di Claudio Gentile
Con una cerimonia nella Cattedrale di Agrigento il “giudice ragazzino” Rosario Livatino è stato proclamato Beato. È il primo magistrato nella storia della Chiesa Cattolica a giungere agli onori degli altari. La sua festa liturgica è stata fissata al 29 ottobre di ogni anno.
A presiedere la cerimonia, a nome del Papa, il Cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Non essendo stato esumato il corpo dalla cappella di famiglia, come reliquia sull’altare è stata esposta la camicia che il magistrato siciliano indossava al momento dell’assassinio. Gli organizzatori hanno scelto la data odierna perché il 9 maggio 1993 Giovanni Paolo II, durante la messa celebrata nella valle dei templi di Agrigento, pronunciò la ormai famosa frase rivolta ai mafiosi: “Nel nome di questo Cristo che è vita, via e verità, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. Da allora i Pontefici hanno più volte rimarcato questo concetto e condannato la mafia. Papa Francesco, in visita a Cassano allo Jonio, ha detto ultimamente: “Coloro che seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”.
Al termine del processo canonico iniziato nel 2011, il Vaticano ha riconosciuto che la morte di Livatino è un atto di martirio in quanto avvenuta “in odio della fede”.
Rosario Livatino nasce a Canicattì nel 1952 e dopo la laurea con lode in Giurisprudenza a Palermo ed una breve esperienza come vicedirettore dell’Ufficio del Registro di Agrigento, vince, a soli 26 anni, il concorso in magistratura. Lavora prima a Caltanissetta e poi ad Agrigento come sostituto procuratore. Operando in questa sede fu ucciso il 21 settembre 1990 da un commando della “Stidda”, la mafia agrigentina, a soli 38 anni, sulla strada statale che collega Canicattì ad Agrigento. Questi d’altronde erano i suoi due luoghi di vita: Canicattì, città in cui nasce e cresce, anche nella fede con l’impegno nell’Azione Cattolica, vive con i genitori e si riposa, e Agrigento, dove lavora. Livatino si distingue per la sua discrezione, precisione, dedizione al lavoro. A lui vengono affidate importanti inchieste sulla mafia. Per la sua giovane età fu soprannominato “il giudice ragazzino”, anche se alcuni hanno voluto intenderlo in senso denigratorio.
Durante la causa sono emersi vari particolari della sua vita. Nel decreto finale si legge, per esempio: “Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di “Cosa nostra” Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile di Livatino, lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante”.
Livatino non voleva per sé la scorta perché – diceva – “altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia”, così come chiedeva di indagare lui su alcune persone pericolose perché “i miei colleghi sono sposati e hanno dei figli”.
Papa Francesco ha così ricordato il novello Beato durante la recita del Regina Coeli: “Livatino, “martire della giustizia e della fede” [come lo definì Giovanni Paolo II nel 1993, ndr], nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere, si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio, per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà”.
Solo due gli interventi pubblici di Livatino, conosciuto da tutti come riservato e incorruttibile, prima di essere ucciso. In uno di questi disse: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. E ancora: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”. Per lui, quindi, non solo un mestiere.