Il massacro del sistema sanitario nazionale

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di DONATELLO D’ANDREA

Il nuovo coronavirus ha portato in trincea il sistema sanitario nazionale, esponendolo su due fronti: quello del confronto con una pandemia senza precedenti e l’altro, composto da evidenti limiti strutturali con cui ci si è dovuti da subito scontrare per programmare una risposta adeguata all’emergenza.

Lo scoppio dell’epidemia ha portato allo scoperto numerose falle nel sistema sanitario. Il sotto-dimensionamento degli organici, la cronica mancanza di presidi sanitari, l’elevata dipendenza del SSN da un numero di ospedali sempre più in calo su tutto il territorio nazionale, il rischio di un contagio diretto tra operatori sanitari.

Tra le cause principali alla base delle difficoltà oggettive della sanità italiana, oltre ai diversi contesti regionali, ci sono anche i tagli alla spesa pubblica che il Paese ha dovuto affrontare negli ultimi anni, principalmente dopo la crisi dei debiti sovrani del 2010-2012.

L’austerità, così ribattezzata aspramente dall’opinione pubblica italiana sulla scia europea di tale pratica economica, ha affondato la sanità pubblica tagliandone direttamente i fondi o revocando i necessari aumenti di dotazioni per adeguare, in termini di personale e di strutture, il sistema sanitario nazionale alle esigenze dettate dall’aumento dell’utenza, dall’incremento della speranza di vita e dalla necessità di cure per patologie rare, sempre più pericolose. Diversamente rispetto ad altri settori, nella sanità pubblica ogni euro di mancato aumento è da considerare un taglio senza precedenti.

La differenza tra un cantiere e la sanità pubblica sta proprio nella dannosità di un mancato investimento. Nel secondo caso, gli anni, le patologie e i rischi della popolazione evolvono in continuazione e in sanità programmare un aumento di spesa per poi non implementarlo significa togliere alla popolazione la disponibilità di presidi, ospedali, medici, infermieri e specialisti di fondamentale importanza per rispondere alle esigenze del paziente.

I numeri della sanità italiana

Nel 2018 l’Italia ha speso per il sistema sanitario quasi il 9% del PIL, una percentuale che scende al 6,5% considerando solo gli investimenti pubblici. Siamo ben al di sotto della Francia, Germania e Regno Unito, in linea con la media OCSE e leggermente sopra i Paesi dell’Europa Orientale, della Spagna e della Grecia.

Praticamente ciò si traduce in un esborso di 2.326 euro a persona (la Germania ne spende 4mila), complessivamente 8,8 miliardi in più rispetto al 2010. Un tasso di crescita dello 0,9% che con l’inflazione media annua all’1,07%, si traduce in un taglio di 37 miliardi. Secondo diverse fonti, il grosso dei tagli sarebbe avvenuto tra il 2010 e il 2015, cioè al tempo dell’ultimo governo Berlusconi, l’arrivo di Monti e gli esecutivi di centrosinistra, a causa delle trattenute finanziarie che la crisi richiedeva. La seconda fase, più blanda, ha riguardato il governo Gentiloni.

La frenata più importante è arrivata dagli investimenti degli enti locali (-48% tra il 2009 e il 2017) e dalla spesa per le risorse umane (-5,3%), una combinazione che in termini pratici si è scatenata sulla quantità e sull’ammodernamento degli strumenti, oltre che sul numero del personale, calato di quasi 50mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si sono fatti sentire, ovviamente, al Sud, dove le regioni spendono meno della media nazionale. L’unica eccezione è rappresentata dal Molise, il quale sta rispondendo molto bene a questa emergenza.

Negli ospedali i posti letto complessivamente disponibili nelle strutture sanitarie pubbliche sono 151mila (meno di 3 ogni mille abitanti), che sommate alle 40mila unità incluse nelle strutture private, rappresentano un impietoso calo del 30% rispetto all’anno duemila. L’unica regione italiana in linea con la media OCSE è il Friuli Venezia Giulia, che conta 5 posti letto ogni mille abitanti.

Secondo l’OMS, l’Italia ha a disposizione 164mila posti letto per pazienti acuti (272 ogni centomila abitanti), un dato calato del 30% rispetto al 1980. I posti in terapia intensiva sono 3700, che diventano 5300 se sommati a quelli delle strutture private.

Spicca con inquietante evidenza il tracollo della disponibilità dei posti letto. Si è passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti nel 1998 ai 4,3 del 2007 e ai 2,5 del 2017. Per non parlare dei posti per i ricoverati con patologie gravi. Nel 1980 i posti per i malati acuti erano 922 ogni 100mila abitanti. Questo è durato fino al 1998, anno della svolta, l’unico in cui l’Italia era sopra la media europea. Secondo i dati dell’OMS da allora fino al 2013 il numero dei posti per i malati acuti si è dimezzato, passando da 535 a 272 ogni centomila abitanti. Nello stesso periodo il numero di ospedali e case di cura è diminuito di un sesto, passando da 1197 a mille.

Nell’ultimo decennio, tutti i governi hanno contribuito a smantellare il sistema sanitario nazionale, soprattutto se analizziamo la questione a livello regionale.

Le privatizzazioni

E’ innegabile. La sanità pubblica italiana è stata brutalmente smantellata a suon di tagli, chiusure dei presidi nelle zone svantaggiate e aziendalizzazioni. Di conseguenza, questa condizione ha concesso inevitabilmente ampio margine alla sanità privata che, a costi competitivi, sopperisce alle inefficienze strutturali del sistema pubblico.

Il modus operandi è sempre lo stesso: smantellare silenziosamente per poi gridare ai malfunzionamenti e quindi chiudere i presidi che non funzionano più. Si comincia con i reparti per poi lasciare aperti solo i pronto soccorso. Poi chiudono anche quelli.

La povertà dilaga e le cure mediche sono diventate un privilegio. L’universalità del diritto alla salute è solo una formalità astratta in un Paese che pensa a privatizzare tutto per risparmiare. Liste d’attesa bibliche e fuori controllo, il crescente costo dei ticket, la burocrazia insistente, il deterioramento dei servizi sanitari e l’incremento della corruzione.

La contrazione della spesa pubblica e la privatizzazione della sanità hanno imposto un nuovo dogma: ci si può curare solo se si ha un reddito. L’accesso alle cure diventa un privilegio, il welfare si assottiglia a vantaggio di cliniche private e di assicurazioni, come nel caso americano. Inoltre, alcune cliniche private richiedono un rimborso allo Stato, essendo convenzionate con ospedali. Queste distorcono il costo delle prestazioni mediche, facendo pagare un terzo della prestazione al cittadino e il resto allo Stato.

La sanità intesa come una potenziale fonte di profitti è l’emblema della mercificazione del diritto alla salute. Non si tratta di diritto alla vita bensì come una fonte di reddito per pochi specialisti. Il servizio sanitario nazionale è stato progressivamente smantellato per far posto ad un bene di consumo. Il rischio è che si proceda velocemente verso una sanità pubblica scadente e riservata alle fasce più deboli della popolazione e una sanità privata efficiente per pochi noti.

Un esempio, in questo senso, è la Lombardia la quale ha predisposto una costosa e inefficiente, stando ai risultati, campagna di disinformazione circa l’indubbio connubio tra la sanità privata e pubblica lombarda che assieme hanno combattuto il virus. Un gesto che ha evidentemente il fine di rendere la privatizzazione del settore meno dolorosa del previsto agli occhi dell’opinione pubblica. Peccato che lettere, testimonianze dei medici e dei sanitari smentiscano categoricamente la positiva gestione dell’emergenza di un sistema sanitario che è malamente radicato sul territorio. Non si nega l’efficienza dei singoli presidi o degli ospedali, sia chiaro, ma si sottolinea come l’assistenza medica calibrata sulla regione sia stata scadente.

Le responsabilità politiche in entrambi i casi (privatizzazione e gestione del Covid-19) sono evidenti. Basti pensare al caso dell’ex governatore Formigoni o alle centinaia di presidi chiusi in tutto il Paese. La Lombardia ne è solo un esempio, il più grande, dato che il 40% della spesa sanitaria locale finisce a strutture private, ma in questo frangente si potrebbero citare numerose regioni tra cui spicca il Lazio dell’allora governatore Polverini.

In ultima istanza non sembrerebbe essere di poco conto anche la regionalizzazione della sanità che crea competizione fra le regioni e rafforza il principio della disomogeneità del SSN su base regionale, determinando differenze di trattamento sanitario a seconda della regione in cui si vive e delle risorse che tali regioni vogliono o possono immettere nel servizio sanitario. La conseguenza è chiara: le regioni più ricche offriranno tendenzialmente una sanità migliore, quelle più povere una peggiore.

Rispetto agli altri Paesi OCSE, la spesa sanitaria privata pesa soprattutto sulle famiglie. L’abolizione del Super Ticket dal 1 settembre 2020 va nella direzione di abbattere i costi a carico degli utenti ma non è ancora sufficiente per garantire gli alti standard sanitari a cui gli italiani dovrebbero essere abituati in modo omogeneo in tutto il Paese. La mancanza di assistenza sul territorio e la cronica assenza di attrezzature di protezione nei laboratori, sono solo alcuni dei problemi che affliggono la sanità a tutti i livelli. Anche l’assenza di presidi sanitari nelle cliniche private, rende quest’ultime inservibili, soprattutto per fronteggiare un’emergenza come questa.

Le deficienze della sanità privata sono sotto gli occhi di tutti, inoltre molti modelli regionali accreditati come “migliori”, seguendo un criterio molto discutibile come quello della prosperità economica come sinonimo di migliore sistema sanitario, hanno fallito miseramente a causa di errori politici presenti e passati.

L’unica strada perseguibile nel concerto della sanità è quella inaugurata da Tina Anselmi nel 1978: il sistema sanitario non è una fonte di guadagno e deve essere pubblico. Questa emergenza ne è la dimostrazione.

Quando tutto questo sarà finito, non ci si potrà dimenticare di quanto è accaduto. Un sistema pubblico al collasso, il quale si è retto sulla volontà di uomini e donne coraggiosi, è riuscito a mantenere il controllo della situazione, ma avrebbe potuto fare molto di più se fosse stato messo in condizione di farlo. La chiave per il futuro è questa: “la situazione sanitaria di un Paese non può degenerare da un momento all’altro”. La politica deve fare il bene dei cittadini e quel bene passa irrimediabilmente, e per fortuna, dal pubblico e non dal privato.

In questo dramma, il coronavirus deve essere la lezione più grande per delle scelte politiche future più responsabili.

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