La “corporazione” dei Magistrati. ‘Un residuo medioevale’

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Il pensiero libero di Luigi Mazzella 

I critici dell’attuale ordinamento della giustizia in Italia lamentano che, al di là degli artifici legali, i magistrati non rispondono mai, in modo concreto ed effettivo, di niente e a nessuno. Sono in buona sostanza (se non formalmente) irresponsabili. E la lentezza dei processi, recentemente rimarcata anche dall’Unione Europea, non ne fa una struttura modello di impiegati dello Stato. Essi sono, quanto allo status, per così dire “extra ordinem”, “speciali”, diversi dai dipendenti di un servizio pubblico in altri ordinamenti democratici dell’era evoluta e moderna.

Figurativamente arroccati nel loro fortilizio, giudici e pubblici ministeri rappresentano, in qualche modo, il residuo di un passato lontano dove lo scontro politico avveniva tra poteri assolutistici, l’un contro l’altro armati.

Secondo alcuni notisti politici, anche il loro autogoverno, con elezioni su base associativa, sarebbe una sorta di avanzo delle vecchie organizzazioni “corporative” medioevali delle Arti e dei Mestieri; divenuta del tutto anacronistica in un’Italia che non è più neppure quella della Camera dei Fasci e delle Corporazioni di Mussoliniana memoria. 

La “chiusura” in un recinto considerato “privilegiato e invalicabile”, non impedisce, però, ai Magistrati la “libera uscita” e una pervasiva penetrazione oltre i confini degli altri poteri dello Stato. 

In quello Legislativo come Parlamentari o consulenti negli uffici delle due Camere; in quello Esecutivo come Membri del Governo (Ministri, Sottosegretari) ma anche come capi di gabinetto, capi dell’ufficio legislativo, consulenti giuridici.

Senza dire della loro presenza in molte altre strutture istituzionali, comprese la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale come Assistenti dei giudici, a parte quelli che diventano, ancora con un’elezione “corporativa” membri effettivi della Corte Costituzionale.

La nostra Carta fondamentale ha disciplinato, infatti, con molta generosità, l’elezione di ben cinque membri provenienti dalle varie magistrature che affollano (per alcuni osservatori politici, non solo “pesantemente” ma anche “incongruamente”) il panorama giudiziario complessivo del nostro Paese (diviso tra giustizia ordinaria, amministrativa e contabile).

In più sedi si è rilevato che limitare esclusivamente la platea degli eligendi alla Consulta da parte del Parlamento ai magistrati ordinari e amministrativi e agli avvocati del libero foro o dello Stato con almeno vent’anni di esercizio professionale giudiziale o forense, 

(escludendo, quindi, sia quelli contabili, provenienti da esperienze giuridiche molto più limitate, sia gli insegnanti accademici, privi di concreta pratica del diritto, pur se dotti in astratte teorie) sarebbe stata opera buona e saggia; consentire per i dipendenti magistrati un’ulteriore “trasmigrazione” in un consesso così delicato politicamente com’è la Consulta, decisamente no!

Naturalmente, c’è chi, avendone il coraggio e allargando il discorso, osserva che per essere soltanto vincitori di un modesto concorso di primo grado, questi impiegati dello Stato si occupano di troppe cose e, certamente, più di quanto dovrebbero. 

Non manca, quindi, chi ritiene che l’attuale “straripamento” del potere complessivo dei magistrati andrebbe contenuto, anche limitando fortemente la loro presenza prevaricante nel Consiglio Superiore della Magistratura. E ciò, per togliere a tale organo quella sua (poco simpatica e del tutto inattuale) patina corporativa.

In definitiva, chi invoca un ritorno a Montesquieu con i tre poteri allineati su posizioni di eguaglianza e con l’obbligo per tutti i poteri di rispondere sempre e comunque allo Stato-Collettività (o Stato-Comunità che dir si voglia) che è la fonte unica e vera del potere, non esagera in tale richiesta. 

Il fatto che secoli di degenerazione del costume politico e amministrativo italiano (ed eurocontinentale) abbiano portato, del tutto irrazionalmente, dei semplici dipendenti dello Stato-Amministrazione (che, come noto, è totalmente in mano alla classe politica) a porsi, pur senza alcuna investitura popolare, in una situazione di superiorità rispetto a ogni altro potere non dovrebbe essere ulteriormente tollerato nel terzo millennio.  

E ciò, anche perché, l’attuale Ordine giudiziario, nonostante le sue prerogative, non solo non è riuscito a debellare la corruzione nel Paese, ma, secondo molti osservatori non corrivi, l’ha fatta fortemente aumentare. 

Il rischio, infatti, connesso a ogni intrapresa economica dei cittadini proprio per il fatto di essere costantemente nel mirino della giustizia ha fatto lievitare sino all’inverosimile “il prezzo” della corruzione, rendendo 

conseguentemente più lontana la ripresa degli investimenti produttivi e delle sorti economiche del Paese.

È comprensibile che l’aggravamento per gli alti costi della corruzione di una tale situazione d’impasse piaccia ai Tycoon dell’alta Finanza e ai Tecnocrati ben pagati dell’Unione Europea ma ciò significa solo che per riformare radicalmente la giustizia in Italia ci vorranno ben altri leader politici che quelli attuali.

Intanto la corruzione aumenta anche per i suggerimenti che i magistrati, nella loro veste di consiglieri ministeriali o con le loro sentenze, danno per aumentare il numero degli ostacoli da superare per raggiungere l’obiettivo di autorizzazioni e concessioni amministrative e per la conclusione degli appalti pubblici.

 Gli arresti delle pratiche burocratiche per richieste continuate di “mazzette” e “tangenti” da pagare possono piacere a chi immagina per l’Italia un futuro di capitalismo finanziario e non più industrial-produttivo; non di certo a chi vede nel cambiamento l’ombra di un nuovo Feudalesimo.

Infine: la “corruzione” è entrata nel “Palazzo”, penetrando nella stessa vita giudiziaria, come un cancro dagli effetti, allo stato, imprevedibili. 

V’è chi sostiene che sia impossibile arginare le manovre correntizie dell’Associazione di categoria per nomine, promozioni, incarichi e trasferimenti. 

Lo scandalo ora avvenuto nel seno stesso del Consiglio Superiore della Magistratura ha richiamato (forse per la prima volta in modo così clamoroso) l’attenzione dei politici e dei giornalisti sull’amministrazione della giustizia in Italia.

Si è ricordato che il predetto Consiglio da organo consultivo-amministrativo del Ministro della Giustizia è divenuto, nella Repubblica Italiana, l’espressione di un autogoverno pieno e incondizionato con ben sedici membri togati contro soltanto otto laici. 

Si è rammentato pure che (fatto ancora più grave) il Consiglio, nella pratica, si è posto come una vera e propria terza Camera legislativa, a causa di sue frequenti valutazioni e sostanziali bocciature dell’attività normativa del Parlamento.

Si è cominciato a parlare di una diversa composizione dell’organo di autogoverno della Magistratura, come se sia del tutto normale e scontato che una categoria di dipendenti statali, selezionati con un concorso di primo livello per laureati in giurisprudenza, si regga autogovernandosi da sé, con qualche insignificante immissione di pochi elementi esterni, che invece dovrebbero essere di grande qualificazione professionale e in stragrande maggioranza per eliminare ogni sospetto di parzialità.

Purtroppo, è prevedibile che ancora una volta, e all’italiana, non si andrà al fondo del problema.

Si confiderà, in altre parole, che, more solito, i Gattopardi della politica nostrana si mettano al lavoro per cambiare le cose, facendo in modo da fare apparire che tutto cambi, perché, nella sostanza, nulla muti; e come di consueto, la maggioranza dei giornalisti terrà, come suol dirsi, “bordone”.

Una tale pessimistica previsione dipende dalla consapevolezza che l’ennesimo governo autocratico che, andrà a insediarsi, in Italia sotto le parvenze di una ennesima e falsa democrazia, sarà, come i precedenti, controllato ed etero-diretto da Bruxelles (alla pari che negli altri Stati membri).

Nel rispetto della volontà dell’Unione Europea, del potere finanziario e monetario che sostanzialmente la domina e degli attuali orientamenti cosiddetti “istituzionali” esistenti nei vari Paesi, nulla cambierà anche nell’assetto giudiziario e i governanti del Bel Paese continueranno a essere pedine di scarsissima forza politica, sia all’interno sia all’esterno degli italici confini.

Anche i “Gattopardi” dell’Unione Europea hanno assimilato, dopo tutto, la lezione compresa nel motto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

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