Non siamo femministe: il cognome materno

Ora Legale & Diritti Umani

Di

Avv. Giovanna Barca

LE AVVOCATE ITALIANE

In questi giorni, due sono stati gli argomenti più discussi e su cui si  è focalizzata l’attenzione di parecchie donne, non solo giuriste: la questione della Consulta che si è interrogata se fosse giusto dare al figlio il solo cognome paterno, sulla questione di legittimità dell’art. 262 I comma, sollevata dal Tribunale di Bolzano, nella parte in cui non consente ai genitori di assegnare al figlio, nato fuori dal matrimonio e riconosciuto, il cognome materno; e quella della reintroduzione della dicitura “genitore1” e “genitore 2” sulla carta d’identità dei minori sotto gli anni quattordici, per garantire conformità al quadro normativo introdotto dal Regolamento UE  e per superare le problematiche applicative segnalate dal Garante della privacy sul decreto del 2019.

L’umanità intera, a mio avviso, sembra vivere una pressione enorme da parte delle istituzioni che continuamente scombussolano gli animi dei loro cittadini e cittadine, reinterpretano in maniera diversa i principi alla base del vivere civile, instaurando e prospettando sempre nuovi canoni, con la conseguenza nefasta, a volte, di creare un clima di incertezza e di non sicurezza nelle persone, che sentono messe in pericolo anche quelle certezze appartenenti alla loro sfera personale ed intima, alla propria identità personale.

La società cambia, il mondo cambia, ma quello che non dovrebbe cambiare è il diritto a proteggere la propria autenticità, il proprio essere, la propria vera personalità ed individualità.

Io mi sento madre, sono una madre, e voglio rivendicare il mio ruolo, nel rispetto delle libertà altrui, e devo, anche, sentirmi libera di attribuire il mio cognome al mio bambino.

Io non posso essere il riflesso di una società che, forse, mi vuole diversa, mi impone di adeguarmi a pensieri e considerazioni, lontani dal mio essere, che non riguardano regole e norme da rispettare, ma consuetudini radicate per retaggi culturali che vogliono che io perda la mia vera fisicità, la mia vera natura, la mia autenticità, la mia libertà di esprimermi.

Se, non vi sono pregiudizi per mio figlio, perché io non posso scrivere e riconoscermi madre, quale sono (sono spiacente per chi non lo è) ed indicarmi come tale e non con il termine di genitore 1 o 2, oppure riconoscere o aggiungere il mio cognome a mio figlio?

Non sono mica un numero, un’entità astratta?!

Non è più sicuro garantire al proprio figlio una certezza, e, quindi, rivendicando il proprio ruolo di madre su un documento, o attribuendogli il proprio cognome, che rivendica l’appartenenza ad una famiglia, alla sua storia, ai suoi caratteri genetici, radici sicure per la costruzione di una propria identità?

Mio figlio ha anche il mio cognome!  Sono considerata dalla società una aliena? E chissenefrega! Mio figlio è contento, quindi? Lo stesso figlio è contento di chiamarmi mamma e chiamare mio marito papà, quindi?

Ritornando al discorso del genitore 1 e 2, io condivido quanto sentito dalla mamma di Milano che si è rifiutata di scrivere genitore 1 sulla carta di identità del figlio, ricalcando il sostantivo di madre. Si è sentita svilita nel suo ruolo che ogni giorno con tanta fatica porta avanti! Non è una questione politica o religiosa, è una questione di sentire e di essere una madre! Che colpa le si può attribuire? Nessuna! Rivendica semplicemente e giustamente la sua identità!

Approfondendo, invece, da un punto di vista giuridico la questione del  diritto al cognome materno di un minore, allora credo che la disciplina del diritto al nome risulta, allo stato, discriminatoria in quanto nel nostro ordinamento vige  una “regola” non scritta, desumibile in modo implicito dal quadro normativo attuale, secondo cui vi sarebbe l’automatica trasmissione del cognome del padre ai figli non configurandosi spazio per un eventuale accordo di segno diverso tra i genitori  anche qualora gli stessi dimostrassero una volontà differente ovvero la volontà di attribuire ai figli il cognome esclusivo della madre e realizzando cosi un favor nei confronti di una vetusta forma di patriarcato. A tal proposito, infatti, si espresse così la Corte Costituzionale già con la sentenza n. 61/ 2006, asserendo che questa regola “costituisce un retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”.

Invero la tematica in oggetto ha radici profonde, malgrado i moniti della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale (non in ultimo pronunciatasi nel 2016 con la sentenza n. 286) e del giudice sovranazionale (Corte Edu con la sentenza del 7 gennaio 2014 -Cusan e Fazzo c. Italia), l’assegnazione automatica del cognome paterno ai figli costituisce ancora una ingiustificata ed incoerente disparità di trattamento tra i genitori in quanto il legislatore italiano non ha ancora  provveduto a ridisegnare il quadro normativo in modo conforme ai principi costituzionali dell’ordinamento interno e dell’ordinamento sovranazionale. E’ da rilevare, infatti, che altri ordinamenti stranieri tutelano anche sotto questo aspetto l’uguaglianza genitoriale dando la possibilità di attribuire ai figli, se lo di desidera, il cognome della madre, del padre ovvero di entrambi non realizzando in questo modo nessun tipo di discriminazione in quanto non esistente nessun aprioristico favor da parte dello stesso ordinamento nei confronti del padre o della madre.

Nel caso Cusan and Fazzo v. Italy, 7 gennaio 2014, la Corte europea dei diritti dell’uomo introduce nell’alveo della gender equality anche the choice of family name and transmission of parents’ surnames to their children. Nella vicenda dei coniugi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo che, non trovando giustizia nel sistema nazionale e avendo esperito senza successo tutti i mezzi di ricorso interni, decidono di rivolgersi per l’appunto alla Corte Cedu. I giudici di Strasburgo nell’accogliere il ricorso ritengono che lo stesso debba essere analizzato avendo riguardo la violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione Cedu, in combinato disposto con l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione stessa in quanto l’articolo 14 non è suscettibile di essere applicato isolatamente.  In relazione all’art. 8 CEDU, la Corte ribadisce che la lettera della norma non richiama espressamente il diritto al nome ma che allo stesso tempo non si dubita che questo debba essere ricondotto nell’alveo della disciplina id est richiamata in quanto il diritto al nome costituisce il segno identificativo e distintivo irrinunciabile della propria identità personalee come tale, non in ultimo, espressione anche dell’appartenenza ad un determinato nucleo familiare. Viene in rilievo, inoltre, che l’appartenenza ad un gruppo familiare, veicolata dal cognome di uno dei due genitori (o entrambi), può essere assolta in modo assolutamente equivalente avendo riguardo a tutte le figure genitoriali e che l’identificazione del figlio con il suo nucleo di appartenenza non sarebbe niente affatto compromessa qualora lo stesso ereditasse il cognome della madre in luogo di quello paterno. L’orientamento dei giudici sovranazionali è, inoltre, retto da ulteriori strumenti convenzionali di diritto internazionale aventi ad oggetto il divieto di discriminazione e la parità dei sessi. Il riferimento normativo più significativo è senza dubbio costituito dalla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall’Assemblea delle Nazioni unite e ratificata in Italia con la legge del 14 marzo del 1985, n. 132 ovvero la CEDAW (Convention on the elimination of all forms of discrimination against women), in particolare l’articolo 16, co1, lettera g che recita: “Gli Stati Parti prendono ogni misura appropriata per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari e in particolare assicurano, sulla base della parità dell’uomo e della donna gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compreso il diritto alla scelta del cognome, di una professione e di un impiego”.

La Corte Cedu, pertanto, invitava l’ordinamento interno all’adozione delle misure e delle riforme necessarie per l’adeguamento dello stesso all’orientamento dei giudici sovranazionali in base all’art. 46 della Convenzione Cedu, con la richiesta di colmare il vuoto legislativo esistente e quindi riconoscendo espressamente la facoltà ad entrambi i genitori indistintamente di trasmettere il proprio cognome ai figli nati sia all’interno che al di fuori del matrimonio.

Al contrario, invece, nel 2016 la Corte Costituzionale, con la sentenza n.286 del 21 dicembre 2016, è intervenuta, nuovamente, sulla questione dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’automatica attribuzione del patronimico nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere anche il cognome materno ab origine ai figli. Viene pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno; dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno; ancora, dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.

All’alba della sentenza costituzionale n.286/2016, non seguendo ancora alcun intervento da parte del legislatore volto ad assicurare la parità dei genitori nella scelta del cognome, è intervenuta la circolare del Ministero dell’interno n.1 del 19 gennaio 2017 in cui si scrive: “Con la richiamata pronuncia e dal giorno successivo alla sua pubblicazione, viene definitivamente rimossa dall’ordinamento la preclusione, implicita nel sistema di norme delibate dalla Corte Costituzionale, della possibilità di attribuire, al momento della nascita, di comune accordo, anche il cognome materno. L’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale è immediata per cui, in attuazione della pronuncia, sostanzialmente innovativa della disciplina della materia di che trattasi, l’ufficiale dello stato civile dovrà accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendano attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o al momento dell’adozione. Si pregano le SS.LL. di portare a conoscenza dei Sigg. Sindaci quanto sopra rappresentato, sollecitando le opportune direttive agli uffici di stato civile per la puntuale applicazione dei principi di diritto affermati nella richiamata sentenza della Corte Costituzionale”.

In attesa di un tempestivo intervento del legislatore volto a garantire l’eguaglianza delle donne anche sotto il profilo della trasmissione del nome di famiglia e soprattutto volto a disciplinare definitivamente la materia in oggetto non ancora chiara in tutti i suoi profili, attendiamo le motivazioni della Consulta.

Tag: femministe, il cognome materno, cognome paterno

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