“Dio, se sulla terra ci hai già dato la musica, cosa ci rimarrà per il Paradiso?”

Arte, Cultura & Società

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“Che bella cosa è na jurnata e’ sole, n’aria serena doppo na tempesta…” Così da piccola, annoiata, ascoltavo mio padre cantare “O sole mio”, che non era esattamente ciò che a quell’età potessi definire il mio genere di canzone. Credevo che solo una cosa potesse essere bella: quella che piaceva a me. Mio padre non ha mai rinunciato all’ascolto di “O sole mio” o “Reginella”; lavorava tutto il giorno, la sera guardava la tv e la domenica, quando tornavamo in paese, ascoltava la musica napoletana, esattamente come chiunque altro, tutti infatti ascoltiamo la musica che amiamo appena ne abbiamo la possibilità e tutti affermiamo che abbia un ruolo determinante nella nostra vita e nelle nostre relazioni. In questo vi è senz’altro una componente poetica e romantica del “sentire” la musica: avvertiamo che le cose stanno così e questo ci basta e poco importa se Platone ammoniva i giovani dall’ascoltare la musica, che, a suo avviso, poteva corromperli ed allontanarli dall’impegno civile.

Sì, avete proprio letto bene: una cosa che è universalmente riconosciuta come bella può, secondo Platone, distogliere, deviare l’attenzione dei giovani, perché suscita emozioni difficili da controllare e minaccia l’ordine gerarchico tra le varie parti dell’”anima”. Ora, che si sia platonici o aristotelici, tutti noi sperimentiamo la peculiarità di questa forma d’arte, quella cioè di proiettarci d’incanto in una dimensione diversa, che resta sempre parallela rispetto al reale e che, ad onta di quanto sostenesse Platone, è proprio la ragione per la quale alle volte vi ricorriamo. Nessuno di noi però è in grado di descrivere quale sia la dimensione a cui attinga, da dove provenga, perché non siamo in grado di vederlo. Certo, gli scienziati potrebbero darci una risposta, la religione pure ma, per l’esperienza che della musica fa la maggior parte di noi, essa rimane avvolta nel mistero, poiché è in grado di darci piacere senza che si sia in grado di coglierne il fine ultimo, ammesso che ve ne sia uno.

Un anonimo credente scrisse: “Dio, se sulla Terra ci hai già dato la musica, cosa ci rimarrà per il Paradiso?”.

Da non credente potrei invece pensare ad una sua funzione riequilibratrice dell’armonia perduta durante lo scorrere dinamico della quotidianità, una sorta di contraltare che consoli i nostri istinti dalla relatività in cui siamo immersi. Eppure, mentre scrivo, mi pare di essere così parziale, così banale ed incapace di cogliere la verità di quest’arte, tanto impenetrabile quanto presente nella sua immortale bellezza.

No, non vengo a capo del suo enigma che non risiede in un istinto o nell’altro o in una sfera o l’altra della conoscenza, quanto meno non di una conoscenza della realtà quotidiana. Eppure la produciamo noi, che in quella realtà viviamo e dalla quale traiamo ispirazione proprio per crearla.

La musica si compra e si vende, non ci fa essere migliori o peggiori, non ha una finalità che possa essere politicamente strumentalizzata, ci educa al bello senza lasciare traccia della sua bellezza, tanta forse è la distanza tra quella perfezione ed i nostri limiti e, con tutta evidenza, per amarla non è necessario saper rispondere alle domande a cui sopra ho fatto cenno. Credo anzi, che la si ami ancor di più col tempo, quando meno ne capiamo la verità, che invece ci deve essere vicina quando siamo bambini.

Ci appartiene con certezza, cambia con noi e riveste ruoli diversi in momenti diversi della nostra esistenza, riportandoci tal quale il nostro passato in spregio di tutte le regole che crediamo governino il tempo.

È questa una delle sue indiscutibili funzioni: restituirci il tempo che passa permettendoci, guardandolo ancora, di capirlo; ma la Sfinge forse si è rivestita di questa funzione solo per rispondere alla mia domanda. La Sfinge sono io che, dando le spalle allo specchio, non sono in grado di guardarmi pur rimanendo sempre io e per questo può apparirmi altro senza tuttavia esserlo.

La musica sfugge alle nostre definizioni per la stessa ragione per la quale è impossibile per noi definirci ed essere padroni di noi stessi pur non essendo mai altro da noi.

Rosamaria Fumarola

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