Nient’affatto buono lo stato di salute delle democrazie occidentali. Al di là dei problemi specifici di ciascun Stato-nazione, dall’Europa agli Stati Uniti appare evidente come le classi politiche stiano da decenni subendo un processo di livellamento verso il basso, sia in termini di capacità e competenze, sia in termini di moralità. Corruzione e scarso senso del bene comune ammorbano le nostre democrazie. Chiariamoci un po’ le idee. Anzitutto ricordiamoci che i sistemi politici nei quali viviamo sono l’esito di un intreccio, a lungo virtuoso, tra gli istituti di garanzia previsti dalla dottrina liberale e gli istituti miranti all’inclusione secondo quanto rivendicato dalle teorie democratiche.  

Per sviluppare la mia riflessione prendo spunto da alcuni scritti di Francesco Maria De Sanctis, storico e filosofo del diritto, classe 1944, il quale propose alcuni anni fa un originale ripensamento ab imis del liberalismo contemporaneo. Si tratta di un tentativo,molto serio quanto arduo, di rianimare le nostre democrazie in crisi riconsiderando quel liberalismo oggigiorno sovente frainteso e piegato a mera ideologia al servizio del capitalismo finanziario. Un tentativo necessario, come è necessario ripensare categorie politologiche consunte dalle grandi trasformazioni che la fine del bipolarismo mondiale Usa-Urss, da un lato, e la rivoluzione della tecnologia digitale, dall’altro, hanno prodotto negli ultimi trent’anni. 

Occorre rintracciare alcuni elementi costitutivi della teoria liberale andati perduti nel connubio liberal-democratico realizzatosi in Europa nella seconda metà del Novecento. Un connubio di cui non si nega l’originaria virtuosità e fecondità. Oggi però non si può non constatarne la sopravvenuta sclerosi. Un’involuzione, persino. Può tornare utile fare riferimento al liberalismo anti-democratico,

“quello che vede nella democrazia una deriva storico-politica che va arginata, dominata e corretta in vista di una giusta ripartizione di oneri e responsabilità politiche che non possono competere a tutti e che, allo stesso tempo, non sono “privilegi” ma doveri imposti dalle stesse capacità e competenze che distinguono”. 

Prendiamo in esame alcuni lemmi e sintagmi greci, presenti in testi significativi dell’epoca della crisi della democrazia antica, per cogliere nei loro significati originari tutta quella complessità che il pensiero moderno ha rimosso od occultato. Si è persa la deontologia inerente a quei lemmi e sintagmi. Scopo di questa operazione intellettuale non è archeologica, disseppellire reperti linguistici e semantici per lo sterile gusto dell’erudizione; nemmeno per concludere che gli antichi sono superiori ai moderni, affermazione tanto roboante quanto astratta e inconcludente. Occorre piuttosto problematizzare la tradizione moderna ed è così che un ritorno agli antichi può produrre risultati benefici. 

Qual è l’essenza dell’antichità, specialmente greco-latina? La dimensione aristocratica. Si rimette così in circolazione la locuzione “liberalismo aristocratico”, storicamente non troppo distante, dal momento che tale locuzione può essere senz’altro adottata per indicare la riflessione di autori come Constant, Guizot o Tocqueville. Quest’ultimo, va precisato, era convinto che aristocrazia e democrazia fossero radicalmente antitetiche e che l’una fosse destinata a soppiantare l’altra. Ma il liberalismo?

Del grande pensatore normanno si possono recuperare alcuni suggerimenti metodologici come quello che invita a distinguere fra nobiltà e aristocrazia. Quindi risaliamo indietro fino a Platone, per lavorare intorno all’idea di competenza intesa come “capacità più scienza”. È a questa che si riduce il concetto liberale di aristocrazia qui proposto: un’aristocrazia che dunque non ha niente a che vedere con l’elogio della nobiltà, né quindi con la discriminazione per nascita o per censo. Qui sta la differenza rispetto allo stesso liberalismo del primo Ottocento. Una “riduzione” che non sminuisce. Semmai una riconfigurazione adeguata e una riattualizzazione a fini pratici.  

Si tratta insomma di elaborare materiali concettuali da proporre alla teoria democratica contemporanea. Questa potrebbe giovarsi del contributo di un liberalismo anti-democratico nella misura in cui questo agisce, per così dire, da “depurante” e “corroborante”. Non a torto De Sanctis sottolineava come dietro espressioni più rassicuranti quali “élite”, “classe dirigente”, “classe politica” e simili, si celi un sottile desiderio, una velata nostalgia, per una richiesta di leadership che sia al contempo virtuosa e generosa, esercitata al meglio grazie a capacità e competenze “superiori”. Capacità e competenze tali da non indurre il leader a perseguire mere ambizioni personali e a mostrare arroganza, dovendo restare il fine primo ed ultimo del governo la “cosa comune”, la res publica. L’essere “migliore” non consiste infatti nel solo possesso di qualità personali al di sopra della media dei propri concittadini. I “migliori” risultano coloro che sanno imporre a se stessi l’obbligo di guardare più al servizio che al potere. Ciò richiede, scriveva De Sanctis, «la difficilissima autovalutazione della propria attitudine alla serietà radicale della vita politica, dovendo decidere di considerarsi pronto e preparato a governare gli altri». 

Poco importa che non sia stato esattamente così nelle poleis greche o nella respublica romana, poco importa che l’aristocrazia non sempre abbia saputo impersonare un virtuoso mescolarsi di superiorità e generosità, di forza e altruismo. Quel che conta è che da un’epoca e dal suo pensiero più elevato si possano ancora ricavare modelli di comportamento e ideali regolativi della ragion politica contemporanea. De Sanctis osa e afferma: 

“proprio il rispetto assoluto che si deve alla democrazia moderna per quanto, nonostante le promesse non mantenute, è riuscita a realizzare contro tutti i suoi nemici e contro tutti i suoi mali genetici o acquisiti, impone, nella crisi che attualmente attraversa, una riconsiderazione umile e perciò radicale del principio che la governa: l’eguaglianza”.                  

Non si contesta il valore dell’eguaglianza, ma la sua efficacia come principio che aiuti a scegliere la decisione più fruttuosa per la comunità. Se ne mette in discussione la pertinenza all’interno del meccanismo di attivazione di una qualsiasi decisione politica, che riguardi cioè il destino comune. L’eguaglianza mantiene, e anzi deve recuperare, quel che ne costituisce l’essenza ai fini di una “ottima repubblica”: l’essere valore e sentimento, quindi potenza che smuove la società favorendone l’amalgama, spingendo tutti e ciascuno dal basso verso l’alto, rimettendo costantemente in gioco la partecipazione alla vita comune, ribadendo che la politica è vita in comune. È a questo punto del ragionamento che va introdotto l’unico correttivo legittimo della teoria democratica contemporanea, un correttivo che sia ad essa «interno», giammai alternativo. Occorre infatti rimettere in discussione la convinzione secondo cui la partecipazione di tutti si traduca automaticamente nel riconoscimento a priori, senza necessità di prove, della capacità di tutti a governare la vita comune. Se il problema del governo politico consistesse soltanto, come oggi si crede, nell’interpretare le esigenze e gli interessi “reali” della comunità, allora la valutazione di cosa sia “interesse” per gli uomini e le donne potrebbe anche essere reputata facoltà largamente diffusa, se non di tutti. Ma la questione è un’altra: siamo tutti soggetti in grado di assumersi la responsabilità politica, ovvero di governo? 

Scuola di Atene di Raffaello

La domanda trova fondamento nel fatto che questa specifica responsabilità richiede la capacità di occupare una posizione all’interno di una gerarchia che è tale perché definisce per ciascun ruolo una serie di funzioni. Queste devono essere espletate pena deperimento dell’intero che è composizione armonica – cioè articolata in modo da essere operativa e funzionante al meglio – di tutti quei suddetti ruoli. Gerarchia è qui sinonimo di “classi dirigenti”, vertice della struttura che articola la convivenza umana (in città, regioni, nazioni, ecc.). Senza la partecipazione anche di una sola di queste parti funzionali, la gerarchia si tramuta in oligarchia, diventa cioè un corpo separato e autoreferenziale rispetto al resto della società. E se in condizioni di liberal-democrazia “aristocratica” tutti i cittadini, anche se non-governanti, godono di diritti civili di libertà, e in questo sta l’eguaglianza garantita. Invece in un regime oligarchico anche la fruizione delle libertà rischia di contrarsi sensibilmente. 

L’armonia di cui stiamo parlando a non ha niente di pericoloso, non evoca inquadramenti totalitari, ma rimanda anche stavolta al significato greco di isonomiaArmonia è salute del corpo, come insegnava Alcmeone; è segno che si è riusciti ad addomesticare il conflitto del due, del molteplice, a mettere in connessione tutte le “parti” dell’anima (concupiscibile, irascibile, razionale, secondo Platone). Tale armonia costituisce il “buon carattere” di cui parlava Eraclito: essa è a un tempo frutto di en-ergeia (la prestazione interiore isonomica: in grado cioè di dare a ciascuno ciò che gli spetta) ed eu-praxia (l’agire orientato alla realizzazione in comune del bene). Com’è noto, per Platone e gran parte del pensiero greco antico, se ben riuscito è l’uomo, ben riuscita sarà la città, e viceversa. Per gli antichi greci “vivere bene” è qualcosa didiverso da un semplice soddisfacimento delle proprie pulsioni, da una prolungata rimozione di fatica e sofferenza. Non a caso si preferisce oggi discorrere di “benessere”. “Vivere bene” comporta per ogni essere umano – che è bios, ossia vita caratterizzata – corrispondere in modo il più possibile adeguato al proprio specifico paradeigma che ogni bios incorpora. “Vivere bene” significa “prendere e darsi forma nella fedeltà al proprio paradeigma”, scriveva De Sanctis; quindi è ideale che non ha niente a che vedere con l’utile dei moderni e semmai prescrive l’inserimento del singolo nella comunità più vasta dei concittadini.  ​  

Un’ultima considerazione. Alla base di ogni ripensamento e possibile rifondazione della vita politica contemporanea stanno ripensamento e rifondazione della vita stessa, o meglio dell’idea di “vita”, di “uomo”, di “carattere”, di “felicità”. La politologia chiede soccorso all’antropologia, così come il timoniere della nave chiede uno sforzo nuovo e ulteriore ai suoi rematori. Per Platone la vita individuale ben realizzata, l’eudaimonia, “si configura come un dovere; anzi il dovere per eccellenza”. La felicità è il termine con cui si è soliti tradurre eudaimonia, ma così si rischia di fraintendere il messaggio platonico, avvicinandolo piuttosto a quello aristotelico. Per dirla in termini platonici e greco-antichi, l’individuo felice è colui che è ben nato e che ben conduce la propria vita,è colui che investe nella “solerzia quotidiana della buona prassi”, colui che modella se stesso in vista di un modello ideale di “buona vita” (eu zen). Ma cos’è mai questo bene

È semplicemente (si fa per dire!) il senso della misura e dell’equilibrio che si può avvertire là dove si percepisca la propria vita come un compito, che sarà tanto più lieve e persino piacevole quanto più solerte sarà l’impegno profuso. Solerte, ma anche fedelea un paradigma che potrà scorgere soltanto colui che prenderà atto di come il singolo individuo e la comunità non possono procedere separatamente, ignorandosi o, peggio, combattendosi. Inteso in termini platonici, il “bene” possiede un connotato specificamente antimoderno, dal momento che la vita è altra cosa da mera materia organica solo e soltanto se inserito in una gerarchia di bioi, di altre vite a loro volta caratterizzate. Una gerarchia che è struttura di vertice di una comunità, ovvero la polis, associazione organizzata di vite umane. La prestazione richiesta da una vita buona e giusta è pertanto duplice: verso l’interno della propria anima e verso l’esterno delle relazioni con gli altri, senza cui non può nascere una buona prassi.    

Qui si attinge, è evidente, ad un universo filosofico ed etico antico mai assimilato dalla modernità. Pertanto l’obiettivo è intravedere nella contrapposizione tra antico e moderno le lacune e gli impoverimenti patiti dalla nostra attuale filosofia morale e politico-giuridica. Ecco perché il tornare a Platone, nei termini qui indicati, può comportare un rilancio nel futuro. Può riaccendere la speranza che il domani non sia per forza peggiore dell’oggi, secondo quanto ci induce a pensare un ormai diffuso scetticismo che rischia di paralizzare la nostra attività civica e di asfissiare così le democrazie occidentali. Facciamo in modo che un pensiero rigenerato restituisca alle nostre vite politiche un respiro regolare e profondo.