Marketing dell’immigrazione. Nuova truffa europea

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L’invereconda tracotanza europea si manifesta anche sul piano semantico. Tanto per dirne una, è stata resa nota la nuova strategia per l’immigrazione, con una serie di misure indegne sul piano della civiltà, ma questo non stupisce, come su quello della efficienza ed efficacia.

Per venderle la Commissione ha pensato di dar loro il titolo pomposo di  “nuovo patto sull’immigrazione e l’asilo”, a suffragare la menzogna di una alleanza volontaria organizzativa, politica e morale tra i partner, incentrata  su  tre “pilastri”: collaborazione con i paesi di partenza, maggiore controllo dei confini e un sistema di solidarietà che introduce un meccanismo di  sponsorizzazione dei rimpatri  nel caso di rifiuto del ricollocamento.

Si sfiora il ridicolo quando si parla di collaborazione con i paesi di partenza come se fosse plausibile parlare di stati dotati di sovranità, apparato statale e istituzionale, interlocutori che possiedono il mandato per negoziare secondo le regole del diritto internazionale e non  di tiranni sanguinari, di burattini nelle mani di potenze straniere.

Un esempio nostrano fa scuola, anche se non ci colloca in una posizione privilegiata: siamo sempre propaggine africana antropologicamente  assimilabile a quel contesto barbaro, immeritevole di riconoscimento della sua condizione geografica e  dei suoi problemi.

Siamo stati noi esemplarmente a costituire un precedente a sostegno del pilastro con la firma (Governo Gentiloni) e la successiva replica (Conte 2) senza variazioni, del memorandum di intesa con la Libia, una delle pagine più vergognose della storia di questi anni,  che  prevede che il governo italiano fornisca aiuti economici e supporto tecnico alle autorità libiche (in particolare alla famigerata Guardia costiera i cui membri sono stati accusati ripetutamente dalle agenzie Onu, di traffico e detenzione di esseri umani), nel tentativo di ridurre il traffico di migranti attraverso il Mar Mediterraneo. Mentre in cambio la Libia si “impegna” a migliorare le condizioni dei propri centri di accoglienza per migranti, quei lager dove nell’indifferenza generale  languiscono e muoiono migliaia di disperati.

Si sfiora il ridicolo, quando si parla di controllo dei confini, partica nella quale primeggiano le cancellerie, dalla Francia che, forte dell’esperienza di Calais trasferita anche a Ventimiglia, respinge gli arrivi molesti in mare e pure sulle Alpi innevate,   alla Germania che ha prodotto una eroina che svolge aiuto umanitario alla stregua della Merkel, considerando i nostri porti approdo sicuro  nel quale scaricare i poveretti, incurante della sorte successiva al fortunoso sbarco, a riconferma che spetta all’Italia l’onere dell’ospitalità.

L’obiettivo infatti consiste nel  prendere «decisioni rapide in materia di asilo o rimpatrio» introducendo   «una procedura di frontiera integrata», che «per la prima volta comprende uno screening pre-ingresso che copra l’identificazione di tutte le persone che attraversano le frontiere esterne dell’Ue senza autorizzazione o che sono state sbarcate dopo un’operazione di ricerca e salvataggio  e  un controllo sanitario e di sicurezza, rilevamento delle impronte digitali e registrazione nella banca dati Eurodac». Poi, una volta selezionato il modesto target dei meritevoli d’asilo, gli altri saranno rimpatriati.

E non si sfiora il ridicolo, ci si casca proprio dentro, con quella incredibile proposta – in questo caso si fa uso dell’eufemismo – per cui al posto di tratta degli schiavi si parla di sponsorizzazione dei rimpatri  dei migranti sbarcati in altri paesi Ue, come alternativa alla ricollocazione nel proprio. Questo «nuovo concetto» della solidarietà obbligatoria fra Stati membri.  prevede dunque un sistema di contributi flessibili da parte dei partner che potranno aprire le porte alla ricollocazione dei richiedenti asilo dal Paese di primo ingresso”, ma anche farsi carico del rimpatrio “di persone senza diritto di soggiorno” (con contributi da 10 mila euro a persona).

Insomma con la sponsorship dei rimpatri, “gli Stati membri forniranno tutto il sostegno necessario allo Stato membro che si trova sotto pressione per rimpatriare rapidamente coloro che non hanno diritto di restare” sul territorio dell’Ue. E per mettere a frutto l’esperienza dei fondi (quasi 5 miliardi) offerti alla Turchia per fronteggiare gli sgraditi arrivi, si ipotizzano partnership coi Paesi extra-Ue, per sostenerli nell’affrontare il “traffico di migranti”, sviluppando  percorsi legali “a pagamento”, come avvenne appunto quando Erdogan venne autorizzato ai respingimenti verso la Grecia.

C’era da aspettarselo che, una volta superata dalla minaccia del Covid, la pressione esercitata dallo shock a ripetizione dell’invasione, del meticciato, della minaccia islamica, l’immigrazione venisse affrontata con le azioni e gli strumenti concreti e ideologici del neoliberismo, temperando con i meccanismi di mercato i danni prodotti dal mercato (quello che esporta armi e importa schiavi, che depreda risorse per alimentare i consumi di popolazioni ancora risparmiate dal colonialismo, che pure sta esercitandosi nei contesti interni).

Tutto si tiene e quindi ritornano in auge gli slogan farlocchi della cooperazione – e anche in quella l’Italia vanta dei tristi primati in scandali e ignominie impunite: aiutare i governi a aiutare i loro popoli (mi correggo, questo è fresco di giornata), non regaliamogli i pesci ma la rete per catturarli, in modo da legittimare scorrerie umanitarie, trasferimenti del nostro knowhow in materia di corruzione, sfruttamento dissennato, sviluppo insostenibile, occupazione dei loro territori con fabbriche inquinanti, rifiuti tossici, produzioni illegali da noi.

Basta guardare alle statistiche dell’organizzazione  Honest Accounts che denunciano come i paesi africani ricevano circa 19 miliardi annui in  donazioni, ma oltre il triplo di questa somma  scorre via in fiumi illegali grazie a elusioni, falsificazioni e traffici illeciti e opachi da parte delle multinazionali.  Nel continente arrivano in rimesse dall’estero circa 31 miliardi, ma le multinazionali straniere  riportano circa 35 miliardi di profitti nei loro paesi di provenienza o nei paradisi fiscali. E tanto per citare un dato che dovrebbe interessarci per la sua inquietante affinità con noi, i governi africani nel 2017 hanno ricevuto circa 36 circa miliardi di dollari in prestiti ma hanno pagato 20 miliardi per gli interessi.

Si tratta di geografie che dispongono di risorse che dovrebbero permettere di garantire condizioni di vita dignitose a tutti gli  abitanti, cibo, acqua,  assistenza sanitaria, istruzione, lavoro e salari  adeguati), ma che da anni e anni sono sfruttati dal colonialismo vecchio e nuovo, aggravato  dalle regole del neoliberismo che hanno costretto i governi a indebitarsi sempre di più, a accettare i diktat del Fondo Monetario e dei paesi creditori, riducendo la propria sovranità economica e politica.

Basterebbe questo a farci capire che il problema dell’immigrazione è un nostro problema non perché dobbiamo essere solidali in un’area che avrebbe ritrovato con le elemosine promesse (che saranno rese inutili dalla nuova austerità) il suo afflato coeso e civile disegnato dai padri fondatori, anche quelli incarnazione di una cerchia elitaria e schizzinosa, non perché ci “invadono”, non perché i nostri lavoratori sono minacciati dalla concorrenza di un esercito di riserva disposto a accettare sotto ricatto condizioni e remunerazioni inferiori e precarie, non perché ci rubano i posti nei quali pensavamo di non dover mai faticare.

E’ un nostro problema  perché il tallone che pesa su di noi è lo stesso, perché il trattamento che viene riservato al Terzo Mondo esterno è lo stesso che si presenta e già si consuma nel Terzo Mondo interno all’Ue – noi i periferici, gli indolenti, i parassitari secondo la legge scritta dai frugali- e dentro al nostro Paese.

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