Dalla strage di Matera all’armadio della vergogna

Basilicata

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Quando si parla di stragi naziste in Italia, quasi sempre, i fatti e i responsabili conducono tutti al cosiddetto “armadio della vergogna”, di cui si dirà. Non fa eccezione quella avvenuta il 21 settembre 1943 a Matera.

Dopo l’annuncio dato alla Nazione della firma a Cassibile (in realtà siglato giorni prima) dell’armistizio concesso dagli Alleati, ed in seguito allo sfaldamento delle linee di comando del nostro esercito, Matera si rese protagonista della prima sommossa del sud Italia contro le forze germaniche in via di ritirata.

Quando gli uomini appartenenti alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (un corpo di gendarmeria a ordinamento militare e, dal 1924 una autonoma forza armata dell’Italia fascista), abbandonarono il palazzo sede del loro comando, ivi si insediarono militari paracadutisti germanici al comando del maggiore Wolf Werner Graf von der Schulenburg.

Più i giorni passavano e più i rapporti tra la popolazione e i tedeschi si facevano tesi. Non mancarono sparatorie e carcerazioni di cittadini. Le persone arrestate erano rinchiuse nell’ex caserma della MVSN di cui si è detto. Da un campanile un cittadino, tale Nicola Di Cuia sparò contro militari tedeschi che si stavano avvicinando alla Prefettura, mentre nei pressi della caserma della Guardia di Finanza la tensione si acuì tanto che alcuni finanzieri dovettero correre in aiuto dei cittadini materani. In quell’occasione rimasero uccisi il finanziere Vincenzo Rutigliano (insignito della medaglia di bronzo al Valore Militare e cui è dedicata l’attuale Caserma cittadina della Guardia di Finanza), il civile Emanuele Manicone, che nel frattempo era stato incaricato dai finanzieri di guardia al magazzino centrale di chiamare i rinforzi presso il Comando, e il dottor Raffaele Beneventi, farmacista. I paracadutisti tentarono anche di prendere possesso dei locali della compagnia elettrica allo scopo di togliere corrente alla città uccidendo i civili Raoul Papini, Pasquale Zigarelli, Michele e Salvatore Frangione e ferendo Mirko Cairola.

Prima di abbandonare la città e risalire la Penisola gli uomini di Wolf Werner Graf von der Schulenburg fecero saltare il palazzo della ex Milizia con al suo interno sedici persone arrestate nei giorni precedenti: i civili Francesco Farina ed il figlio Natale, un soldato materano di ritorno dal fronte Pietro Tataranni, il sedicenne Vincenzo Luisi, quattro uomini di Martina Franca, accusati di essere spie inglesi, e otto militari imprigionati nei giorni precedenti e accusati di diserzione e tradimento.

Nell’esplosione morirono tutti tranne un soldato di nome Giuseppe Calderaro che i Vigili del Fuoco estrassero ferito dalle macerie il giorno successivo a quello dell’esplosione.

 Documenti dell’eccidio sono stati rintracciati nell’armadio della vergogna di cui è bene fare qualche cenno.

Nel 1994 il procuratore militare Antonino Intelisano, stava facendo ricerche archivistiche ai fini dell’istruttoria del processo intentato contro l’ufficiale delle SS Erich Priebke, quando in un armadio posto in uno dei locali di palazzo Cesi-Gaddi in via degli Acquasparta in Roma fu rinvenuta una notevole quantità di fascicoli d’inchiesta riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale. Si trattava, esattamente di 695 dossier e un Registro generale riportante 2274 notizie di reato, raccolte dalla Procura generale del Tribunale supremo militare, tutti riguardanti i crimini commessi in Italia da truppe nazifasciste. Detto armadio per decenni non destò sospetti, eppure avendo le ante rivolte verso il muro qualche curiosità avrebbe dovuto suscitare. In parole povere fu un esempio di insabbiamento di procedure penali di cui si resero responsabili la politica e magistratura militare, tutti all’ombra di “ordini superiori” dettati dalla ragion di Stato. A premere affinché si arrivasse a una spiegazione di tal vergogna, ci pensarono alcuni giornalisti d’inchiesta, vale a dire Franco Giustolisi e Alessandro De Meo, i quali attraverso i loro articoli resero incalzante l’opinione pubblica e le varie associazioni delle vittime di crimini di guerra. Tutto ciò costrinse il Consiglio della magistratura militare da parte sua (1999) e la Commissione Giustizia della Camera dei deputati (2001) ad ammettere che, in effetti, la gestione di quei fascicoli era stata esercitata non in linea con il normale iter giudiziario. Si ravvisò, in tale occasione, che l’opportunità politica del momento sconsigliava di procedere contro tanti criminali tedeschi, anche perché, come concluse la Commissione Parlamentare d’Inchiesta nel 2006, con la Germania conveniva mantenere buoni rapporti, rappresentando, in quegli anni di “guerra fredda” un argine all’avanzata della cultura e della politica dell’Unione Sovietica.

 Non solo, era stato opportuno sottoscrivere un patto di “gentlemen’s agreement” tra stati, nella considerazione che anche gli “italiani brava gente” avevano scheletri nell’armadio, in fatto di violenze, in Jugoslavia, Grecia, Albania ed  Etiopia. Senza contare, poi, la meritoria attività di spionaggio svolta da ex nazisti incorporati nei servizi segreti occidentali.

In conclusione, per il supremo bene della Patria prevalse un esempio di malagiustizia, o giustizia negata.

A proposito, in quell’armadio, in uno dei tanti faldoni c’era il nome di Wolf Werner Graf von der Schulenburg, il responsabile dei fatti di Matera.

Giuseppe Rinaldi

redazione@corrierepl.it

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