Chi autorizza il rientro a scuola dopo la malattia? I pediatri: «Siamo al delirio»

Scuola, Formazione & Università

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#Covid19

Luca Cereda

Visite o autodichiarazioni: ogni regione con il rientro a scuola dei ragazzi fa a modo suo. I medici sul piede di guerra: «l problema sono le attese per i tamponi, ci auguriamo che nelle prossime settimane un modello unitario di azione sia ufficializzato dall’Istituto superiore della sanità»

«La situazione che come pediatri stiamo vivendo in queste settimane rasenta il delirio». Parole, che sono la testimonianza diretta di cosa stanno vivendo i medici pediatri oggi, del dottor Rinaldo Missaglia, presidente di Simpef, il sindacato dei medici pediatri di famiglia.

Rinaldo Missaglia

Il telefono è rovente da quando è ricominciata la scuola ed «è lecito che sia così: i genitori sono preoccupati per i figli e per loro. Nonostante il virus monopolizzi da mesi le nostre vite non esistono linee guida, dei comportamenti, validi allo stesso tempo per tutti e decisi insieme. Esistono dei protocolli per gestire la propria nicchia: uno per i presidi, uno per gli insegnanti, uno per i ragazzi e uno per noi medici», spiega Missaglia. Questo però genera incertezza nei genitori.

Visite o autodichiarazioni: ogni regione fa a modo suo
Il decreto ministeriale 80/2020 di fine agosto parla esplicitamente solo della scuola dell’infanzia, e specifica che la riammissione di uno studente positivo al Covid-19 viene consentita ‘previa certificazione del pediatra’ ma nulla è previsto in modo sistematico. Le regioni, gli attori che più di tutti possono emanare le normative e rendere uniformi i comportamenti dei vari soggetti interessati dal ritorno a scuola, dagli studenti e le loro famiglie, alle scuole con i loro presidi, fino ai medici pediatri, procedono a tentoni e in modo difforme imponendo in caso di sospetto contagio da Covid-19, visite o autodichiarazioni.

«In quasi tutte le regioni ci si basa “sulla fiducia reciproca”, su un’autocerficazione, a meno che il bambino non fosse già in quarantena per il Covid precedentemente. Ma ogni regione fa a modo suo: in Sicilia c’è bisogno invece di un certificato medico da portare dopo dieci giorni, nel Lazio dopo cinque», analizza il presidente di Simpef. Sull’anno scolastico 2020/2021 aleggia infatti una nuova incognita: quella dei certificati medici per il rientro a scuola dopo le assenze.

Scuola

Caos sulle linee guida che non ci sono
«Ci auguriamo che nelle prossime settimane un modello unitario di azione sia ufficializzato dall’Istituto superiore della sanità così che si possa lavorare al meglio tutti quanti per l tutela della salute pubblica e dei ragazzi», chiosa il dottor Rinaldo Missaglia.

La Lombardia in proposito ha emanato un documento la scorsa settimana dichiara che se il pediatra non ritiene di far fare il tampone al ragazzo, non serve alcun certificato e il bambino può rientrare a scuola.

«Qualunque malattia sia, anche quella contratta a causa del Sars-Cov-2, dopo il periodo prescritto di degenza e di lontananza dalla classe, il bambino può e deve poter tornare a scuola. La visita e il certificato post-degenza è inutile e in molte regioni, come Simpef, siamo riusciti a tornare alla vecchia normativa che non prevedere una nuova visita». Secondo Missaglia, infatti, basterebbe un attestato al posto di un certificato: «Nel primo caso dichiaro che il bambino ha fatto un percorso seguendo le indicazioni del Ministero della salute e non serve che il paziente torni da me. Per il certificato invece è necessaria a livello legale un’ulteriore visita». E con non dovrebbe cambiare per il Covid: «Con il tampone negativo il ragazzo rientra in classe senza dover aspettare di fare una nuova visita».

Il problema dei tamponi
Il problema non è però solo quello dei certificati, ma quello dei tamponi: «In Italia tra il momento in cui il pediatra lo richiede e quello in cui riceve il referto passano almeno quattro-cinque giorni. Un tempo eccessivo per un test dove servono quattro ore per avere la risposta», continua il presidente di Simpef. Si parla di tre, cinque, dieci giorni per il certificato ma «se ho il risultato di un tampone nel giro di 36 ore, sono in grado di attestare la guarigione o meno del paziente anche prima. Le risorse non sono state investite per effettuare i tamponi in tempi rapidi. Siamo stati inascoltati ora sta scoppiando il caos». I tempi tra la richiesta del tampone da parte del pediatra e l’arrivo del risultati sono troppo lunghi. Questo denota una grave falla organizzativa ed il rischio è che si fermi il Paese, perché i genitori non possono lavorare e restano bloccati insieme ai figli, magari un’intera settimana per poi avere un risultato del tampone negativo.

Insomma, «il problema non è tanto di tipo sanitario perché, fortunatamente, nei bambini il Covid si presenta in forme più lievi ed i casi complessi sono limitati, ma piuttosto di tipo sanitario-organizzativo».

I contagi registrati a scuola non vengono in classe

Per quanto riguarda invece l’organizzazione scolastica volta a prevenire i contagi, ad oggi sembra funzionare molto bene: «I casi di positività rintracciati a scuola non nascono in aula ma sono stati portati dai rispettivi contesti di vita dei ragazzi. Anzi, per il momento la scuola è un argine alla creazione di focolai», spiega il presidente di Simpef. Questo significa che le procedure, come la distanza, l’uso della mascherina, il lavaggio delle mani e gli ingressi scaglionati, per quanto limitino l’anima sociale che la scuola incarna per i bambini e i ragazzi, funzionano ed evitano i contagi».

Strettamente correlata a questa situazione c’ quella dei vaccini antinfluenzali: «Quest’anno è bene che si vaccini il maggior numero di bambini possibile per evitare la concomitanza del Covid con i sintomi influenzali. I vaccini, però – sottolinea Missaglia – nella maggioranza delle realtà ancora non ci sono stati distribuiti». In Italia mancano 1,25 milioni di dosi di vaccino antinfluenzale. Tutto il quantitativo prodotto è stato assorbito dalle regioni per le categorie a rischio e – conclude – mancano le dosi per le categorie attive».

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