Meglio di niente-Niente di meglio

Arte, Cultura & Società

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Intervista a Danilo Breschi, autore di Meglio di niente. Le fondamenta della civiltà europea (Mauro Pagliari, Firenze 2017), a cura di Giusy Capone https://giusycapone.home.blog/

  

“Meglio di niente”, ma anche “niente di meglio”: è un titolo rovesciabile? Può esser colto un afflato positivo, intercettando in una società pingue, avvezza alla prosperità ed al benessere, le energie per migliorare i propri aspetti negativi?

Il titolo del libro nasce esattamente con l’intento di segnalare sia il nemico principale, l’aggressore, sia l’amico essenziale, l’aggredito. Il nemico è il nichilismo e l’amico è la civiltà europea, la tradizione liberale classica che si è costruita assai faticosamente nel corso degli oltre duemila anni di storia europea e occidentale (per includere anche il contributo, peculiare, degli Stati Uniti d’America da quando sono sorti a fine Settecento). Sono nato negli anni Settanta e cresciuto tra anni Ottanta e Novanta in un contesto culturale e formativo quanto mai contradditorio, direi schizofrenico. Da una parte ci si immergeva sempre più in quella società “pingue” di cui Lei parla, in un’opulenza ispirata ad un american way of life, spensierato ed euforico, filtrato e dunque adulterato dalla fabbrica hollywoodiana, dall’altra persistevano ideologie, tradottesi ormai in mentalità e cliché diffusi e pervasivi, di ascendenza marxista e comunque antiliberale e antioccidentale, perché originariamente sorte con l’intento di far risaltare ed esaltare la nuova presunta civiltà bolscevica e sovietica rispetto alla decadente Europa borghese e capitalistica. Ne è conseguito che dal secondo dopoguerra fino alla fine del Novecento, e oltre, in Italia e in Europa si è stati per lo più dominati da una cultura che ha solo visto l’acqua sporca, indubbiamente tanta, prodotta dall’Europa nel trentennio pre-1945, dimenticando progressivamente il bambino d’oro della civilizzazione europea, che nasce nella tensione tra Atene e Gerusalemme, prosegue a Roma, resiste nella intrapresa monastica benedettina, rinasce a Firenze e si irradia tramite le varie culture nazionali che, a mano a mano, fioriscono all’interno degli Stati moderni, nel continente e nelle isole britanniche. Da lì poi avrebbero traversato l’Atlantico e soprattutto dal Nord America si sarebbe sviluppata una civiltà cugina di quella europea, così lontana così vicina.

Ecco dunque che questo libro intende partire dai frammenti, talora ben più ampi e consistenti di quanto si pensi, rimasti nella cultura europea-occidentale all’indomani delle tragedie della prima metà del Novecento e trascurati o ripudiati da una cultura post-sessantottina tutta animata da un masochistico e perverso, perché acritico e anacronistico, senso di autocolpevolizzazione per tutto ciò che di male e di violento è successo nel mondo nei secoli passati. Un primo modesto passo verso una necessariamente più ampia opera di ricostruzione di un pensiero europeo che sappia far tesoro delle deviazioni e degli errori e orrori commessi, ma sia anche fiero di quanto ha esportato nel mondo, tra cui la stessa cultura della critica, la civiltà dei diritti e delle libertà. Un patrimonio di cui spesso si sono avvalse le stesse culture extra-europee ed extra-occidentali per dare dinamicità e innescare indubbi miglioramenti alle proprie società. Penso a figure come Gandhi e Nelson Mandela, nutritesi di valori occidentali per mettere impietosamente a nudo limiti e contraddizioni della dominazione europea nei loro territori. Gli europei hanno sovente razzolato male, ma hanno altrettanto spesso predicato bene, cosicché un Martin Luther King jr. ha potuto condurre una lotta non violenta per rendere finalmente applicati principi già inscritti dai bianchi possidenti Founding Fathers quasi due secoli prima con la Dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776.

In sintesi, non credo vi sia meglio di niente di una civiltà europea per almeno due aspetti decisivi: la centralità della libertà dell’individuo, peraltro inteso come persona umana, unita allo spirito autocritico, che sa e ancora può correggersi in corso d’opera. Di tutto questo è necessario trasmettere conoscenza alle più giovani generazioni italiane, europee, che gli adulti spesso non riescono ad appagare della loro naturale, vitale sete di futuro, e sanno trasmettere più sfiducia che entusiasmo per nuove costruzioni.

Lei determina quattro direttrici di indagine, quattro pilastri essenziali sulla cui scorta muove i capitoli del suo libro: Storia, Politica, Religione, Educazione. Ritiene che siffatte fondamenta, osservando la nostra civiltà, siano solide o che abbiano necessità d’una opera di manutenzione?

Le scosse subìte da tutte e quattro le fondamenta sono molteplici. Fine della storia, antipolitica, secolarizzazione e disincantamento, analfabetismo funzionale: sono tutte espressioni correnti negli ultimi tre, quattro decenni. In certi casi da almeno un paio di secoli abbondanti, vedi la secolarizzazione, che è anche scristianizzazione, o meglio la perdita di peso del magistero ecclesiastico cattolico, ma in generale delle autorità cristiane nella vita pubblica delle società europee. Peraltro il cristianesimo si è diluito e ha permeato in altri modi e altre forme la mentalità di alcune nazioni, quella italiana in particolare, anche se le chiese nel frattempo si sono svuotate. La questione religiosa è pertanto assai complessa e non sviscerabile in questa sede.

La situazione culturale europea in senso antropologico, in termini cioè di concezione e strutturazione mentale e ideale della condizione umana, è tendenzialmente desolante, desertificata. Un certo nichilismo ha appunto attecchito. Vi hanno contribuito, in primo luogo, il duplice suicidio commesso dall’Europa tra 1914 e 1945, e in secondo luogo la successiva e progressiva fuga dalle responsabilità storiche, scaricate tutte sui padri, e favorita dalla copertura americana sul piano geopolitico, cosicché ci si è potuti concentrare solo sul lato della ricostruzione economica e del benessere individuale di società popolate da consumatori. Pretendere nel 2020 di ricostruire una situazione ex ante tale e quale sarebbe folle oltreché stupido, perché appunto di errori e orrori ne sono stati commessi nel Novecento. Ma proprio dalla lezione del passato è opportuno attingere esempi per cosa non fare e cosa invece fare. Sicuramente occorre partire dal restituire peso a tutte e quattro le fondamenta proprie di ogni civiltà, in questo caso l’europea. Una coscienza storica, ad esempio, è quella che aiuta lo sviluppo di una visione della politica e della società ispirata e guidata dal principio di realtà, da moderazione e ponderazione critica di ogni scelta, ma anche di decisione nell’azione intrapresa. Ma di tutte e quattro le fondamenta trovo che l’educazione sia la prima da cui partire per questa azione di ripristino e manutenzione, ispirati dal principio-guida sintetizzato dalla frase di Hannah Arendt: «la scuola deve essere conservatrice per preservare quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo in ogni bambino». Conservare in certi casi, in certi ambiti, specie dell’umano, significa continuare a dar libero corso alla creatività, all’individualità irripetibile, all’unico e all’eccezionale che costituiscono il meraviglioso della vita.

Lei auspica il ritorno ad una cultura critica, «che fa poggiare meglio i piedi per terra in modo da spiccare meglio, e con più forza, il volo»: la libertà d’arbitrio come antidoto al nichilismo dominante ed imperante?

Auspico una cultura che conosca e induca a praticare la critica costruttiva, che sia anche cultura della crisi, non in senso sostanzialmente passivo e succube, come in effetti fu a cavallo tra Otto e Novecento, nonostante gli apparenti slanci superomistici ed i sicuri esiti autodistruttivi, ma col significato di esser capace di fronteggiare le fasi di passaggio, che richiedono il taglio netto della decisione. Questi momenti di travaglio sono le crisi, appunto. La libertà deve essere rivalutata a fronte di una delle possibili conseguenze della desertificazione spirituale e motivazionale indotte da una temperie nichilistica, ossia la voglia matta di eteronomia, di essere guidati da altri che promettono, e non necessariamente mantengono, protezione dall’angoscia e rassicurazione rispetto al disorientamento contemporaneo. Il nostro, europeo e occidentale, è stato almeno fino ad oggi un mondo che ha riconosciuto e tutelato il maggior numero e il maggior grado di libertà individuali finora sperimentati a livelli di massa nella storia dell’umanità. La crescita esponenziale dei diritti, ma soprattutto lo sviluppo della tecnologia nel settore della comunicazione, l’informatizzazione e la digitalizzazione dei dati personali, espongono la libertà a rischi mai visti prima. Occorre pertanto qualcosa di più che innalzare nuovi peana alla libertà che è e che fu. Bisogna piuttosto pensarla all’altezza delle sfide e delle minacce contemporanee. Le possibilità sono due: o rifugiarsi nel Grande Fratello orwelliano e in dispositivi di potere tutelare e paternalistici, consegnando libertà in cambio di sicurezza (per perderle infine entrambe, come insegnava Benjamin Franklin), oppure irrobustire la nostra postura morale e psicologica in modo che si sappia far fronte al tragico dell’esistenza, ad assumersi responsabilità, ad essere piccoli grandi eroi quotidiani che sanno quanto la libertà sia, sì, sollievo, ma anche fardello. Con Albert Camus ripetersi che «bisogna immaginare Sisifo felice».

«Noi italiani, ed europei tutti, dovremmo capire quanto abbiamo perso recidendo i legami con le nostre antiche radici greche». Quanto di quest’asserzione è riferibile al mito, all’epica classica, all’ispirazione all’eroismo, all’impegno verso qualcosa di magnifico che risvegli la passione per i grandi ideali?

Tutto quanto ho sin qui detto credo evidenzi in modo chiaro e netto l’importanza del mito, dell’epica classica, di quanto possa ancora dirci e darci come alimento di mente e cuore il confronto serrato, sin dalla più giovane età, con il patrimonio filosofico, letterario, scientifico, artistico e musicale che si è accumulato nel tempo e nel processo di civilizzazione europea. Condivido a pieno quanto sosteneva Allan Bloom una trentina di anni fa: «Per rendere accessibile questa gamma di possibilità, per vincere la tendenza del regime a scoraggiare la valutazione di alternative importanti, l’università deve soccorrere la ragione timorosa e indifesa. L’università è il luogo in cui ricerca e apertura filosofica sono autonome. Deve incoraggiare l’uso non strumentale della ragione per amore della ragione, fornire un’atmosfera nella quale la superiorità morale e fisica di chi detiene il potere non intimorisca il dubbio filosofico. E conserva il tesoro delle grandi gesta, dei grandi uomini e dei grandi pensieri necessari per nutrire quel dubbio. La libertà di pensiero ha bisogno non solo, o non soprattutto, dell’assenza di vincoli legali, ma anche della presenza di pensieri alternativi».

Sempre per citare il grande filosofo americano, la regola aurea dell’università, come della scuola, soprattutto dopo che ha fornito nei primi gradi l’abc del saper leggere, scrivere e calcolare, è la seguente: «non deve preoccuparsi di dare agli studenti esperienze già disponibili nella società democratica. Le avranno in ogni caso. Deve invece dar loro esperienze che non possono trovare là. Tocqueville non credeva che gli antichi scrittori fossero perfetti; ma che potessero renderci più consapevoli delle nostre imperfezioni, che è quello che conta». Ho risposto e concludo con Allan Bloom perché non saprei dire di meglio, di più consonante con la mia stessa visione delle cose in materia.

Nel suo saggio si discorre di “democrazia”, governo «fondato sull’opinione (pubblica) e sulla libertà». Ebbene, come si concilia con il pluralismo ed il multiculturalismo?

La democrazia liberale intende mettere assieme l’eguaglianza delle opinioni con la loro stessa libertà, non riuscendo a trovar di meglio del criterio numerico maggioritario per stabilire una classifica di preferenze. Non una gerarchia fissa e immobile, o almeno ciò non dovrebbe accadere, quanto piuttosto una graduatoria di preferenze con cui orientare le scelte pubbliche, da verificare con regolarità di procedure ogni dato intervallo di tempo, altrettanto certo e solennemente stabilito in un patto costituente, poi costituzionale. Tante teste, tante opinioni. Dalla pluralità, dunque dalla differenza, proviene la ricchezza che possono produrre solo menti diverse lasciate libere di esprimersi. Una libertà che sia educata, non ammaestrata, che sappia cioè rivendicare e difendere la propria autonomia, ma anche dotarsi di quegli strumenti conoscitivi e argomentativi con i quali governare la realtà, ora complessa ora caotica, non semplicemente aprire bocca e fiatare. Può sicuramente, e fortunatamente, farlo chi non ricopre ruoli e cariche pubbliche, ma non può farlo la maggioranza schiacciante di una società, né devono farlo soprattutto i reali o sedicenti gruppi dirigenti, le classi governanti a tutti i livelli, non solo politico, pena l’implosione o lenta disgregazione di quella stessa società.

Quanto al multiculturalismo, esso è un falso sinonimo di pluralismo. Se pluralismo è l’accettazione del nuovo e del diverso all’interno di un confronto pacifico e di leale (e legale) concorrenza, ciò non significa che ogni novità e ogni diversità possano essere incamerate e gestite all’interno della logica della convivenza politica liberal-democratica. Non a caso qui parlo di “convivenza” e non di mera compresenza, non di una inevitabile condivisione di spazi, magari in una prossimità così stretta da eccitare quell’istinto naturale all’aggressività che agita l’animale uomo, secondo le note osservazioni dell’etologo Konrad Lorenz. È proprio questa prossimità incontrollata e invasiva che, sperimentata sulla propria pelle, genera una diversa valutazione del multiculturalismo particolarmente apprezzato invece da chi solitamente ne ha un’idea puramente teorica, o dispone di quelle risorse materiali che consentono di mantenere le distanze di sicurezza dai crescenti insediamenti a forte connotazione etnica.

Bisogna inoltre intendersi sul significato del termine-concetto di cultura, che può indicare il patrimonio di idee, pregiudizi, usi e costumi di un singolo individuo oppure di una comunità coesa e più o meno chiusa verso l’esterno. C’è cultura e cultura: vi sono usanze e pratiche sociali compatibili con il riconoscimento dell’altro, perché hanno interiorizzato il valore della tolleranza o qualcosa di analogo; vi sono tradizioni che prescrivono comportamenti incompatibili se non urtanti le altrui sensibilità, le altrui pratiche, fino al punto di negarne ogni possibilità di manifestazione. Si tratta insomma dei classici interrogativi su quanta diversità può tollerare una società, la quale piomba facilmente nell’anarchia e nella conflittualità endemica quando smette di conoscere e di apprezzare legami interpersonali che vadano al di là dell’appartenenza etnica e/o dell’identità religiosa. Se religione ed etnia sono una delle tante componenti della costruzione di ciascuna identità individuale, esse non possono che apportare ricchezza alle società ospitanti. Se si tratta di matrici esclusive e totalizzanti di identità, la politica si paralizza e la società civile deperisce fino all’inciviltà.

Pertanto l’integrazione è risorsa per chi arriva, necessità per chi riceve. Da entrambe le parti occorre fare opera educativa, ma è necessario trovare un ubi consistam. Il multiculturalismo che si presenta come elogio della comunità di comunità (al plurale) rischia di trasformare il mosaico inter-etnico in un puzzle dalle tessere così numerose da rendere impossibile ogni composizione. Resta intatto in tutta la sua validità l’interrogativo espresso alcuni decenni fa dal politologo Nicola Matteucci: «Quanta diversità può sopportare una società al suo interno? L’ideale è ex pluribus unum; ma cosa succede se quei “pluribus” diventano divaricanti?».

Come ebbe a dire il grande sociologo e scrittore, esule antifascista, Guglielmo Ferrero, «un’epoca che accetta come equivalenti tutte le idee finisce per non poter più pensare». Dobbiamo fuoriuscire da un simile limbo, plumbeo e stagnante, per tornare a guatare nuovi orizzonti.   

Danilo Breschi è professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma. Direttore del semestrale «Il Pensiero storico. Rivista internazionale di storia delle idee», è membro del comitato di redazione della «Rivista di politica» e fa parte della commissione scientifica e del Cda della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e collaboratore del Il Corriere Nazionale, Nei suoi studi si è occupato della tradizione liberale francese tra XIX e XX secolo e dei rapporti tra politica, filosofia e cultura nell’Italia contemporanea, riservando speciale attenzione sia alla transizione dall’età liberale al fascismo sia ai movimenti di contestazione sorti negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ha indagato inoltre il ruolo degli intellettuali nella critica della società e i processi di formazione delle classi dirigenti in Europa. Tra le sue pubblicazioni recenti: Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68 (Firenze 2008); Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione (Soveria Mannelli 2010); Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità (Milano 2018). Ha curato opere di Thomas More e Fëdor Dostoevskij.

Altri scritti più brevi, di natura filosofica, politologica e letteraria, si possono leggere nel suo blog: danilobreschi.com

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