26 agosto). Dall’altra parte, l’Arabia Saudita sottolinea la necessità di “uniformare ranghi e voci per combattere la minaccia terroristica” costituita da “huthi, Aqap, Stato Islamico”.[8] Per Riyadh, l’occasione è inaspettatamente favorevole: se i colloqui di Jedda porteranno a un’intesa intra-yemenita, i sauditi potranno ridimensionare il ruolo degli Eau in Yemen, offrendo ai filo-governativi la possibilità di dispiegare le proprie truppe su aree che, per rapporti di forza, sarebbero rimaste loro inaccessibili, restituendo così un’aura di legittimità alle istituzioni riconosciute. Ma è pur vero che gli Eau potrebbero ottenere ruoli ufficiali, nel governo, per l’Stc, nonché una maggiore integrazione delle forze secessioniste nell’esercito, aprendo di fatto la strada a un vantaggioso processo di “ibridazione dello stato” che riecheggia lo scenario iracheno.[9] Rimane però da vedere, più realisticamente, per quanto tempo i gruppi armati locali pro-secessione rispetteranno le tregue territoriali negoziate dai vertici di Arabia Saudita ed Emirati e come evolverà il rapporto con gli Eau, che tali forze hanno plasmato, addestrato e armato. Una riflessione appare inevitabile: la lotta per il controllo dello “Yemen possibile”, quello del sud, è entrata nel vivo a causa del consolidamento della presenza degli huthi nel nord. Infatti, il quasi-governo degli huthi è uscito rafforzato dal mancato attacco alla città di Hodeida e dall’applicazione, seppur solo nella parte relativa al cessate-il-fuoco, dell’Accordo di Stoccolma negoziato fra huthi e governo Hadi nel dicembre 2018. Nello Yemen delle “tre sovranità”, ogni partita è a sé e, al tempo stesso, interdipendente.