Gli echi virgiliani nella Commedia dantesca

Arte, Cultura & Società

Di

di Stefania Romito

Il III canto dell’inferno dantesco si apre con un ammonimento minaccioso scritto sulla porta dell’inferno, designato con gli attributi della Trinità: potenza-padre, sapienza-figlio e amore-spirito santo: Per me si va ne la città dolente… voi ch’intrate.

L’ingresso dei due viaggiatori (Dante e Virgilio) è subito accolto dalle urla di un’anonima folla. Sono gli ignavi che non hanno mai preso posizione nella vita, e sono esclusi perfino dall’inferno, condannati a correre dietro una bandiera sotto lo stimolo di vespe e mosconi, versando sangue e lacrime, raccolti in terra da vermi. Questo trattamento viene riservato anche a Papa Celestino V, qui designato come colui che fece per viltate il gran rifiuto.

Anonime restano per ora anche le anime che si affollano sulle rive di un fiume immerso nelle tenebre, l’Acheronte, per essere traghettate dal nocchiero Caronte: sono i primi elementi che Dante trae dal VI libro dell’Eneide, con echi precisi nella descrizione del vecchio, bianco per antico pelo, divenuto però ora, come strumento della punizione divina, un demonio con occhi di bragia, che vorrebbe cacciare l’anima viva di Dante ed è placato da Virgilio con una formula che verrà ripetuta più volte in occasioni simili: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare».

Ma Dante non sale sulla barca infernale, sviene per un terremoto e un lampo accecante e al risveglio si ritrova dall’altra parte del fiume.

Nel primo cerchio vi è il Limbo, una zona intermedia in cui si trovano i non battezzati e i pagani onesti. Novità assoluta, rispetto alla tradizione cristiana, è la distinzione concessa agli spiriti magni, specie dell’antichità, di abitare in un nobile castello, l’unico sito luminoso dell’inferno. Virgilio, che ha lasciato quel luogo per venire in soccorso di Dante, ritrova i suoi compagni poeti: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Dante si sente parte di loro: «Sesto tra cotanto senno». Si esalta nel vedere gli autori prediletti (Aristotele, Platone, Cicerone, Seneca), gli eroi del mito (Ettore ed Enea), i grandi filosofi arabi (Averroè) e perfino il Sultanto d’Egitto, celebre per prodezza e cortesia.

Dopo questa sorta di oasi, la discesa nel secondo cerchio fa di nuovo appello al modello virgiliano. In primo piano vi è la figura del terribile giudice infernale: Minosse (nel mito classico, re di Creta) il quale decide la collocazione di ogni dannato in uno degli otto cerchi successivi al Limbo, segnalandola con i giri della sua  mostruosa coda.

Siamo di fronte alla prima schiera degli incontinenti, i lussuriosi: il peccato meno grave, in questa prima categoria rispetto ai successivi. Dal terzo al quinto cerchio si scontano i peccati di gola, avarizia, prodigalità, ira, accidia, più lievi rispetto ai peccati di eresia, violenza e frode, rispettivamente puniti nel sesto, settimo, ottavo e nono cerchio.

Al centro del V Canto vi è l’incontro con Francesca da Rimini e il cognato Paolo Malatesta, il quale lascia la parola alla donna amata, riservandosi solo una feroce battuta (Caina attende chi a vita ci spense) nei confronti del fratello Gianciotto, marito di lei, che li sorprese insieme e li uccise. Dante non ci illumina sui particolari di questo fatto di cronaca nera, bensì sui segreti dell’anima di questa donna e ci tiene a chiederle quale sia stato il momento della rivelazione di quella passione che segnò le loro sorti per l’eternità. La risposta di lei fu il romanzo francese di Lancillotto e Ginevra, in cui il principe Galeotto fa da intermediario fra i due innamorati.

Si noti come l’amante reale baci, tremando di emozione, una bocca; mentre l’amante del libro bacia un disiato riso, quasi il bagliore di gioia che vibra sulle labbra di Ginevra. Secondo la definizione che di riso e di ridere ci offre Dante nel “Convivio”.

Ancora al modello virgiliano ci si deve appellare per la descrizione di Cerbero che apre il VI Canto, anche se la fiera crudele che “caninamente latra sui golosi” mostra virtù plastiche ignote al descrittivismo pittorico di Virgilio; ma poi l’incontro con Ciacco ci riporta al mondo contemporaneo, a Firenze straziata dalle fazioni, alla profezia sulla vittoria dei Neri, né stupisce che Dante chieda notizie sui grandi fiorentini di cui non conosce la sorte. Il brano lascia intendere quanto Dante provi una sorta di venerazione per i magnanimi fiorentini della generazione precedente.

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