Due testimoni hanno raccontato di pestaggi nel carcere di Modena durante la pandemia

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In un due lettere, di cui l’AGI è in possesso, danno la loro versione, negata dalla polizia penitenziaria. Al di là delle presunte violenze, sono tanti i dubbi su come siano morte 13 persone, di cui 9 a Modena, 1 a Bologna e 3 a Rieti. Alcuni, come Salvatore Piscitelli, decedute nel trasferimento da un carcere all’altro

 
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MIGUEL MEDINA / AFP – Detenuti sul tetto del carcere di San Vittore

AGI – L’8 e il 9 marzo, mentre gli italiani iniziano la fase più dura della pandemia chiudendosi in casa, una settantina di carceri da nord a sud viene attraversata dalle violente proteste dei detenuti innescate dal divieto di colloquio coi familiari per evitare che il contagio dilaghi tra le mura. Nella bolgia degli istituti incendiati e devastati perdono la vita 13 persone, nove nel carcere di Modena di cui quattro durante il trasporto da qui ad altri istituti, uno alla ‘Dozza’ di Bologna e tre nella prigione di Rieti. La maggior parte di loro sono giovani e tossicodipendenti che stavano scontando condanne per reati legati alla droga, stipati in celle di pochi metri.

Dai primi riscontri emerge che il loro decesso sarebbe dovuto all’ingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. È questa l’ipotesi su cui si concentrano le indagini per ‘omicidio colposo’ e ‘morte in conseguenza di altro reato’ delle procure che hanno disposto gli esami tossicologici i cui primi esiti confermano l’assunzione delle sostanze, letali se prese in grande quantità. Ma gli avvocati dei morti, che portano avanti le istanze delle famiglie, le associazioni attive nel mondo delle carceri e alcuni testimoni ritengono che non basti l’overdose a spiegare quanto accaduto.    

I testimoni, “spogliati e picchiati, il nostro amico morto non è stato curato”

In particolare, due detenuti denunciano di avere subito “abusi” nel carcere di Modena e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite altrove, nonostante stessero male. E’ una scenario, tutto da verificare e nell’ambito di una vicenda che apre molti altri interrogativi, raccontato in due lettere, di cui l’AGI è in possesso, firmate dai compagni di viaggio di Salvatore ‘Sasà’ Piscitelli, uno dei 13 morti, secondo i primi riscontri, a causa dell’abbuffata di medicinali.

Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze gratuite hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano chiesto in una lettera resa pubblica a giugno di sapere la “verità” sulla sua scomparsa. Preferiscono restare anonime “per timore di ritorsioni”. 

E’ domenica 8 marzo quando inizia a ribollire il carcere di Modena coi detenuti che protestano anche per le restrizioni ai colloqui coi familiari. “A me dispiace molto per quello che è successo – è scritto nella prima delle due lettere – Io non c’entravo niente. Ho avuto paura…Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”.

I pestaggi, stando a questa testimonianza, sarebbero proseguiti durante il viaggio verso Ascoli dove “Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e “buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa”. “E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce”. Il secondo detenuto conferma che “Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato”. Sostiene inoltre che nessuno dei compagni di viaggio sia stato visitato dai medici, come sarebbe stato obbligatorio per il ‘nulla osta’ per  il trasferimento. 

La Polizia penitenziaria, nessuna violenza gratuita, situazione era devastante

La parte del racconto sui pestaggi viene negata da Gennarino De Fazio, segretario nazionale Uilpa  della polizia penitenziaria, che invita a riflettere invece su altre possibili mancanze nella gestione della protesta. “Mi sento di escludere che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che parliamo di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire ‘legittima’ perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni”.

De Fazio sottolinea altri aspetti della vicenda: “Il fatto che i detenuti siano arrivati così facilmente alle infermerie degli istituti e si siano approvvigionati di metadone con così tanta facilità dimostra che qualcosa è mancato. Si aveva l’obbligo di rendere più sicure le infermerie? Non impedire la commissione di un reato, per il nostro codice penale, equivale a cagionarlo. Non è possibile che siano morte in questo modo 13 persone”. “Segnaleremo queste testimonianze alla magistratura – dice la direttrice del carcere di Modena, Maria Martone – è giusto che si accerti quello che è successo, non abbiamo nulla da nascondere”. 

Gli avvocati della famiglie, troppo facile l’accesso all’infermeria

Sui fatti di Modena la Procura ha aperto un’inchiesta complicata dalla morte improvvisa, l’11 luglio scorso, del procuratore capo Paolo Giovagnoli. Alcune famiglie dei reclusi hanno deciso di affidarsi ai legali che già assistevano i loro congiunti in questa indagine.

Luca Sebastiani, avvocato di Hafedh Chouchane, racconta la difficoltà a comunicare il decesso ai parenti del suo assistito: “Se non fosse stato per me, la sua  famiglia tunisina, mamma e fratelli, non avrebbe saputo della sua morte. Ho impiegato diversi giorni a rintracciarli attraverso il consolato. La sua morte mi ha sconvolto, era un ragazzo di 36 anni, sempre sorridente, ne ho un bel ricordo. Avrebbe beneficiato a breve della liberazione anticipata, avevo appena depositato l’istanza. Nel giro di un paio di settimane sarebbe uscito, pensava al futuro, a un lavoro. Non aveva un’indole violenta, mi è sembrato strano sia finito in episodi turbolenti”.

Tommaso Creola, legale di Artur Luzy, moldavo di 31 anni,  in carcere per rapina, spiega di avere aiutato i familiari a recuperare la salma del giovane: “Non so se siano state commesse delle negligenze nella gestione della rivolta, a Modena di solito lavorano bene, era una situazione molto particolare. La magistratura darà delle risposte”. Lorenzo Bergomi,  legale di Ahmali Arial, marocchino di 36 anni, riferisce “di avere avuto un contatto coi familiari interessati al recupero della salma, poi più nulla”. Afferma “che a molti che si dice abbiano partecipato alla rivolta ora vengono negati i benefici, anche se non sono indagati e non hanno procedimenti disciplinari in corso. Uno di loro è stato riportato in carcere mentre stava scontando la pena ai domiciliari per il sospetto che abbia partecipato perché nella sua cella con altre 3 persone  è stato trovato un coltello rudimentale e si trovava nella zona dove hanno sfondato il cancello. ‘Lo abbiamo fatto perché bruciava tutto’, mi ha assicurato, negando che il coltello fosse suo.”.

 L’informativa in Parlamento non fa cenno alle cure mediche

Un aspetto da chiarire è quello delle visite mediche. In un’informativa inviata  al Parlamento, Franco Basentini, all’epoca capo del Dipartimento amministrazione giustizia, scrive che gli I agenti “riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti”. Non si fa cenno in questo passaggio ad alcuna visita medica. I familiari di Piscitelli, in particolare una giovane nipote che ha chiesto ai pm tramite l’avvocato Antonella Calcaterra di sapere come abbia perso lo zio, pensano che forse si sarebbe potuto salvare se fosse stato visitato prima di essere portato nelle Marche. Non è chiaro nemmeno dove sia morto: fonti interne al carcere affermano che sia sia spento nell’ospedale di Ascoli, al cui ingresso non avrebbe presentato segni di intossicazione né lesioni compatibili con violenze, a differenza del detenuto che parla di un decesso in cella preceduto da un forte malessere.

A Bologna la Procura chiede di archiviare 

Nella protesta al carcere di Bologna del 9 e 10 marzo è morta una persona, Kedri Haitem, 29 anni, tunisino. La Procura ha chiesto nei giorni scorsi l’archiviazione del fascicolo aperto a carico di ignoti con l’ipotesi di ‘morte in conseguenza di altro reato’. Secondo il pm Manuela Cavallo,  “la ricostruzione dei fatti più plausibile è che la persona deceduta, già destinataria di farmaci per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere due giorni prima durante la rivolta dei detenuti  e che sia morto per overdose”.

La sera del 10 marzo il ragazzo tunisino al compagno di cella  confida che “durante la rivolta ha assunto farmaci”, dice che è stanco e che vuole dormire e  a lungo. Alle 12.40 altri detenuti entrano nella cella per parlargli. Il compagno prova a svegliarlo  ma si accorge che non respira più. Solo a quel punto, secondo questo testimone, viene perquisita la cella e sotto il materasso del ragazzo morto vengono trovate 103 pasticche e 6 siringhe. L’unica parte offesa nel procedimento, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ha chiesto copia degli atti e non ha ancora comunicato se farà opposizione all’archiviazione.

Sulla ribellione di Bologna, l’AGI ha raccolto le parole di un uomo nel frattempo uscito di prigione e ospite di una comunità di recupero: “I detenuti albanesi – dice il testimone – hanno fatto partire tutto in modo strumentale, gli altri africani gli sono andati dietro distruggendo tutto e minacciando di morte chi non avesse partecipato. Altri si sono chiusi nelle celle sbarrandole coi letti, intanto alcuni hanno assalito l’infermeria prendendo tutto quello che c’era”.

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