Putin infinity War

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di Marco Di Liddo 

 
 

ROMA – “Pochi uomini politici hanno solcato la scena pubblica interna ed internazionale come il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin. Nei primi decenni del mondo globalizzato, nato dopo la dissoluzione dell’URSS e la fine dei blocchi contrapposti, Putin è stato uno dei leader più influenti e riconoscibili a livello globale. Un simbolo che, aiutato anche dalla massiccia macchina della propaganda statale, si è imposto come punto di riferimento necessario ed imprescindibile sia in patria che all’estero, nonostante la sua carriera politica abbia alternato grandi successi a incapacità di riforma ed innovazione, eccellenti doti tattiche a lacune nel pensiero strategico, aperture internazionali ad azioni unilaterali ed assertive”. Inizia così il lungo approfondimento di Marco Di Liddo pubblicato sul sito del Centro Studi Internazionali – Ce.S.I. presieduto da Andrea Margelletti. Ne riportiamo di seguito la versione integrale.
“Salito al potere nel 1999, Putin ha governato ininterrottamente la Russia per oltre 20 anni, alternando i 4 mandati presidenziali ad una breve parentesi come Primo Ministro “alla Richelieu” per il suo ex eterno delfino Dimitrij Medvedev.

Tale lunghissima stagione politica, che rende l’attuale Presidente il più longevo leader nazionale dopo gli Zar e addirittura più di Josif Stalin, appare destinata a prolungarsi teoricamente fino al 2036, quando Putin avrà superato gli 80 anni. Infatti, il 16 marzo scorso, la Corte Costituzionale russa ha giudicato favorevolmente la proposta di riforma costituzionale che, tra le altre cose, permetterà all’inquilino del Cremlino di ricandidarsi e concorrere per ulteriori due mandati.
Nello specifico, la riforma prevede numerosi emendamenti. Innanzitutto, un aumento dei poteri per l’Assemblea Federale, che dovrà approvare la nomina del Gabinetto di governo, inclusa quella del Primo Ministro, e concorrere alla nomina dei direttori e dei comandanti delle agenzie di sicurezza. In secondo luogo, la costituzionalizzazione del Consiglio di Stato, organo sinora consultivo formato dal Presidente della Federazione e dai governatori dei soggetti federali. In terzo luogo, l’introduzione del salario minimo e l’indicizzazione delle pensioni rispetto all’inflazione.
Tuttavia, l’emendamento più rilevante riguarda proprio la figura presidenziale.

Infatti, la riforma modifica il limite massimo dei mandati al vertice dello Stato, che diventano due in tutta la vita e non due consecutivi. Inoltre, il nuovo testo di legge, con la sua entrata in vigore, azzera il conteggio dei mandati precedenti e consente a Putin di ricandidarsi e restare al Cremlino per ulteriori 12 anni a partire dal 2024. La riforma costituzionale contiene alcuni elementi in grado di far capire l’attuale situazione politica interna russa ed analizzare gli scenari futuri. Innanzitutto, con il “reset” dei mandati e il verosimile prolungamento della stagione di potere putiniano è possibile che siano state gettate le basi per l’annosa questione della successione al leader del Cremlino. Infatti, fin dalle elezioni del 2018, la classe dirigente e l’elettorato avevano cominciato a interrogarsi sul futuro del Paese e della sua guida e, tra le varie opzioni, avevano considerato quella di un cambio al vertice.

Inizialmente, si era valutata una soluzione “kazaka”, ossia la creazione di un nuovo ruolo ad hoc da assegnare a Putin dopo il suo ritiro dalla presidenza. Un ruolo da padre della patria super partes simile a quello disegnato per l’ex Presidente kazako Nazarbayev, divenuto dopo il 2019 il Presidente del Consiglio per la Sicurezza dello Stato. Tuttavia, questa opzione non era percorribile in Russia, dove Putin ha ancora troppi avversari politici che lo minaccerebbero dopo una sua eventuale cessione del potere e dove il leader del Cremlino ha ancora un ruolo determinante nella gestione dei conflitti e degli equilibri tra clan rivali di siloviki, oligarchi e membri dell’apparato.

Tutto questo senza l’imprescindibile impronta personalistica in politica estera, campo nel quale Mosca ha recuperato posizioni soprattutto grazie alle trame tessute da Putin e al carisma da lui esercitato in determinate parti del mondo. Abortito il progetto “kazako”, a Putin ed al suo circolo di fedelissimi non è restato altro che virare sul modello cinese della leadership a vita del Presidente Xi Jinping. Tuttavia, sussiste una differenza fondamentale tra i due modelli. A Pechino, la presidenza a vita rappresenta il culmine di un processo che ha attribuito a Xi anche i titoli di “leader di primaria importanza” (privilegio riservato a personaggi del calibro di Mao e Deng) e “cuore della leadership” e che rappresenta il riconoscimento politico per la crescita globale raggiunta dalla Cina nell’ultimo decennio.
Al contrario, a Mosca, la presidenza a vita si configura come una misura difensiva di un establishment caratterizzato da forti tensioni interne e che mira alla sopravvivenza e all’autoconservazione.

Per questo, i meccanismi politici russi odierni ricordano molto quelli recenti dell’Algeria, Paese in cui le lotte intestine al pouvoir hanno procrastinato la successione al Presidente Bouteflika fino allo scoppio delle proteste di piazza. Per queste ragioni, il passaggio dello scettro del Cremlino è stato rinviato ed i prossimi due mandati di Putin probabilmente segneranno il percorso della successione e, soprattutto, della transizione ad un sistema più collegiale e meno personalistico.
Si tratta di un passaggio non nuovo nella storia recente del Paese, come ben testimoniato dall’era sovietica del socialismo reale e della stagnazione inaugurata dalla segreteria di Breznev dopo gli eccessi personalistici di Stalin e Kruscev.

In questo senso, la Russia potrebbe muoversi in quella direzione, come evidenziato dall’aumento dei poteri alla Duma e dalla riduzione dei mandati presidenziali. Un maggior tasso di collegialità elitistica sarebbe la risposta teorica anche allo strisciante malcontento del popolo russo che, sebbene sia affezionato al proprio leader e gli riconosca il merito di aver restituito orgoglio e prestigio internazionali alla nazione, non gli perdona il fatto di non aver trovato una adeguata ricetta per il rilancio economico e di aver monopolizzato la scena pubblica.

In sintesi, per l’establishment russo non dovrebbero esserci nuovi Putin dopo l’originale. In questo senso, proprio per provare a domare una piazza sempre più irrequieta, la nuova Costituzione russa conterrà l’indicizzazione delle pensioni e il salario minimo. Questo costituisce il tentativo dell’apparato di riformulare il patto sociale con i cittadini, offrendo sussidi e assistenza in cambio dell’accettazione del dirigismo autoritario.
Tutto questo all’interno di una cornice ideologica che tocca le corde sensibili della parte più conservatrice del popolo russo e che riafferma la superiorità della legge nazionale sul diritto internazionale e che ribadisce il valore fondante della tradizione, della religione e della patria contro il fantasma globalista e liberalista.

Quello che Putin e la spina dorsale del potere moscovita temono più di qualsiasi altra cosa. Proprio per evitare instabilità e per scongiurare il rischio di congiure di palazzo, Putin ha sempre bilanciato con cura l’influenza dei diversi clan di potere nazionali (industria pesante, Forze Armate, servizi di intelligence e sicurezza, suoi luogotenenti pietroburghesi).

Con l’imminente arrivo dei prossimi due mandati, il Presidente ha effettuato un importante repulisti istituzionale, liberandosi di vecchi uomini di apparato divenuti troppo influenti e favorendo l’ascesa di una nuova generazione di amministratori, i cosiddetti tecnocrati. Questi sono i giovani rampolli della borghesia nazionale, educati negli istituti e nelle università più prestigiose e accuratamente selezionati ed istruiti da Anton Vaino e Sergey Kiriyenko, rispettivamente Capo e Vice-Capo del Gabinetto presidenziale.

Sono loro i responsabili dell’ascesa di una autentica “leva putinista” di nuovi quadri politici e dirigenziali destinata a prendere il posto della generazione che ha accompagnato Putin dagli esordi di San Pietroburgo fino ad oggi. Dunque, la riforma costituzionale costituisce la risposta istituzionale ad una atavica esigenza di stabilità che sia gli apparati di potere che la cittadinanza russi avvertono come un bisogno primario e che Putin ha ribadito in un recente discorso alla Duma, sottolineando come il Paese abbia bisogno di una guida forte e stabile in un momento storico così incerto e denso di incognite. Infatti, quello che potrebbe essere l’ultimo atto dell’avventura politica di Putin alla guida della Russia si annuncia come uno dei più difficili, segnato dai presumibili impatti interni ed internazionali della pandemia di coronavirus e del crollo del prezzo del petrolio.

La volatilità del mercato petrolifero e la guerra al COVID-19 costituiscono un’arma a doppio taglio, poiché potrebbero sia rafforzare la leadership putinista, facendole capitalizzare il sentimento di incertezza e il bisogno di stabilità della popolazione, sia, al contrario, privarla del supporto pubblico in caso di peggioramento della crisi e mancanza di risposte istituzionali adeguate. Per quanto riguarda il rischio sanitario, ad oggi in Russia si registrano circa 500 infetti, concentrati nella regione di Mosca. Sebbene le autorità abbiano invitato la popolazione a mantenere la calma e si sono dichiarate in grado di gestire l’emergenza senza affanni, tanto da limitare sensibilmente il traffico aereo internazionale senza bloccarlo del tutto e senza adottare misure di chiusura di fabbriche, uffici ed altri luoghi ad alta densità umana, i movimenti di opposizione non hanno mostrato alcun ottimismo. Infatti, secondo i partiti e le personalità più critiche verso l’establishment di potere, le istituzioni russe potrebbero aver mentito sui dati reali del contagio, classificando molti dei pazienti sintomatici come semplicemente affetti da normale polmonite ed etichettando le morti da coronavirus come decessi dovuti ad altre patologie preesistenti o concorrenti.

Ad esempio, un cardiopatico deceduto a causa di complicazioni da coronavirus viene inserito nella lista delle vittime di malattie cardiovascolari e non del COVID–19. Inoltre, il numero e l’attendibilità dei tamponi disponibili in Russia sarebbe inferiore rispetto ad alcuni Paesi dell’Europa occidentale, rendendo le stime sui contagi meno veritiere. Sempre secondo le opposizioni, a parziale testimonianza di tale insabbiamento dei dati reali sul contagio da coronavirus vi sarebbe un sospetto aumento dei casi di polmonite nel Paese, pari al 3% rispetto all’anno scorso.

In ogni caso, qualora il contagio dovesse raggiungere numeri preoccupanti, anche in virtù dell’elevata età media del popolo russo, il sistema sanitario nazionale sarebbe messo a dura prova e il malcontento popolare crescerebbe a dismisura, soprattutto di fronte all’ipotesi di censura iniziale delle informazioni. Al momento, come spesso accaduto in passato, Putin ha cercato di trasformare un focolaio di crisi nazionale in una opportunità politica sia in patria che all’estero.

In Russia, il Capo dello Stato si è recato in visita all’ospedale Kommunarka di Mosca, dedicato al trattamento dei malati da coronavirus, rincuorando i degenti, indossando tuta, occhiali e mascherine di ordinanza e spettacolarizzando, a modo suo, il messaggio di vicinanza ai 6 cittadini. Come se non bastasse, l’inquilino del Cremlino ha dichiarato di essere pronto ad adottare misure straordinarie per la produzione di kit monouso e mascherine nel Paese, utilizzando studenti, detenuti e membri della Guardia Nazionale come manodopera suppletiva a basso costo. Tuttavia, il gesto che ha riscosso la maggiore eco internazionale è stato l’invio in Italia di mezzi e personale militare per supportare lo sforzo delle autorità di Roma nel contrasto al contagio.

Al di là della indiscussa generosità di questa azione, intesa a sottolineare la speciale relazione che unisce il Cremlino e Palazzo Chigi, non bisogna mai dimenticare che nell’arena internazionale anche le donazioni sono uno degli strumenti più raffinati di soft power. Dunque, la decisione di Putin ha avuto un immediato ritorno d’immagine sia in Italia che in Russia, soprattutto in un momento in cui parte dell’elettorato italiano mostra sfiducia verso gli storici alleati europei e statunitense e critica le modalità di intervento dell’Unione Europea.

Presentare la Russia come un Paese generoso e pronto a tendere la mano all’Italia durante la sua crisi peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale è funzionale sia ad alimentare il già diffuso euroscetticismo italiano sia ad accumulare un capitale politico da poter reinvestire in altri dossier, primi fra tutti la rimozione delle sanzioni e l’annosa questione ucraina. Tutto questo senza dimenticare altre arene internazionali dove l’eventuale rafforzamento del dialogo italo-russo potrebbe agire come incentivo alla stabilizzazione o alla maggiore tutela dei reciproci interessi strategici, per esempio in Libia o in Africa.
Un discorso simile potrebbe essere fatto per la cosiddetta “corsa al vaccino” contro il COVID–19. Anche l’élite degli scienziati russi ha cominciato a concentrarsi sulla ricerca per una cura al nuovo coronavirus nella speranza di giungervi prima dei corrispettivi stranieri.

Qualora Mosca scoprisse per prima il medicinale in grado di curare o arrestare l’epidemia, potrebbe utilizzarlo come arma strategica e propagandistica di primo livello. Infatti, sarebbe difficile continuare a sanzionare o ad attaccare il Paese che ha fermato la pandemia, indipendentemente dalla sua condotta pregressa in politica estera.
Oltre alla pandemia, la seconda grande sfida per Putin è costituita dal crollo del prezzo del petrolio e dal futuro del mercato energetico globale. La luna di miele con l’Arabia Saudita, all’interno del formato OPEC +, aveva sinora garantito una stabilizzazione dei prezzi che permetteva di tenere sotto controllo i produttori di shale oil statunitensi senza compromettere eccessivamente gli introiti di Mosca e Riyadh.

Infatti, il patto russo-saudita aveva mantenuto il greggio ad un valore oscillante intorno ai 50 dollari al barile, sufficiente a strangolare lo shale USA, che diventa economicamente competitivo con il prezzo globale a 60 dollari, ed a garantire sufficiente liquidità alle casse statali dei due Paesi produttori. A riguardo, è ben noto che l’Arabia Saudita ha il proprio punto di pareggio di bilancio settato a circa 80 dollari al barile e riserve strategiche pari a 500 migliaia di miliardi di dollari, mentre la Russia a 51 dollari al barile e riserve per 570 migliaia di miliardi di dollari. Inoltre, la flessibilità fiscale russa permette di indicizzare le imposte sulla produzione di petrolio sulla base del prezzo globale al fine di non esercitare eccessiva pressione sulle grandi imprese statali.

Con lo scoppio della pandemia e la contrazione della domanda di greggio, l’Arabia Saudita aveva proposto il taglio della produzione petrolifera per stabilizzare i prezzi ed impedire perdite delle inutilizzate giacenze di magazzino.
Il Cremlino, tuttavia, ha dovuto rifiutare a causa delle pressioni degli oligarchi dell’industria idrocarburica. In quel caso, si è trattato di un autentico ricatto ai danni di Putin che, in cambio del supporto nella riforma costituzionale, ha rinunciato all’accordo con i sauditi. In reazione, Riyadh ha cominciato letteralmente ad inondare il mercato con il proprio greggio fino a far precipitare il prezzo intorno ai 30 dollari al barile e cercare di rubare quote di mercato ai russi tramite ulteriori sconti ai clienti. Con il greggio intorno ai 30 dollari al barile e la domanda in stallo, le finanze russe potrebbero verosimilmente entrare in grande sofferenza, costringendo il Cremlino a proseguire con le politiche di austerity e di riduzione della spesa pubblica ad ogni livello, dalla sanità alle pensioni, dalla difesa agli investimenti strutturali nella diversificazione economica. Infatti, gli introiti petroliferi costituiscono il 16% del PIL e contribuiscono al 52% del bilancio dello Stato e, di conseguenza, con il prezzo del greggio ai minimi storici dalla Guerra del Golfo del 1991, le risorse finanziarie di Mosca appaiono sensibilmente ridotte, come testimoniato dalla decrescita del 1% del PIL stimata per il 2020.

Inoltre, non bisogna dimenticare che alla crisi del petrolio coincide a la svalutazione del rublo e, di conseguenza, la diminuzione di potere d’acquisto da parte della popolazione. La contrazione della spesa pubblica è un rischio da non sottovalutare in un Paese con oltre 5 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, dove lo Stato è ancora uno dei maggiori datori di lavoro nazionali e, soprattutto, dove le Forze Armate sono impegnate in numerose attività oltre confine, dall’Ucraina alla Siria, dalla Libia alla Georgia, dall’Africa all’Asia Centrale e all’Artico.
Dunque, la combinazione delle emergenze legate al virus e al crollo del prezzo del greggio potrebbero avere effetti deleteri sulle ambizioni putiniane, mettendo alla prova la durezza di un sistema politico costruito sul dirigismo e sulla promessa di stabilità e servizi statali, dove i diritti politici e civili della popolazione sono ancora limitati e violati e dove la corruzione continua a degradare la macchina statale. Se il benessere del popolo russo calasse ulteriormente, i movimenti di protesta e di opposizione avrebbero maggiori argomenti con cui criticare Putin e potrebbero ottenere il supporto di quegli avversari politici decisi a prenderne il posto o a cambiare gli equilibri di potere.

Per ovviare al rischio di una tanto temuta “Rivoluzione Colorata” sulla Piazza Rossa, Putin dovrà, ancora una volta, bilanciare autoritarismo ed investimenti, concessioni e repressione nonché razionalizzare con attenzione le risorse tra esigenze di politica estera e necessità di politica interna. Per quanto generose, le riserve strategiche non sono eterne e non possono colmare tutte le lacune di un’economia obsoleta ed ancora schiava dell’industria petrolifera.

Nell’era del petrolio a basso prezzo, gli strumenti di politica estera di Putin dovranno adattarsi e presumibilmente continueranno ad orientarsi lungo la direttrice emersa all’indomani dell’annessione della Crimea, ossia l’elevazione della guerra ibrida a dottrina strategica. L’uso ponderato delle Forze Armate ( o delle compagnie militari private) nei teatri di interesse, l’utilizzo della leva energetica come grimaldello geopolitico verso Europa e Cina e il proseguo nelle campagne di disinformazione all’estero continueranno a rappresentare il marchio di fabbrica dell’azione russa fuori dai confini nazionali.

In questo contesto di grande incertezza, un assist inaspettato potrebbe arrivare a Putin proprio dagli impatti di lungo termine della pandemia di coronavirus. La diffusione planetaria del virus ha cominciato a mettere in dubbio il modello di sviluppo della globalizzazione e ha evidenziato i rischi di una filiera industriale, commerciale e finanziaria su scala mondiale. L’eventuale ripensamento del globalismo economico e politico favorirebbe la visione internazionale conservatrice e revisionista di Mosca.
Un ritorno parziale alla chiusura dei confini, una riduzione della mobilità internazionale ed un rilancio di sistemi autarchici con proiezioni egemoniche regionali gioverebbero a Mosca, alla sua idea di mondo diviso in sfere di influenza e alla sua atavica voglia di serrare i ranghi della “fortezza assediata”. In un mondo del genere, guarito dal coronavirus, forse ci sarebbe spazio per Putin anche dopo il 2036”. 

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