Israele festeggia i 70 della sua fondazione, 70 anni di guerre, 70 anni senza pace

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In questi giorni Israele festeggia i 70 anni della sua fondazione, 70 anni di guerra, migliaia e migliaia   di vittime innocenti e senza colpa, devastazione dei territori, delle città. incontri internazionali, mobilitazione delle diplomazie di mezzo mondo, mediazioni, proclami internazionali, tregue, semi-tregue, tregue finte; a tutt’oggi, però, la pace sembra essere ancora molto lontana.

Si continua a morire e le bombe sia israeliane che palestinesi non hanno colore e non hanno occhi, non riescono a schivare donne , bambini, anziani.  La Pace sembra essere ancora una chimera, un sogno lungo appunto 70 anni; eppure i territori così sacri e cari alla cristianità tanto da attirare ogni anno milioni di turisti da tutto il mondo suggerirebbero e meriterebbero.

Il raggiungimento di una pace durevole e definitiva. Il conflitto fra Israele e Palestina si è riacceso negli ultimi giorni, riaprendo una vecchia ferita mai richiusa.

L’escalation degli scontri nasce da diversi problemi storici irrisolti, che bisogna affrontare con seria e concreta determinazione se si vuole raggiungere una pace duratura ed è stata favorita dal verificarsi di diversi episodi, avvenuti in occasione di festività che quasi sempre  provocano particolari tensioni. Durante il Ramadan gli israeliani hanno impedito ai giovani palestinesi di andare a fare la preghiera quotidiana nella Città Vecchia di Gerusalemme, nei pressi della Spianata del Tempio, dove c’è la Moschea di Al-Aqsa.

Nel frattempo, hanno anche deciso di espellere alcune famiglie palestinesi dalle proprie case a Gerusalemme est, per mettere al loro posto famiglie di israeliani ebrei. Gerusalemme è una città unica, ma in realtà è divisa in due: Gerusalemme Ovest è abitata da israeliani ebrei, mentre Gerusalemme est è una città araba, abitata da palestinesi, cristiani e musulmani. Le azioni di queste settimane sono parte di un lungo processo di ebraicizzazione e israelianizzazione della città.

Gerusalemme è una città molto complicata, centro fondamentale delle religioni ebraica, musulmana e cristiana (con il Santo Sepolcro, luogo che per i cristiani è ancora più importante della Chiesa della Natività di Betlemme). Quello che è successo in questi giorni è stata la classica  goccia che ha fatto traboccare un vaso già molto pieno. Si sono verificati, infatti, episodi gravi di intolleranza e prepotenza che continuano da più di un secolo a creare tensioni che poi inevitabilmente sfociano prima in rappresaglie e poi in guerra.

Il fenomeno è cominciato alla fine dell’Ottocento, e ha attraversato tutto il Novecento in varie forme: prima, l’impero Ottomano; poi, dopo la Grande Guerra, il mandato britannico; infine, dopo la Seconda Guerra Mondiale è nato lo Stato di Israele. Dei palestinesi oggi non parla più nessuno con particolare insistenza, perché negli ultimi dieci anni ci sono stati altri conflitti nel Medio Oriente che hanno preoccupato il mondo.

Ma i palestinesi sono sempre lì, e oggi ci hanno ricordato che esistono ancora, e che il loro problema, il diritto a una patria, non è ancora stato risolto. Stiamo parlando di Gerusalemme, che è in Cisgiordania. A Gaza c’è un’altra realtà: governano gli estremisti e fondamentalisti islamici di Hamas, convinti nella loro mentalità di poter raggiungere l’indipendenza e uno stato palestinese islamico (sebbene fra i palestinesi vi siano anche molti cristiani) attraverso una lotta armata, lanciando razzi contro Israele, che possiede le forze armate più potenti del Medio Oriente e tecnologicamente fra le più forti al mondo.

È una guerra inutile, che provoca come sempre tantissimi morti, soprattutto fra palestinesi. I palestinesi di Gaza sono al tempo stesso vittime degli israeliani, che chiudono Gaza come una gabbia e la bombardano indiscriminatamente e, nel contempo, vittime di Hamas che lancia razzi provocatori che uccidono anche civili. E’ un conflitto lunghissimo, interminabile, distruttivo anche sul piano psicologico.

Siamo nel XXI secolo, e ancora non si vede una via di uscita. Ed è un conflitto estremamente complesso, che riguarda ben tre diversi problemi che devono essere risolti. Innanzitutto, c’è un elemento nazionalista: ci sono due nazionalismi, quello ebraico e quello palestinese, che rivendicano uno stato. Israele ce l’ha, i palestinesi non ancora. Poi, c’è un elemento etnico: il rapporto fra ebrei e arabi. Infine, c’è un elemento religioso, che un tempo era il meno importante, ma che è cresciuto negli ultimi vent’anni.

Quest’ultimo è il più pericoloso. Quando l’elemento religioso entra in un conflitto, infatti, questo diventa sempre più brutale e difficile da risolvere. Lo scontro è così annoso e radicato che, salvo pochissimi episodi volenterosi e meritevoli, i due popoli oggi si detestano. È subentrato l’elemento della faida. Se gli israeliani arrestano o picchiano i palestinesi di Gerusalemme, allora a Gaza lanciano i razzi. Se gli israeliani uccidono una famiglia con 10 bambini a Gaza, allora si prendono di mira i centri abitati…e così la faida non finisce più.

È estremamente difficile trovare israeliani e palestinesi che siano in grado di accettare e capire le ragioni e la narrativa gli uni degli altri. Ugo Tramballi, giornalista italiano che fa il corrispondente da Israele per diverse testate giornalistiche ha in una interessante intervista sottolineato che: “Io ho seguito tanti conflitti, ma questo è il più complesso. Ed è complesso anche per noi giornalisti. Seguo questa realtà da quando ero giovane, perché da ragazzo andai a lavorare volontario in un kibbutz non lontano da Gaza, che oggi è sotto i razzi di Hamas.

Andai perché, come cristiano ed europeo nato dieci anni dopo la fine dell’Olocausto, sentivo il dovere di espiare le colpe di noi, cristiani ed europei, responsabili di 2000 anni di persecuzioni che sono sfociate nella mostruosità della Shoah. In questo conflitto, come dico sempre ai giovani per spiegarlo, c’è un occupante (Israele) e un occupato (Palestina), e da questo non si può prescindere.

Ma se i palestinesi sono occupati da 70 anni e non c’è una via di uscita, qualche responsabilità la hanno anche loro. Ragionamenti di questo genere di solito non sono accettati né dagli uni né dagli altri. O diventi filo-israeliano o diventi filo-palestinese, altrimenti non sei accettato, e sei criticato e accusato”.

Tanto per cambiare anche questa volta di fronte all’escalation e alle nefandezze del conflitto con tutte le incertezze sul futuro di queste popolazioni si è trovata una tregua (hudna) , grazie alla diplomazia egiziana, che è prevalsa su tutte le altre evidenziato lo scarso appeal diplomatico dell’ Unione Europea  e purtroppo questa volta anche dell’America di Biden, che è rimasta inascoltata . Il vero problema è che si raggiunge sempre e solo una tregua, che garantisce calma in cambio di altra calma.

Ma il problema tornerà, a meno che non si torni a fare come negli anni ’90, durante la fase degli accordi di Oslo, quando ci fu una vera trattativa per la nascita di due stati in pace e in sicurezza, uno accanto all’altro. Due stati per due popoli. Il problema non è solo interrompere questo ciclo di violenze e morti ma trovare una soluzione equa che sia voluta ed accettata dalle parti in conflitto, insomma una sorta di megamediazione  che riapra il dialogo per permettere la nascita di uno stato palestinese.

Finché non nascerà uno stato palestinese accanto a Israele, Israele non sarà mai una società compiuta. Il Sionismo non è altro che il Risorgimento ebraico, e ognuno ha la propria visione della storia, come accaduto anche nel Risorgimento italiano. Gli austriaci ancora oggi continuano a ritenere che Mazzini fosse un terrorista. Il problema, poi, è che Israele si è spostata molto a destra.

Netanyahu ha governato ininterrottamente per 12 anni, e non è mai un bene quando una sola persona governa troppo a lungo in democrazia. E Israele è una democrazia, anche se su base un po’ troppo etnica. In questi anni il paese si è spostato molto a destra, e la destra nazionalista israeliana ritiene che uno stato palestinese non debba nascere, e ritiene il problema superato.

Ma non è così, e i palestinesi ce l’hanno ricordato in questi giorni. La guerra, i razzi di Hamas, i bombardamenti israeliani fanno dimenticare quello che è successo a Gerusalemme. I palestinesi rivendicano il loro diritto a essere liberi, indipendenti, a non essere arrestati e perseguitati, a non vedere le loro terre in Cisgiordania regolarmente erose dalle colonie ebraiche.

È comprensibile che la comunità ebraica romana (che da sempre è più romana dei romani), come le comunità ebraiche di tutto il mondo, sia preoccupata di quello che sta accadendo. In fondo Israele è per loro la realizzazione di un sogno millenario. Ma quello che abbiamo visto la settimana scorsa al portico di Ottavia, con tutto l’arco costituzionale intero schierato , da destra a sinistra, offendono il buon senso e a tanti è sembrato  un fatto disgustoso.

Hanno trasformato una tragedia in corso in un comizio elettorale. Come si sa a Roma in autunno si voterà per le elezioni comunali, e tutti i partiti, bontà loro,  in realtà sono andati a fare un comizio, banalizzando la questione con un’espressione come “Io sto con Israele”. Cosa vuol dire?. E cosa vuol dire “Io sto con la Palestina”?

Noi non stiamo con nessuno dei due. Noi  vogliamo capire, vogliamo aiutare cercando di capire le ragioni degli israeliani e dei palestinesi solo così si possono  indicare delle soluzioni. Per quanto riguarda l’Italia sappiamo che la sua politica estera è quasi inesistente con poca voce in capitolo.  Abbiamo alcuni interessi, ma non siamo in grado di incidere da soli sulla questione israelo-palestinese.

Per l’Italia il paese in cui si gioca un fondamentale interesse nazionale è la Libia: per l’energia che noi compriamo, per la sicurezza (perché è un paese ancora in guerra, anche se al momento si è un po’ calmata), per il rischio di terrorismo, perché la Libia è piena di estremisti dell’Isis o di Al-Qaeda, e infine per la questione dei migranti, che è una questione umanitaria della quale non ci possiamo mai dimenticare, ma che per noi è anche una questione politica.

Sulla questione israelo-palestinese avrebbe un ruolo l’Unione Europea, che è l’unica che continua a chiamare questa vicenda Middle East Peace Process, processo di pace in Medio Oriente, come se questo fosse l’unico processo fondamentale per ottenere la pace nella regione. Ma non è così, e in questi ultimi anni le primavere arabe, le guerre civili, l’Isis, l’implosione della Libia e dello Yemen hanno fatto dimenticare la questione palestinese.

L’Europa ha dunque un ruolo, sebbene Israele consideri i paesi europei, anche per il retaggio passato, responsabili dell’antisemitismo. Gli israeliani sono molto prevenuti nei confronti dell’UE, che pure, rispetto agli Stati Uniti, ha una posizione molto più equilibrata sulla questione.

Ma, visto che gli israeliani sono stati viziati dagli americani che hanno sempre sostenuto soltanto Israele e mai i palestinesi, l’Europa è considerata di parte, filopalestinese. Anche la politica ha esercitato i suoi effetti molto spesso negativi ai fini del raggiungimento di un serio progetto.  di Pace.

Tante promesse prima e durante la campagna elettorale , proclami elettorali tutti conditi di buone intenzioni con la promessa di soluzioni decisive. Tante chiacchere, tant’è che raccolti i consensi molto spesso in nome della pace, della riappacificazione dei due popoli, della disponibilità alle concessioni e riconoscimenti territoriali ma poi niente, men che niente.

E la guerra riprende con il suo carico di lutti e distruzioni. Alle elezioni di marzo Netanyahu forse penalizzato per la sua politica  ondivaga ed incerta  non è riuscito a formare una maggioranza solida. Ci sono state diverse tornate elettorali, e forse si tornerà presto di nuovo al voto.

C’è una specularità tra israeliani e palestinesi anche riguardo al voto. Gli israeliani votano troppo (se si tornerà a votare sarà la quinta elezione in poco più di due anni), mentre i palestinesi, per ragioni gravi e serie, non votano da 16 anni. A qualcuno serve che questo conflitto vada ancora avanti.

Sicuramente le forze armate israeliane vogliono ancora raggiungere degli obiettivi tattici, e distruggere alcune infrastrutture di Hamas per rendere più difficile ricostruire un arsenale missilistico, cosa che però accadrà ancora. Israele non è mai stata capace di sradicare Hamas da Gaza. Per tentare di fermare il conflitto non basta raggiungere la calma, ma bisogna rimettersi a dialogare per un processo di pace vero altrimenti ci troveremo ancora di fronte il solito cane che si morde la coda, ma questa volta la situazione sembra molto seria.

Le popolazioni sono esauste, non c’è pace sotto gli ulivi, l’economia non produce i risultati che dovrebbe pur essendo Israele una Nazione con grandi potenzialità, la dilagante disoccupazione,  l’instabilità sociale e politica, il rischio che  una bomba  ti faccia saltare per aria con tutta la famiglia mentre te ne stai  nella tua abitazione stanno creando le premesse che possono portare ad una rivoluzione civile alimentata sotto sotto proprio da quelle nazioni che sembrano aver messo in campo tutte le strategie diplomatiche possibile  per aiutare israeliani e palestinesi a raggiungere un pace vera e duratura.

Ed è questo il migliore auspicio che possiamo augurare ad Israele ed agli israeliani nei 70 anni della sua costituzione.

 Marcario Giacomo

 Comitato di Redazione de Il Corriere Nazionale

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