Il banchetto osceno dei governatori

Politica

Di

Anna Lombroso 

Ma non eravamo insorti tutti quando le critiche alla gestione del “contenimento” dell’epidemia rivolte alla Lombardia avevano sconfinato in veri e propri attacchi all’industrioso popolo lombardo, nemmeno avesse, compatto,  votato Lega.

E non era diventato il motivo conduttore della propaganda in favore della riscoperta dei valori più sacri, il richiamo all’unità nazionale ritrovata come motore morale per combattere il Covid?  E non si era detto che con la ricostruzione si sarebbe dovuto riedificare anche l’impianto etico della nazione più forte e coesa?

I nostro progressisti devono proprio essere guariti almeno dalla retorica sciovinista, vedi mai che si trasformi nell’aborrito sovranismo,   a vedere recenti esternazioni: di governatori, sindaci, ex premier “è intrinsecamente sbagliato che un dipendente pubblico a parità di ruolo e funzione guadagni lo stesso stipendio a Milano e al sud“ ( il sindaco di Milano, Sala e l’onorevole Quartapelle), e ancora:  “Gli investimenti per la ripartenza devono concentrarsi sul nord, il sud aspetti ” (Bonaccini) e tanto per sfogliare gli archivi recenti: “molti giovani del Sud invece di rispondere alla chiamata delle aziende balneari della Romagna hanno preferito starsene a casa a godersi in reddito di cittadinanza” (Matteo Renzi, senatore, l’anno scorso).

Ecco qua in poche citazioni riassunti gli ideali e i propositi dei riformisti del Pd, in tema di occupazione, scuola, tutela del territorio, sviluppo organico del Paese, integrazione. Il motore che li muove  è sempre la divisione del nemico,  che non bastava quella attuata dalle misure straordinarie e eccezionali di contrasto al virus che aveva discriminato la popolazione: chi stava a casa risparmiato dal contagio e garantito dal servizio doveroso effettuato da chi si prestava per assicurare i servizi essenziali, costretto a viaggiare su mezzi affollati, a prodigarsi in luoghi nei quali non erano osservate norme elementari di sicurezza, a entrare in contatto con la clientela delle grandi catene di distribuzione, sicché il lavoro, soprattutto quello manuale e esecutivo,  viene occultato in una specie di clandestinità opaca e sregolata.

Pare che non possa esserci rilancio e crescita e neppure rispetto dei diritti fondamentali se non c’è qualcuno che merita e ottiene di più e qualcuno penalizzato per origine, collocazione geografica, appartenenza, etnia, sfortuna. Pare che le remunerazioni debbano essere riconosciute solo in funzione dei consumi che vengono concessi a chi le guadagna.

Pare che le risorse da investire debbano avere la stessa qualità, andare dove danno più profitto, siano la sanità o la scuola privata, siano geografie dove  le cordate del cemento hanno riposto più aspettative, con l’unica consolazione che forse anche il Ponte potrebbe attendere.

Pare che nemmeno lo smartworking possa essere una livella visto che la digitalizzazione così precaria e “differenziata” nelle regioni del Nord, a Sud è penalizzata dalla carenza strutturale e di sistema.

Pare che perfino l’utopia del ministro Franceschini di convertire il nostro Mezzogiorno in un parco tematico proprio come nei desiderata di Farinetti, Briatore e pure del Terzo Reich, che auspicava la trasformazione della colonia Italia  in relais per tedeschi ricchi,   sia messa in pericolo  per la fisiologica indolenza ribellista delle popolazioni mediterranee.

Non voglio nemmeno immaginare quali riforme saranno invocate a garanzie dei prestiti europei e che effetti avranno sull’arto “inferiore” del paese, già considerato una molesta propaggine africana incompatibile con progresso e sviluppo, non voglio nemmeno ipotizzare gli esiti della tracotanza delle tre regioni che pretendono più autonomia perfino in materia sanitaria,, indifferenti alle prestazioni offerte in caso di crisi prevedibile, i sui imprenditori hanno in passato condotto una guerra coloniale di conquista e di trasferimento di corruzione, inquinamento, crimine che di differenzia dalle mafie tradizionali perché agisce di frequente “a norma di legge”.

Mentre è inevitabile guardare a quello che sta accadendo:  aziende che licenziano cancellando i contratti a termine col meccanismo del non rinnovo, che dichiarano l’eliminazione degli ammortizzatori sociali motivandola con l’eccesso di forza lavoro rispetto a ordinativi in calo, manager e economisti che invocano la necessaria e doveroso sostituzione di occupati a tempo indeterminato con precari.

A essere penalizzati come è naturale sono i giovani e le donne soprattutto del Mezzogiorno, che condividono lo stesso precipizio verso instabilità, incertezza e bisogno con quelli che fino a oggi godevano del reddito da lavoro dipendente, oggi messo in discussione anche dallo smartworking, assimilabile a un nuovo cottimo legalizzato e che provocherà riduzioni di personale, con  quei ceti medi impoveriti, micro e piccoli imprenditori, commercianti, bottegai, che hanno legato la loro sopravvivenza a settori abbattuti dal Covid e dalla gestione irrazionale dell’economia post-pandemica.

Come già si intravvedeva con la crisi partita nel 2008, l’unità del paese troppo lungo potrebbe verificarsi grazie a un rovina condivisa, che non viene ammessa da territori, informazione e ceto dirigente che ripete l’atto di fede europeo che dovrebbe assicurare e benedire benessere e lavoro, dimenticando quanto l’adesione al trattato di Maastricht sia stata generata dall’interno per creare un contesto favorevole alle gabbie salariali, alle disuguaglianze da promuovere in termini di trattamento e investimenti, alla realizzazione di quel patto  del 1993, siglato con il protocollo di sindacati e governo,  per i redditi e la competitività che anche grazia alla svalutazione ha segnato il declino delle retribuzioni.

Più di 70 anni fa, nel 1949, Giuseppe Di Vittorio, che non è il protagonista di una soap della Rai, ma il segretario della Cgil di allora, lanciava il suo Piano del Lavoro che doveva riscattare dall’isolamento il movimento operaio nella fabbriche, nelle campagne, dando soluzione al problema della disoccupazione nel paese, delle riduzioni salariali, della miseria che si mangiava il Sud dove Cristo si era fermato a Eboli, con cinque milioni di lavoratori “marginali” e due milioni di disoccupati.

Era la risposta politica e democratica di un sindacato che vuole dare forma a un’alleanza della classe lavoratrice testimoniando e rappresentando le lotte che scuotono il paese nelle fabbriche e nella campagne per aumentare i salari, riprendersi le terre occupate dai latifondisti in combutta con la mafia, contro il cottimo e per la creazione di servizi, infrastrutture, scuole, ospedali. Tre anni prima il Sud era stato teatro del primo sciopero delle gelsominaie, le raccoglitrici di gelsomini a cottimo, che avevano trascinato nelle strade a nelle piazze quelli che raccoglievano le olive e poi quelle degli agrumeti e via via contadine e contadini di tutta la Sicilia in lotta per il salario minimo garantito.

Più di 70 anni dopo, dopo i morti per lavoro di Modena, Reggio Emilia, e poi Avola e Battipaglia, dopo i crimini denominati morti banche, dopo che una città, Taranto, è diventata simbolo del martirio e del sacrificio per il salario, basterebbe tirar fuori dal cassetto il Piano di Di Vittorio.

Ma ci vorrebbe qualcuno che non avesse firmato il più osceno degli armistizi con il padronato. Ci vorrebbe qualcuno che non credesse alle menzogne di Stato e di Governo, quelle che  Ridurre (o far crescere più lentamente) i salari al Sud favorirebbe l’occupazione, quando la competitività in tempi di globalizzazione ha altri terzi mondi esterni e interni di cui approfittare, quelle che le retribuzioni dovrebbero essere disuguali, quando  il settore pubblico, ormai da anni, offre scarsissime opportunità lavorative al Sud, quelle che i salari dei dipendenti del Nord sono penalizzati dal costo della vita superiore a quello del Mezzogiorno, come se non avessimo proprio in questi mesi “consumato” gli stessi prodotti offerti dal “blocco” delle grandi catene di vendite e distribuzione con gli stessi prezzi maggiorati semmai dai servizi di appoggio meno efficienti nelle aree che non possiedono di una rete di trasporti efficiente.

E ci vorrebbe qualcuno che non sia stordito dalla paura e dal ricatto, che vada in strada e in piazza a difendere la proprio dignità e la propria libertà. E altri che escano  di casa, lascino là pc e telefonini, ritrovino parole e canti di lotta e riscatto, perché il vento non ha smesso di fischiare e abbiamo voce dietro la mascherina.

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