Alunni “privati”… dell’istruzione

Scuola, Formazione & Università

Di

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Anna Lombroso

Le scuole paritarie sono una parte importante del sistema scolastico. Rappresentano un patrimonio formativo e culturale dell’intera comunità nazionale e un’opzione di scelta educativa che va assolutamente tutelata”. Con queste premesse – era Delrio che parlava qualche giorno fa non contento dei primi 150 milioni stanziati per la scuola privata – non c’è da stupirsi che di milioni ne siano stati stanziati altri 150, grazie all’impegno profuso dal Pd, da Italia Viva e dalla Lega, insomma da tutta la destra unita nel condiviso “sostegno alla libertà di scelta educativa”.

Pare fosse proprio doveroso garantire fondi aggiuntivi,  “per garantire la continuità e la sopravvivenza di servizi educativi e scolastici fondamentali, messi duramente a rischio dalla pandemia”  e per aiutare “12mila realtà, 900mila famiglie, 180mila dipendenti”. Si compiace Italia Viva attraverso i suoi rappresentanti, in qualità di ossimori in Commissione Cultura: “Dopo questi ulteriori 150 milioni di aumento,100 al percorso dell’infanzia e 50 per le scuole, previsti da un emendamento al Dl Rilancio, arriveranno complessivamente 180 milioni alle scuole dell’infanzia (0-6 anni) e 120 milioni alle scuole paritarie”.

Poveri teneri ragazzini, minacciati su due fronti, quello dell’occupazione confessionale da una parte, grazie all’intreccio del rapporto pubblico/privato/paritario, disegnato dal famigerato decreto 65 del 2017, lo “Zero-sei”, e dall’altra, la possibilità cui lavora tenacemente la responsabile Invalsi – siamo ormai dominati da santoni e guru di tutte le discipline para scientifiche – di adottare e introdurre test per i bambini di 4-5 anni, per diagnosticare (e sorvegliare) comportamenti, inclinazioni e attitudini nelle prime fasi dell’apprendimento.

E poveri anche tutti gli altri, di tutti gli ordini e gradi, e poveri genitori e poveri insegnanti perché – anche grazie alla tempesta perfetta del neoliberismo innescata dalla pandemia – la crisi della scuola è diventata l’auspicata e desiderabile emergenza che condurrà le famiglie che hanno a cuore destino e carriere future dei figli a sobbarcarsi i costi  della pedagogia e della didattica somministrate dalla più repressiva e diseducativa delle combinazioni: mercato e culto. Pensando tra l’altro di far bene a sottrarre la prole a scuole in rovina, sia che si parli di edifici cadenti, che di docenti umiliati e malati di disaffezione.

Perché il maggior successo dell’ideologia che ispira le politiche “sociali” contemporanee consiste proprio nell’affermazione della propaganda intesa a persuadere che la scelta privata sia premiante: nell’assistenza sanitaria, nel sistema previdenziale e pensionistico, nell’erogazione di servizi e nella salvaguardia dei beni comuni e del patrimonio artistico e culturale, nelle attività produttive e nell’istruzione.

E dire che non c’è pubblicità più ingannevole di quella, basterebbe guardare agli innumerevoli “casi di insuccesso” qui e in tutta Europa, dall’Ilva alla sanità dissanguata dai tagli che ha insegnato che per salvarsi dal Covid bastava restare a curarsi a casa, dalle svendite di Alitalia, Autostrade, all’altra forma di privatizzazione  occulta, ma nemmeno troppo, – meglio è chiamarla liberalizzazione – ricordo esangue delle Partecipazioni statali, quella dell’Enel, per fare un esempio, che ha visto scendere la quota in mano al pubblico addirittura sotto la soglia del trenta per cento, o Poste, o le aziende di trasporto o di servizi locali, con l’aggiunta del settore bancario.

Tutti casi di studio caratterizzati dalla perdita di qualità delle prestazioni date, dalla impossibilità di effettuare un controllo sui servizi  offerti e erogati in modo opaco,  (che fa capire il successo del termine Autorità, adottato per molti die soggetti impegnati nelle attività di regolazione e controllo nei settori dell’energia elettrica, del gas naturale, idrico e del ciclo dei rifiuti) e dall’incremento della tariffe e dei prezzi a carico dei consumatori, nel rispetto della regola madre: privatizzare i profitti e socializzare le perdite, anche quelle di vite umane.

E se i  paladini delle scuole per l’infanzia e delle parificate si agitano come api laboriose non solo nell’ala cattolica e tradizionalmente conservatrice, ma anche nell’alveare progressista e riformista della Buona Scuola, è doveroso ricordare che dobbiamo a Luigi Berlinguer la legge 62 del 2000 che ha offerto statuto, finanziamento diretti e possibilità di accesso alle risorse europee a grandi e piccole “imprese” didattiche, quelle che vivono tutta l’ambiguità delle relazioni tra Stato, enti locali e privati nella quale prospera una miriade di posizioni contrattuali differenti monopolizzate e gestite da associazioni e federazioni cattoliche come Agidae, Aninsei, Fism, in prima linea nello sfruttamento dei dipendenti.

L’aggressione condotta contro l’istruzione pubblica ha trovato un campo di battaglia favorevole nella legge 107 del 2015 e nei suoi decreti applicativi, mettendo in moto una macchina farraginosa, confusa dove, e si vede, istituti privati hanno la meglio nell’accaparrarsi risorse anche grazie al declino della scuola pubblica e dove si è dato forma al conflitto tra materie e soggetti concorrenti, che sta sfociando nell’infame pretesa di autonomia aggiuntiva di tre regioni  spudorate che esigono a fronte del loro fallimento politico e organizzativo.

La concorrenza sleale delle “aziende” didattiche private ha segnato altri punti in favore nel corso degli anni, dalla riforma Berlinguer  alla Buona scuola grazie alla svalutazione e alla progressiva mortificazione del ruolo del docente, facendolo entrare nel pubblico impiego, privatizzandone il rapporto di lavoro e subordinandolo a quello del preside – promosso o retrocesso? a “datore di lavoro”, trasformandolo in dirigente e manager. Tanto che spetta a lui la riscossione e la gestione  anche dei “contributi volontari” obbligati grazie ai quali le famiglie assicurano beni di prima necessità, ma si sentono anche autorizzate a intervenire pesantemente nelle scelte didattiche, a garantire trattamenti esclusivi agli alunni secondo criteri di censo, diventando inappropriatamente consumatori, secondo le regole di marketing che vengono esibite per attirare la clientela più esigente, in modo da evitare sgradite forme di meticciato etnico o/e di classe.

E chi non può pagare per preparare la sua successione a farsi strada nella vita grazie a un “percorso di cultura del lavoro” fatto di nozioni che addestrano alla specializzazione della cieca esecuzione di comandi in qualche esclusivo diplomificio, li condanna a quella zona nera dell’abbandono scolastico (secondo l’Ocse siamo i primi in Europa), o a quella grigia degli istituti alberghieri dove si esalta l’ideologia cara al tandem Poletti/Fedeli, quella dell’avvicendamento scuola-lavoro mandando i ragazzi a fare i lavapiatti nei ristoranti, pagando per la formazione sul campo,  o dei corsi di regioni e sindacati pagati coi fondi che noi trasferiamo all’Ue e che la matrigna benevolmente ci concede facendo la cresta per preparare piloti di droni, grafici del web, per i quali non esiste domanda né futuro.

In questi mesi stancamente abbiamo sottolineato, in pochi purtroppo, come a pagare il conto salato dello stato di eccezione siamo tutti, anziani, lavoratori, quelli spediti a sacrificarci in fabbrica, supermercato, vendite online, sui bus e sulla metro, ma pure quelli esentati, che pensavano di salvarsi con lo smartworking e che ne vedranno presto gli effetti con tagli alle garanzie, alle retribuzioni, alla dignità, donne che dovrebbero essere gratificate dal doppio lavoro a domicilio. E bambini e ragazzi, defraudati dell’istruzione e della socialità che deve accompagnare l’accesso al sapere e alla conoscenza. E che ne saranno privati ancora, sempre grazie a una selezione di censo, averi e classe, come d’altra parte è avvenuto con la didattica a distanza che ha rivelato la vocazione a esaltare le disuguaglianze.

A quelli che mettono sul profilo i sindaci disubbidienti e si sentono così dalla parte giusta, che pensano di far bene mandando i figli nelle scuole delle monache, negli istituti parificati e più “sanificati”, bisogna ricordare che è vero che nella scuola pubblica i testi arrivano a stento alla Seconda Guerra mondiale e alla liberazione di Auschwitz grazie agli americani, che Graziani è magari trattato da patriota, che certe rimozioni e certi oblii esercitati sui banchi hanno aiutato razzismo e xenofobia, ma che non è preferibile imparare che le missioni dei gesuiti in America Latina o le Crociate erano missioni d’amore e di pace.

Perché è lo stesso insegnamento di chi chiede alleati per esportare la sua “democrazia” della guerra di chi ha contro chi non ha avuto e non avrà, se non insegniamo la solidarietà, la critica e la ragione, l’uguaglianza e la libertà fin dal giardinetto dell’asilo.

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