La pandemia ci ha mostrato nuovamente, se ancora ce ne foss bisogno, quanto l’essere umano sia una creatura precaria. Crede di trovarsi su un solido strato di certezza, ma puntualmente le sue sicurezze vengono meno. Molti progressi, è chiaro, sono stati raggiunti. Infatti, non riconoscere alle nostre società un notevole avanzamento materiale – e non – sarebbe puerile. Nondimeno, il pericolo della presunzione è sempre lì, dietro l’angolo. Crediamo di aver raggiunto certezze e ci crogioliamo come “signorini soddisfatti”: la realtà, però, è più complessa e talvolta – magari pure spesso – ci può far scottare.
Le conquiste raggiunte non sono date una volta per tutte. A ciò aggiungiamo un’ulteriore considerazione: il progresso è un gioco a somma positiva, ma qualcuno può beneficiarne in modo più pronunciato di altri. Banale realismo, che fa, però, tutta la differenza di questo mondo. Senza contare che il progresso materiale si accompagna quasi inevitabilmente a un’erosione di stili di vita, abitudini, tradizioni che si erano sedimentate. Lo scompenso creato, in altri termini, può provocare fasi più o meno acute di turbolenza.
Se si vuole, quello che viene etichettato come “sovranismo” nasce così. Marco Gervasoni, in un volumetto uscito qualche mese prima della crisi sanitaria – che sarà probabilmente ben più profonda dell’essere solamente tale –, ne ha narrato un po’ le vicende. La rivoluzione sovranista (Giubilei Regnani, 2019, pp. 204) cerca di metter a fuoco il fenomeno partendo da lontano. Il sottotitolo – Il decennio che ha cambiato il mondo – può indurre a pensare che il sovranismo sia un fenomeno con radici esclusivamente recenti, ovvero la recessione del 2007-2008. Ma non bisogna avere una lettura così semplicistica e superficiale. L’Autore è infatti uno storico. Abituato ad analizzare i fatti e gli eventi secondo una lettura avversa alla sindrome “presentista”, osserva la realtà in prospettiva, con profondità.
Il termine, ricorda Gervasoni, si diffonde negli anni Novanta in Francia, sebbene sia importato dal Canada della questione autonomista del Quebec. Diventa poi di uso corrente, in Europa, per indicare la reazione ostile nei confronti del processo d’integrazione che anela al superamento delle nazioni. I movimenti sovranisti sono, insomma, un fenomeno recente e moderno, possiamo dire con lo storico contemporaneista dell’Università del Molise. Tuttavia, essi rappresentano forse il frutto maturo di un processo lungo, che ha avuto come detonatore ultimo e più impattante la recessione sopra menzionata.
Il sovranismo, in buona sostanza, si configura come la reazione a una precisa mentalità che si è sviluppata all’interno di quella che si può definire “nuova classe”, “nuova élite” o “nuova oligarchia” (si legga “La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia” di Christopher Lasch per ben inquadrarla). Attraverso una fase storica connotata da diverse rivoluzioni – individualistica, manageriale e digitale – si è verificata una scissione profonda e radicale in seno alla società: da un lato, una nuova classe, appunto, progressista, universalista e individual-egualitarista dotata, seguendo Pierre Bourdieu, del triplice capitale (monetario, sociale, culturale); dall’altro lato, invece, una classe media (e medio-bassa) impoverita dalla rivoluzione tecnologica e dall’apertura globale, attaccata in qualche modo alla dimensione nazionale e comunitaria. Si tratta, certamente, di una semplificazione, ma con una buona dose di capacità ermeneutica.
Infatti, pur con tutte le difficoltà che la realtà pone all’elaborazione di categorie concettuali “idealtipiche”, è piuttosto visibile una crescente polarizzazione all’interno delle società: la classe media, già per Aristotele perno di una sana e abbastanza stabile società politica, è in declino. Un declino che è, sì, materiale – qui, almeno per quanto concerne l’Italia, si ritiene vi sarebbe un ampio spazio da dedicare alla critica di tendenze redistributive e vessatorie dello statalismo livellatore – ma che è anche, da un certo punto di vista, una crisi d’identità e di valori (nonché del sempre più incerto orizzonte di programmazione della propria vita). Come scrive Gervasoni, «è in corso una sfida tra forze che stanno disgregando valori e istituzioni millenarie e forze che invece intendono conservarli»: tra chi è attaccato a concetti come nazione, comunità e a un ritorno del “noi” pre-politico, e chi, al contrario, rigetta tali rigurgiti in favore dell’umanità, dell’eguaglianza universale e del “noi” politico.
E veniamo, infine, al titolo del volumetto. Rivoluzione, infatti, è un termine che invita tendenzialmente a pensare alla violenza, a lotte feroci, barricate e così via, volte a creare un ordine nuovo, un futuro migliore: insomma, un motore che spinge in avanti la storia (sulla scorta della Rivoluzione Francese). Ma non è questa l’accezione che l’Autore attribuisce al contenuto del libro. Citando una definizione di Lenin – secondo cui «quando le classi dominanti non possono più governare come prima e le classi subalterne non vogliono essere più governate come prima» –Gervasoni intende allora la rivoluzione come «un rovesciamento di potere» che si viene a determinare quando chi gestisce l’autorità non è più percepito come legittimo, e viene così scalzato da un’élite diversa che preme su di essa. Non si tratta di abbracciare l’estremismo, scrive, essendo questo «la malattia infantile del populismo». Al contrario, la via è quella, sì, di un ripristino della democrazia, in cui il demos torni a riprendere il controllo della politica, ma in senso conservatore (o nazional-sovranista): riscoprendo, dunque, parole chiave come nazione, famiglia, comunità e così via.
Da qui, pare evidente la vis polemica contro chi sia prioritariamente rivolta: progressisti e globalisti (razionalisti) da un lato, “falsi” democratici, dall’altro (anche se spesso sono le facce di una stessa medaglia). Resta, infine, qualche perplessità sul ruolo che lo stato andrebbe a ricoprire nella prospettiva nazional-sovranista: quale spazio per il principio di sussidiarietà, prima di tutto orizzontale? Quale il rapporto che s’instaurerebbe tra le comunità pre-politiche e i corpi intermedi, da un lato, e la comunità politica, dall’altro? Inoltre, mediante il pretesto del ripristino di una fervente sovranità e del ritorno a una politica di stampo nazionalista, non si corre l’alea di un nuovo tipo di socialismo?
Carlo Marsonet