Rousseau, Di Maio e un Movimento Cinque Stelle “in cerca di autore”

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di DONATELLO D’ANDREA

Con la debacle grillina in Umbria, il Movimento Cinque Stelle è stato costretto a fare i conti con una crisi lancinante, figlia di una progressiva perdita di consensi che hanno portato il primo partito italiano a perdere più della metà del proprio elettorato.

Una crisi che, ancor prima delle votazioni regionali umbre, era evidente ma che è stata volutamente nascosta da Luigi Di Maio per non intaccare ulteriormente la sua leadership all’interno del Movimento.

Dopo il sorpasso della Lega, avvenuto nell’agosto 2018, i sondaggi son riusciti ad inquadrare, in attesa del primo confronto ufficiale in Abruzzo, una lenta, ma inesorabile, discesa dei consensi, come se l’elettorato avesse smarrito la sua fiducia nei confronti del messaggio grillino. 

Ora, però, con la sonora sconfitta patita nell’ultimo confronto regionale e con una base elettorale che, per la prima volta, ha pubblicamente manifestato la sua contrarietà alla linea del partito, la crisi sembrerebbe essere entrata nel vivo. Solo con un deciso cambio di rotta, e magari con un nuovo leader, il Movimento Cinque Stelle riuscirà a sopravvivere. 

Luigi Di Maio e una leadership difficile

Quando il Movimento Cinque Stelle si presentò alle Elezioni Politiche del 2018, Luigi Di Maio pareva essere l’uomo giusto per guidare una forza nuova e rinnovante all’interno di un panorama politico popolato da cariatidi e vecchie ruggini. Trascorso un anno, quest’opinione condivisa mutò improvvisamente. Il giovane leader sembrava aver perso quel suo smalto in favore di una presenza più istituzionale, molto pacata e assolutamente inadatta, soprattutto a fronte della fortissima scarica propagandistica perpetrata dal suo amico-nemico-alleato di governo, Matteo Salvini.

Al contrario del capo del Carroccio, Di Maio non riusciva più a bucare lo schermo, a distogliere l’attenzione dagli interventi di Matteo Salvini, il quale stava costruendo la sua immagine di Ministro imperterrito a fare il bene dell’Italia, il che fruttava un certo consenso. In poche parole l’ex Ministro del Lavoro non è riuscito ad imprimere una linea politica decisa al suo partito, in mano a correnti diverse e di cui nessuna dominante. 

Per comprendere quanto la linea del Movimento si sia confusa nel corso di quest’anno basti pensare alla campagna elettorale per le Europee. La svolta “a sinistra” del Movimento è avvenuta ben prima dell’agosto “caldo”, quello che ha portato alla nascita del governo giallo-rosso. Il fatto che Salvini stesse fagocitando l’elettorato grillino balzò agli occhi già qualche mese prima, durante le Europee appunto. Per la prima volta Luigi Di Maio cercò di contrastare la preminenza salviniana all’interno dell’esecutivo conducendo una battaglia elettorale molto più vicina ai temi del Partito Democratico (salario minimo, equo compenso e sanità) che a quelli di Matteo Salvini. La confusione generata nell’elettorato, che appena un anno prima vide il suo partito scagliarsi contro il centrosinistra, portò ad un mediocre risultato (17,1%). 

Un risultato figlio degli errori strategici compiuti nell’arco di appena un anno. Certamente le attenuanti, come l’inesperienza, hanno fatto la loro parte ma le aspettative createsi prima del voto di Marzo 2018 sono state per la maggior parte disattese. Innanzitutto la scelta di allearsi con la Lega, dopo il rifiuto del PD renziano. In quel momento i grillini godevano del loro massimo storico e, strategicamente, ne avrebbero ricavato più dall’impuntarsi sulla scelta di non allearsi con nessuno (e tornare al voto, raccogliendo più consensi) che andare al governo a tutti i costi, anche con una forza politicamente all’opposto. In seguito, altri macroscopici errori hanno caratterizzato la prima parentesi grillina.

Anche nella scelta dei dicasteri, sono stati commessi degli errori. Il Super Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico richiedono una certa competenza, tanto tempo da dedicare ai tavoli con sindacati e dirigenti e tutti gli interventi, prima di essere approvati richiedono delle lunghe consultazioni. Ciò comporta una bassa risonanza comunicativa di questi ultimi e soprattutto, in presenza di un esperto comunicatore come Matteo Salvini, uno scarso impatto a livello propagandistico. 

Inoltre, a questi errori si aggiungono delle strane difficoltà comunicative patite dal Movimento nei confronti del suo elettorato. Cosa è successo a quel partito che aveva fatto della pubblicità, a tutti i livelli, la sua arma principale? 

Una leadership incoerente, una linea politica confusa e gigantesche difficoltà comunicative. Un mix perfetto che ha costretto i grillini a correre ai ripari, soprattutto dopo la crisi dell’agosto scorso. Vicissitudini che hanno costretto il Movimento a “fare il patto col diavolo”, col suo ex nemico numero uno: il Partito Democratico. Seppur alcune indiscrezioni farebbero emergere un retroscena non da poco dietro la nascita dell’attuale esecutivo, le responsabilità di Luigi Di Maio nell’arco dei 14 mesi di governo con la Lega ci sono e sono anche tante. 

Si dice che il capo politico grillino avrebbe preferito tornare al voto per consolidare quei voti rimasti ma Grillo e Casaleggio Jr. glielo impedirono. Una mossa del genere avrebbe consegnato la maggioranza al centrodestra, il quale in quel periodo era trainata (e lo è tuttora) da una Lega al suo massimo storico (34%).

Un suicidio politico degno del peggior stratega, un “primum sopravvivere” che non tiene conto delle conseguenze.

La “benedizione” di Beppe Grillo e il disaccordo della base

La nascita del nuovo esecutivo targato M5S-PD ha riportato in auge la figura di Luigi Di Maio come “ago della bilancia”, una pedina fondamentale affinché il Conte-bis veda la luce. Sono note le sue tergiversazioni di fronte alla scelta dei ruoli che nel corso delle settimane gli sono stati offerti. Da quello di Presidente del Consiglio, offertogli da Salvini, alla successive eliminazioni delle Vice-Presidenze. Un atto dovuto, in quanto senza l’apporto fondamentale dei voti dei suoi fedelissimi, il nuovo esecutivo probabilmente non sarebbe mai nato.

Purtroppo ciò non è servito a nascondere le sue difficoltà, sopraggiunte in maniera evidente qualche mese dopo, in concomitanza con il test umbro il quale ha perfettamente dipinto il momento di asperità che l’intero partito sta attraversando. Dal 27% delle Politiche 2018 al 14% delle Europee, fino al 7% del 27 ottobre. E’ arrivato il momento delle riflessioni, come annunciato da Roberto Fico.

Una riflessione che ripercorre tutte le tribolazioni che il Movimento Cinque Stelle ha dovuto affrontare senza che il suo leader riuscisse a trovarne le soluzioni. Un cambio di rotta, questa volta deciso ed esemplare. Un messaggio a tutti i grillini della prima ora. Luigi Di Maio, in questo momento, sarebbe chiamato ad affrontare un “mea culpa”, in quanto primo indiziato delle debacle sopraggiunte, con un preoccupante calo dei consensi e una ribellione della base elettorale, contraria alla “pausa elettorale” annunciata nei giorni precedenti.

Su Rousseau qualche giorno fa si è votata la linea che il partito dovrebbe tenere nei confronti delle prossime votazioni regionali del 26 gennaio 2020 in Emilia Romagna e in Calabria. Di Maio avrebbe preferito non presentarsi, per concentrare tutte le sue forze su quelle successive in Veneto e in Liguria, che il Movimento sta preparando da mesi, però la base elettorale, per la prima volta, si è opposta alla volontà ufficiale del proprio partito. Per la prima volta anche gli elettori hanno messo in dubbio la linea politica di Luigi Di Maio, sconfessandola.

In effetti, quella proposta dal Ministro degli Esteri potrebbe provocare delle conseguenze interne ed esterne al Movimento che rappresenterebbero la sua morte politica. Le polemiche interne allo stesso ormai sono cosa nota: i grillini emiliani lamentano le poche attenzioni di Roma, in Calabria i grillini sono indecisi se correre insieme al PD o da soli, migliorando il 4% delle precedenti regionali ed entrando nel Consiglio. Lasciare entrambi senza una linea politica da seguire, gettando la spugna evitando di presentarsi, lederebbe l’immagine del partito, che attualmente occupa la maggioranza di governo, e del governo stesso. Inoltre, seppur poca cosa, l’attuale 6% in Emilia Romagna sarebbe fondamentale nel testa a testa tra Stefano Bonaccini e Lucia Borgonzoni. Chi lo spiega a Di Maio che i rischi derivanti dal non presentarsi alle regionali sono addirittura superiori rispetto a quello di stringere un’alleanza e concorrere?

La mancata candidatura del M5S rappresenterebbe un precedente pericoloso, soprattutto in una situazione dove l’intero elettorato grillino chiede una guida forte, decisa e seria. Infatti, il voto su Rousseau ha ribadito questa impressione. Il 70% dei votanti ha chiesto a gran voce a Luigi Di Maio di preparare una squadra da presentare in entrambe le occasioni.

Un altro duro colpo alla sua leadership, la quale in questo momento pare molto appannata, tanto da costringerlo a chiedere la benedizione del guru del Movimento: Beppe Grillo. In un video pubblicato questa mattina, il comico genovese ha ribadito il suo appoggio ad un Luigi Di Maio con la “testa china”, imponendogli di tenere l’alleanza con il PD e proponendo un “nuovo contratto” all’inizio dell’anno. Più che un confronto, il dialogo tra i due è stata la conferma che al momento l’unica alternativa possibile è quella di aggrapparsi a Luigi Di Maio perché non esistono alternative, soprattutto dopo che l’altro enfant prodige del Movimento, Alessandro Di Battista si è sfilato con “stile”

L’intervento di Grillo conferma che l’unico in grado di dettare una linea, sbagliata o giusta, è proprio il “Vaffa-leader”. Il confronto è stato più “un’offerta che il cosiddetto capo politico non può rifiutare”. Il comico ha ribadito l’alleanza con il PD, la ridiscussione di alcuni punti programmatici a inizio anno e la svolta verde dell’esecutivo. E Di Maio? Di Maio approva in silenzio, a conferma che non c’è una leadership chiara all’interno di un partito sempre più in balia dell’individualismo

Le conseguenze sul governo

E’ facile comprendere come la debacle grillina possa produrre delle gravi conseguenze sulla tenuta del governo. Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti sono chiamati a garantire la sopravvivenza di un esecutivo già nato zoppo, a causa della diffidenza reciproca tra i due contraenti.

Da un lato c’è un Movimento in procinto di sgretolarsi, dall’altro, invece, c’è un Partito Democratico che, ignaro delle conseguenze, cerca di trarre giovamento dalla progressiva discesa grillina. Forse Zingaretti ignora che, al momento, se si tornasse al voto il centrodestra otterrebbe 2/3 del Parlamento e potrebbe modificare a piacimento la Costituzione, rendendo vano ogni tentativo di denuncia o di opposizione. D’altronde la tendenza autolesionista del centrosinistra italiano fa volutamente ignorare qualsiasi conseguenza di una sciocca azione. 

PD e M5S sono attualmente divisi su più punti, in particolare sulla riforma della giustizia di Alfonso Buonafede e la prescrizione, lo ius soli e la scuola. Superare le distanze, con un atteggiamento più diplomatico potrebbe garantire la sopravvivenza di entrambi i partiti i quali, se non si fosse ancora capito, stanno gettando alle ortiche la loro ultima possibilità prima di ritornare, svuotati di ogni potere, all’opposizione. Servirebbe un richiamo alla responsabilità

 

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