Trieste nell’hamburger

Politica

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Saranno circa una dozzina di anni che qualcuno – una sparuta pattuglia di persone – grida invano nel deserto e non cabale o arzigogoli o peggio ancora i luoghi comuni di cui si nutre l’informazione che disinforma, ma proprio l’ovvio, il minimo sindacale di una visione di futuro per questo Paese: infatti lo spostamento dell’asse economico  dall’Atlantico al Pacifico con la straordinaria ascesa dell’Asia come manifattura planetaria, rende di nuovo il Mediterraneo il centro di equilibrio gravitazionale geopolitico, come lo era prima della scoperta dell’America e dunque non bisognava tralasciare alcuno sforzo per cogliere questa occasione epocale cercando a tutti i costi di sviluppare una politica autonoma nelle acque del mare nostrum, di non perdere le posizioni acquisite nonostante lo scatenamento obamiano del caos tra Libia e Medio oriente, di puntare sull’adeguamento delle strutture portuali e sui rapporti con l’Asia, Cina in primis.

Una politica quasi elementare, ma purtroppo doppiamente vietata dagli Usa a causa della paura della Cina e anche dall’Europa dove dietro lo scenario del consenso e dell’accomodamento con le linee di Washington si nascondevano in realtà anche disegni di egemonia sia francesi che tedeschi.

Così dopo tanti tira e molla con la Cina sul porto di Trieste ostacolato in ogni modo dal succido partito amerikano che in Italia è presente in ogni ganglio istituzionale ed è imprescindibile per fare un qualunque tipo di carriera, paventando chissà quali conseguenze immaginarie, adesso lo scalo è stato comprato dal porto di Amburgo. Perciò tutto il traffico proveniente dall’Asia – che su Trieste potrebbe  aumentare in maniera esponenziale perché è lo scalo marittimo con il maggior pescaggio in Europa quindi adatto alle mega navi – farà semmai profitto per la Germania e non per l’Italia a cui se va bene spetterà qualche posto da camallo e poco più: sarà il Nord Europa a fare da ponte con l’Asia e non l’Italia che ne sarebbe molto più vocata sia geograficamente che culturalmente, godendo per giunta dello status di porto franco dello scalo ex italiano.

Non è poi affatto escluso che – come accadde per Gioia Tauro – l’acquisto non preluda affatto a una possibilità di sviluppo, ma anzi risponda al disegno di impedire che Trieste decolli per non mettere in pericolo i traffici dei porti tedeschi.  La differenza con un eventuale azionariato cinese del porto di Trieste sarebbe evidente anche a un imbecille sia perché una joint venture con i cinesi  avrebbe sviluppato molto di più il traffico ora dipendente dal bilanciamento con quello del nord Europa e in particolare con quelli della città stato di Amburgo, sia perché all’Italia sarebbe giunta una fetta di valore aggiunto molto più grande visto che non ci sarebbe stato un terzo incomodo ad imporre le proprie scelte e a esigere il proprio profitto. Last but not least nel caso i tedeschi intendano davvero investire ciò andrà ad influire  sugli equilibri già precari del Paese: adesso le regioni che chiedono un’autonomia al limite della secessione saranno molto più determinate al distacco perché in qualche anno la dipendenza di tutta l’area dall’economia tedesca, sarà tale da provocare una disaggregazione del Paese. Esattamente l’obiettivo che Berlino si è data e non da ieri.

Tutto ciò potrebbe sembrare esagerato per la proprietà di un porto, sia pure importante, ma in effetti questo atto chiude una delle poche chance economiche effettive e non illusorie che si presentano a un Paese venduto e svenduto a più non posso, in via di totale deindustrializzazione e poi perché la vendita di Trieste giunge dopo una lunga storia di rinunce forzate in virtù delle alleanze e dei vari vincoli esterni di cui siamo sempre più prigionieri: già alla fine del secolo scorso, nel 1997, i cinesi volevano acquistare il porto di Taranto, ma gli americani fecero fuoco e fiamme per evitarlo con il pretesto che si trattava di una base della Nato  e così Pechino cambiò rotta e acquisì la maggioranza del porto del Pireo, facendone lo scalo passeggeri di gran lunga maggiore di Europa e di fatto una delle poche attività economiche di rilievo rimaste in Grecia dopo il sacco del Paese perpetrato dall’Europa.  Sempre negli anni ’90, come accennato, i tedeschi comprarono Gioia Tauro non per svilupparla, ma anzi per evitare che si sviluppasse  e facesse concorrenza ai porti del Nord Europa, riuscendo a fare il proprio interesse e nello steso tempo accontentare gli americani terrorizzati dall’idea di dover cedere parti di dominio sul mediterraneo. Abbiamo quindi perso l’occasione per un grande sviluppo del Mezzogiorno solo per accontentare amici e padroni che peraltro avevano già immaginato la crescita di traffici Asia Europa e quindi hanno provveduto a prendere i posti in prima fila, mentre i legittimi proprietari tramite governi subalterni si facevano da parte. E per giunta dobbiamo anche sentire le ramanzine idiote sul sovranismo, prodotte  dai servi sciocchi di due padroni.

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