Darsi fuoco. Farsi torcia umana per scuotere le coscienze, per svegliare l’anelito di libertà sopito nei cuori impauriti del proprio popolo schiacciato dal potente invasore straniero. Era il 19 gennaio del 1969. Esattamente cinquantadue anni fa. Un giovane moriva alle ore 15:30, dopo tre giorni di agonia. 73 ore, per la precisione. Il suo nome era Jan Palach. Studente di filosofia, era nato a Praga l’11 agosto del 1948. Aveva dunque vent’anni da poco compiuti, quando vide i carri armati del Patto di Varsavia, inviati da Mosca per porre fine a quell’esperimento cecoslovacco di riforme e introduzione di libertà civili e politiche che è passato alla storia con il nome di “Primavera di Praga”. Il 20 agosto del ’68 la Cecoslovacchia era invasa da oltre 250 truppe e 2000 carri armati degli eserciti di quattro Paesi aderenti al Patto di Varsavia, sotto il comando di ufficiali sovietici. Mosca ribadiva così con ferocia la condizione servile del popolo cecoslovacco. Alla Cecoslovacchia veniva imposto nuovamente il ruolo di umiliato Paese satellite dell’imperialistica Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss).

Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Questo fu il suo modo di protestare contro l’occupazione sovietica. Nelle 73 ore di agonia Jan ebbe alcuni momenti di lucidità, tanto da avere notizia dell’eco internazionale che quel suo gesto estremo aveva suscitato. Riuscì anche a rilasciare alcune interviste. Pochissime parole, esalate dal suo corpo ustionato quale testamento delle ragioni che portarono ad un simile martirio.

Ragioni già espresse in modo lapidario nella lettera che trovarono nella borsa che quel corpo in fiamme aveva lasciato vicino a sé:

«Considerato che i nostri popoli si trovano sull’orlo della disperazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di svegliare il popolo del nostro paese nel seguente modo. Il nostro gruppo è formato di volontari, i quali sono decisi a bruciarsi vivi per la causa. Io ho avuto l’onore di essere estratto a sorte per primo, di avere così il diritto di scrivere la prima lettera e di cominciare ad essere la prima torcia. Le nostre richieste sono:

– Immediata abolizione della censura;

– Divieto di distribuzione del giornale “Zpravy” (il foglio delle truppe di occupazione, ndr.).

Se le nostre richieste non saranno accolte entro cinque giorni, cioè entro il 21 gennaio 1969, e se il popolo non esprimerà il proprio appoggio con uno sciopero illimitato, altre torce prenderanno fuoco. Non dimenticate che nel mese di agosto nella politica internazionale si è aperto un vasto spazio per la Cecoslovacchia. Approfittiamone.

Firmato: la torcia numero uno».

Quel plurale – «le nostre richieste» – rivelava una scelta corale, collettiva. Era stato infatti un gesto premeditato da un gruppo clandestino di studenti determinati ad opporsi al ritorno della dittatura comunista. In loro si univano amore di patria e amor di libertà, come in tutta la dissidenza anticomunista dell’Europa orientale. Quegli studenti avevano affidato al caso la scelta del primo martire, che doveva emulare il gesto, compiuto nel 1963, dal monaco buddhista Thich Quang Dùc, per protestare contro la repressione della propria religione da parte del cattolico Ngo Dinh Diem, allora presidente del Vietnam del Sud.

I funerali di Jan furono celebrati il 25 gennaio. Vi parteciparono circa 800.000 persone, provenienti da tutta la Cecoslovacchia. Jan Palach divenne il simbolo della resistenza contro l’Unione Sovietica. Ma Enzo Bettiza, all’epoca corrispondente per il “Corriere della Sera” diretto da Giovanni Spadolini, ci ricorda che «la torcia umana dello studente boemo […] segna l’acme più impressionante di una sequela di giovanili autosacrifici contro l’occupazione sovietica. Non tutte le vittime dell’ondata suicida hanno cercato d’incendiarsi e non tutte sono decedute. Palach […] ha in qualche modo evocato e glorificato il rogo che nel 1415 aveva incenerito il corpo dell’eroe riformatore Jan Hus. Il rifiuto del sopruso, la protesta contro la legge del più forte, devono aver unito spontaneamente nella fantasia popolare l’immagine dei due Jan, il grande eretico e lo studente patriota, divorati l’uno e l’altro dal fuoco. In questo momento è il cadavere di Palach carbonizzato il simbolo della tragedia nazionale e della resistenza al papismo rosso della Terza Roma» (E. Bettiza, La primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata, Mondadori, Milano 2008, p. 21).

Su questo abbinamento storico e simbolico tra lo studente boemo e lo scomunicato Hus, arso vivo per il suo dissenso rispetto al mercimonio delle indulgenze perpetrato dalla Chiesa di Roma, Francesco Guccini incentrerà la propria dedica musicale al sacrificio di Jan Palach, componendo il brano Primavera di Praga (1970, dall’album Due anni dopo). D’altro canto, lo studente boemo era di religione evangelica e inoltre, aggiunge sempre Bettiza, che ci ha consegnato una memorabile cronaca di quel funerale, «apparteneva a un particolare filone patriottico del protestantesimo hussita, quello della Congregazione dei fratelli cechi» (ivi, p. 153). Lo stesso pastore evangelico che officiò la cerimonia funebre del 25 gennaio evocò nell’orazione finale il martirio di Hus. E all’obiezione del grande giornalista italiano (morto nell’estate del 2017), che faceva notare che di un suicida comunque si trattava, il pastore rispose nei seguenti termini: «Questo che abbiamo onorato e consacrato oggi non è un suicidio comune. È una protesta. È un sacrificio consumato sull’altare della nazione che resterà luminoso per sempre e non solo per noi. È qualcosa di vivo e attivo che Dio non può non accogliere. Perfino le Sacre Scritture distinguono il suicidio di Giuda da quello di Salomone» (ibid.).

Molti altri imitarono il gesto del ventenne Jan, o tentarono di farlo. Una sua amica e coetanea, Blanka Nacházelová, si uccise col gas, lasciando un biglietto doveva aveva scritto: «Muoio per gli stessi ideali per i quali si è sacrificato Jan, anche se mi manca il coraggio di togliermi la vita col fuoco come lui». Sempre nei giorni successivi alla morte di Jan, per la precisione tra il 23 e il 25 gennaio del 1969, un altro giovane, Emanuel Sopko, meccanico di 23 anni, tentò anch’egli di darsi fuoco. Ne riportò ustioni di secondo grado, ma non morì. E, con loro, altri nomi ancora, tutti di giovanissimi: Mila Kadler, Joseph Hlavaty. E l’esempio varcò i confini e si diffuse nel tempo all’interno del blocco sovietico. Ad esempio, il 18 agosto 1976 il pastore evangelico Oskar Brüsewitz si sarebbe cosparso di benzina, dandosi poi fuoco per protesta contro l’oppressione dei cristiani nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR) e contro la collaborazione delle alte cariche della Chiesa con il regime.

In realtà Palach non fu nemmeno il primo a farsi fiamma per avvampare di libertà il paradiso in terra sovietica che, come ogni sogno di palingenesi umana per via politica, si trasforma ineluttabilmente in un incubo apocalittico, catastrofe senza redenzione. Il primo fu un uomo sui quarant’anni, nazionalità ucraina, Vasyl’ Makuch, il quale si dette fuoco davanti a tutti in pieno centro di Kiev, per protestare contro l’invasione di Praga e la russificazione del suo Paese. Come ricordano Dario Fertilio ed Olena Ponomareva nel loro recente, bel libro Eroi in fiamme. Makuch e gli altri che sfidarono l’Urss (Mauro Pagliai Editore, Firenze 2020), «salta agli occhi un particolare: la data»:

L’allora sconosciuto Vasyl’ Makuch agì poco più di due mesi dopo l’ingresso dei carri armati sovietici in Cecoslovacchia, quando verosimilmente lo studente ceco non aveva ancora nemmeno concepito il suo progetto suicida, e mentre la repressione era ancora in corso. Soltanto i Sette di Mosca, e poi l’altra torcia umana, il polacco Ryszard Siwiec, avevano osato mettersi in gioco prima di lui. Nemmeno sappiamo se Jan Palach nel gennaio del 1969 fosse a conoscenza di quei precedenti, sicché le autoimmolazioni di Siwiec e Makuch gli siano servite da esempio (ivi, p. 10). 

Giustamente Fertilio e Ponomareva si pongono il seguente quesito:

Siwiec, Makuch, Palach: questa trinità del martirio coscientemente affrontato ci si offre oggi come un simbolo di qualcosa che non è facile mettere a fuoco. Se infatti è comprensibile, entro certi limiti, l’autoimmolazione eroica, capace di scuotere le coscienze, risulta più difficile afferrare le motivazioni del gesto di chi non poteva non prevedere che il suo sacrificio sarebbe stato cancellato da qualsiasi libro di storia, e rimosso dalla coscienza collettiva.

E concludono in modo altrettanto condivisibile: «Non rimane dunque che interpretare ciò che è accaduto come l’affermazione solitaria di un’idea, e di una necessità personale indifferibile. […] Il suo dunque non fu un gesto emotivo, disperato, frutto di un momento di esaltazione autolesionistica. Makuch sentiva di dover agire in quel modo per non tradire se stesso, e non sottrarsi alla necessità di una radicale testimonianza personale» (p. 11). Ricordare qui Palach significa pertanto trasmettere alle nuove generazioni la memoria di numerosi eroi, più o meno giovani, che tali furono perché sacrificarono la propria vita in nome di qualcosa che oggi appare superfluo, come la libertà politica e l’indipendenza nazionale, eppure resta precondizione per una vita che sia umana, che sia degna di tal nome. 

A spiegarne bene il significato più profondo è lo stesso Palach, il quale, come detto, riuscì in ospedale a rilasciare qualche dichiarazione. Di una esiste un video che circola in rete anche con traduzione italiana. Un documento che ancor oggi, cinquant’anni dopo, commuove e indigna. L’intervistatrice (la voce fuori campo pare infatti femminile) chiede:

«Perché l’hai fatto?»

Jan risponde, ansimando di dolore, con il poco fiato che gli resta in gola:

«Volevo esprimere il mio dissenso per quello che sta accadendo, ridestare la gente».

Voleva che fosse abolita la censura. Che non fosse più trasmesso il notiziario filosovietico, voce del padrone oppressore. E alla domanda se pensava che quanto fatto potesse bastare a scuotere l’opinione pubblica nazionale e internazionale, Jan rispondeva, quasi esalando le parole:

«Non vogliamo essere presuntuosi… Semplicemente, non dobbiamo pensare troppo a noi stessi. L’uomo deve lottare contro il male che riesce ad affrontare».

E qui vengono alla mente molte pagine di Tzvetan Todorov, esule bulgaro ed acuto pensatore, scomparso il 7 febbraio del 2017. Pagine dedicate al male del ventesimo secolo, il totalitarismo nero e rosso, l’universo concentrazionario dei campi nazisti e comunisti. Il pensatore bulgaro si chiedeva da dove potesse mai provenire quella prodigiosa forza interiore di resistenza che ha contraddistinto donne e uomini come Germaine Tillon, Etty Hillesum, Aleksandr Solženicyn, Varlam Šalamov. «Ciò che sembra aver giocato un ruolo decisivo nell’evoluzione dei nostri personaggi è l’incontro con un male vissuto come estremo», scrive Todorov, il quale aggiunge e conclude: «Tutto avviene come se il soffocamento suscitasse per reazione la forza intellettuale, come se la mancanza radicale di umanità preludesse alla sua manifestazione più evidente, come se fosse necessario essere espulsi dalla vita per raggiungerne il punto focale. Il dolore estremo genera allora la piena liberazione: dalla paura totale nasce il coraggio totale» (Resistenti, Garzati, Milano 2017, p. 208).

Che questo sia accaduto anche nella mente e nel cuore di un ventenne ci affascina e ci paralizza ancor di più, perché ha ragione sempre Todorov: «il prezzo di questa sublimazione è però elevato». Si tratta di «un cammino che la maggior parte di noi, ammirando quelli che vi s’impegnano, esita a intraprendere». Ma se i tempi non sono ancora estremi, per fortuna, ci viene chiesto qualcosa di meno, e dunque sostenibile: tenere accesso con le parole e i fatti il fuoco della libertà. E forse è l’unico caso in cui è cosa buona e giusta che gli incendiari abbiano la meglio sui pompieri.