Quel giallo degli ultimi due governi

Politica

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di Danilo Breschi

C’è del giallo in Italia. Un eccesso di color giallo negli ultimi due governi che hanno retto e stanno reggendo le sorti del nostro Paese. Prima i gialloverdi, poi i giallorossi. Sempre e comunque gialli, in prevalenza, non fosse altro perché il Movimento 5 Stelle è il pivot parlamentare. I grillini hanno la maggioranza relativa alla Camera e al Senato, in virtù di oltre il 32% dei voti liberamente espressi dagli italiani nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Qualcosa come circa 11 milioni di elettrici ed elettori italiani hanno scelto il giallo grillino. Oggi, a distanza di due anni esatti, viene da chiedersi se non vi sia anche della sfumatura cinese in quel giallo.

I Cinque Stelle amano così tanto la Repubblica popolare cinese che si sono  ben guardati dall’esporsi chiaramente e ufficialmente in merito alla repressione cinese a Hong Kong. Addirittura la linea iniziale del ministro degli esteri Luigi Di Maio è stata riassunta dalla frase «non ci occupiamo di questioni interne di altri Paesi». Nei giorni più caldi delle proteste a Hong Kong, novembre 2019, Beppe Grillo compiva una doppia visita all’ambasciata cinese di Roma, da cui nulla è trapelato.

Anche ai tempi dei gialloverdi, con Matteo Salvini al governo, i grillini hanno sempre spinto, ben poco contrastati dai leghisti, in direzione filocinese, tanto che il memorandum d’intesa tra Italia e Cina sulla cosiddetta “nuova Via della Seta” è stato infine siglato il 23 marzo del 2019. Unico escamotage del leader leghista fu quello di tenersi alla larga dai ricevimenti in onore del dittatore cinese Xi Jinping con cui si celebrava l’accordo raggiunto. In quei giorni l’allora ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio (l’altro era Di Maio) sbottava sul palco del Forum di Confcommercio a Cernobbio: «Non mi si dica che la Cina è un paese dove vige il libero mercato». Resipiscenza tardiva e ipocrita, tenuto conto che il sottosegretario al Mise, con delega al Commercio estero, era il leghista Michele Geraci, a capo della Task Force Cina il cui «obiettivo primario» dall’agosto 2018 è stato «potenziare i rapporti fra Cina e Italia in materia di commercio, finanza, investimenti e R&D e cooperazione in paesi terzi, facendo sì che l’Italia possa posizionarsi come partner privilegiato e leader in Europa in progetti strategici quali la Belt and Road Initiative e Made in China 2025». Il memorandum sulla Via della Seta è stato il compimento di questo disegno, salutato dall’allora e attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte come intesa che consentirebbe ad Italia e Cina di «impostare una più efficace relazione e costruire meglio rapporti che sono già molto buoni» (“Il Sole 24 ore”, 23 marzo 2019).

A fine estate scorsa è cambiato l’abbinamento al giallo grillino. Rosso Pd, al posto di verde Lega. Invertiti i fattori, ma il prodotto non cambia. Anche perché, come ha ben notato Francesco Cundari, «non sono i grillini a essere di sinistra, ma viceversa» (“Linkiesta.it”, 2 marzo 2020). Lo dimostrano le scelte su intercettazioni e giustizia. Il governo giallorosso ci dice che «la sinistra italiana era già grillina molto prima che il Movimento 5 stelle nascesse». Molto più della Lega, nata per ragioni autonome, il M5s è la costola della sinistra postcomunista configuratasi e tempratasi nel bel mezzo della tempesta giudiziaria di Tangentopoli. In quel frangente, simile per certi versi ad un nuovo biennio rosso, si dette la stura a giustizialismo, antipolitica e populismo. Cose parzialmente diverse tra loro in punta di politologia, ma amalgamate, sia pure alla rinfusa, in quel bizzarro laboratorio italiano che spesso nella storia contemporanea ha anticipato tempi e modi della politica europea.

Andiamo però a chiudere il nostro ragionamento. Oltre al giallo di una possibile posizione filocinese degli ultimi due esecutivi che reggono le sorti dell’Italia, c’è il dato certo di una politica estera nostrana che non può più continuare nell’oscillazione tra languire o errare, sbagliando alleati e obiettivi strategici. Un punto su tutti andrebbe messo in agenda. Ce lo ricorda Marta Ottaviani quasi ogni giorno dalle colonne dei quotidiani ai quali collabora: si tratta della politica neottomana di Recep Tayyip Erdogan. Su “Formiche.net”, ad esempio, l’ottima giornalista ha evidenziato il fatto che «in Europa stanno nascendo numerosi partiti fondati da immigrati turchi e rivolti solo a musulmani». Inoltre del presidente turco sottolinea un modo di agire proprio «di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico, più che altro perché dall’altra parte nessuno è pronto a rispondere a modo. L’Europa sui migranti ha avuto una politica cieca, disumana e poco lungimirante. E sicuramente questa non è colpa di Erdogan. Ha deciso di consegnarsi ai ricatti di una Turchia che da Paese candidato all’ingresso si è trasformata a mina impazzita nel Mediterraneo e certo Paese più nemico che amico. Il tutto, con buona pace degli interessi nazionali dei singoli Paesi e delle aziende europee che operano nella Mezzaluna. E anche di questo atteggiamento, Erdogan non ha alcuna colpa. Rimane però il fatto che come gestire un’emergenza umanitaria di questo genere non ce lo deve spiegare Erdogan, che da anni utilizza le vite di migliaia di persone per i suoi disegni politici. L’ultima dimostrazione, l’ha data […] quando ha deciso di iniziare a sbarazzarsi di tutti quei migranti, siriani e non, che da anni stazionano sul territorio turco e che sono diventati un peso dal punto di vista economico».

Merita ancora una lunga citazione l’articolo di Ottaviani, che è anche un monito all’Europa, con l’Italia inclusa, in prima fila.

La questione migranti va affrontata. Ma come e quando non ce lo deve dire Erdogan. Se l’Europa chinerà la testa anche questa volta, e non farà valere tutti i vantaggi, fin troppi, che ha la Turchia rispetto ad altri Paesi, allora davvero per il Vecchio Continente sarà finita. Siamo qui per rispettare i valori i cui crediamo e sui quali è stata fondata la Ue, non per riparare ai calcoli sbagliati fatti da un regime autoritario, che con il concetto di Europa non ha nulla a che vedere.

In conclusione, l’Italia ha perso da almeno due anni la rotta in politica estera, o l’ha indirizzata in modo suicida. Su questo l’Europa non pare incamminata su miglior strada, purtroppo. La Cina è una minaccia, apparentemente lontana, resa vicinissima dalla pandemia da coronavirus. Minaccia è l’attuale regime turco. Erdogan è alle porte, anzi no. È già dentro i confini dell’Unione europea, perché, come ci ricorda sempre Ottaviani, «Erdogan ha un ascendente sempre più forte su una parte delle comunità islamiche e turche che già vivono in Ue e che sono destinate a variare anche nel peso demografico. […] Se non vogliamo creare dei ghetti impenetrabili nelle nostre città, nella migliore delle ipotesi, è venuto il momento di gestire il problema della migrazione dalla Siria in modo compatto e ragionevole. Iniziando a mettere Erdogan da parte e capire che questa Turchia è un pericolo per il nostro futuro». Più chiaro di così non si può. Ancora una volta, se l’Ue vuole continuare ad esistere e prosperare, la smetta di lamentarsi dei sovranismi e nazionalismi europei, ma compia il grande passo in avanti. Si doti di un esercito comune di difesa europea e allora darà un senso all’europeismo, per ora mero flatus vocis che spaventa invece che rassicurare i suoi Paesi membri.

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