È bene ridurre il numero dei parlamentari?

Politica

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di Federico Girelli*

Il Parlamento ha approvato la riduzione del numero dei parlamentari.

La Camera dei deputati scende da 630 membri a 400; il Senato della Repubblica da 315 componenti elettivi a 200.

Circa i senatori a vita, la riformulazione dell’art. 59 Cost. pare evidentemente volta a chiudere in senso restrittivo l’annosa quaestio interpretativa sul numero di senatori che ogni Presidente della Repubblica può nominare.

La riforma, però, non è attualmente in vigore: poiché in Senato in seconda deliberazione non è stata raggiunta la maggioranza di due terzi dei componenti, così come prevede l’art. 138 Cost., si è potuto richiedere un referendum affinché gli elettori decidano se debba entrare in vigore o meno la revisione costituzionale approvata dalle Camere.

Il Presidente della Repubblica con decreto del 17 luglio 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del successivo 18 luglio, ha indetto tale referendum che si celebrerà nei giorni 20 e 21 settembre 2020.

Resta fermo che la riforma, qualora ricevesse il “via libera” popolare, per essere realmente operativa esigerebbe un ulteriore intervento sul testo della Costituzione, la modifica della legge elettorale ed anche dei regolamenti parlamentari.

Quel che perplime è lo spirito che ha sorretto questa revisione della Costituzione.

Il risparmio economico all’interno del complessivo bilancio dello Stato è pressoché impercepibile, considerato soprattutto l’impatto sistemico della modifica. Il punto è che la democrazia ha dei costi, non è gratis. Quel che è in gioco è la tenuta di un’autentica rappresentanza politica, che per definizione è una fictio, ma, poiché è strumentale all’esercizio della sovranità (che appartiene al popolo), per poter essere accettata, dev’essere una finzione credibile: per questo la molteplicità è consustanziale alla rappresentanza politica.

La risposta alla crisi che indubbiamente attraversa oggi la rappresentanza politica – e che, per ciò solo, è crisi della stessa democrazia contemporanea – non può essere meno, bensì più rappresentanza.

La vita democratica ha le sue dinamiche: vive di confronto, di accordo, di mediazione, di ricerca del consenso. Se la riduzione del numero dei parlamentari fosse il prezzo da pagare per acquisire o consolidare il consenso necessario per poter fare le cose che veramente servono, in modo che, entrata in vigore la riforma, si aprisse uno scenario in cui i ponti non crollano, gli appalti non si impantanano, gli ospedali funzionano, le scuole funzionano, il contingente necessario di insegnanti di sostegno specializzati è in servizio sin dal primo giorno di scuola e così via, le perplessità suscitate da questa riduzione introdotta sic et simpliciter, forse potrebbero anche essere superate. Ma un intervento fatto al solo fine di acquisire consenso, si appalesa intrinsecamente demagogico e presta il fianco anche ad inquietanti suggestioni oclocratiche.

Suscita non poca preoccupazione l’eventuale saldatura tra la riduzione del numero dei parlamentari e l’intento (per ora solo dichiarato) di sopprimere il divieto di mandato imperativo. Si prefigura, infatti, un “Parlamento” composto da meri esecutori di volontà altrui, i quali, proprio perché “pochi”, sarebbero anche più facilmente controllabili. Andrebbe, invece, tenuto ben presente che la “libertà” di mandato (unitamente alle immunità parlamentari) resta forse l’ultimo usbergo di fronte al sempre più penetrante condizionamento di poteri esterni al circuito democratico.

Che cosa serve allora: serve una classe politica che sappia correttamente (e con coraggio) interpretare il proprio ruolo per come definito in Costituzione e che sembra nitidamente emergere nelle parole che scriveva Edmund Burke nel 1778 in risposta all’accusa di non difendere gli interessi dei suoi elettori: «preferivo molto di più correre il rischio di dispiacerli che di arrecar loro pregiudizio».

* Professore di Diritto Costituzionale

Università degli Studi Niccolò Cusano – Roma

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