di Raphael Faelino LUZON
La guerra dei sei giorni ebbe inizio il 5 giugno 1967 e si annovera nella storia del conflitto arabo-israeliano come il terzo scontro militare. Fu combattuta da Israele contro Egitto, Siria, e Giordania. L’Iraq, l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Algeria appoggiarono con truppe ed armi la fazione dei paesi arabi. Il conflitto si risolse in pochi giorni a favore di Israele che occupò i territori palestinesi; l’esito della guerra influenza ancora oggi la situazione geopolitica del vicino oriente.
“Idbah al Yahud” (sgozza gli Ebrei)!! Con questo grido da far gelare il sangue una moltitudine urlante di migliaia di persone che brandivano asce, torce, coltelli e tutta una serie di armi improprie, invadeva la via dove abitavo.
Da quel momento i manifestanti cominciarono ad appiccare il fuoco ai magazzini di mio padre assieme ai medicinali, ai prodotti di cosmetica e ai profumi che vi si trovavano.
Uno dei magazzini si trovava sotto casa nostra. Noi eravamo a casa, con porte e finestre sprangate. Un fumo nero entrò in casa, ma per paura dei manifestanti non potevamo aprire le finestre. Temendo di morire soffocati, dal momento che il fumo tende ad andare verso l’alto, mio padre ci ordinò di stenderci sul pavimento.
Sperava che vi fosse qualcuno che ci avrebbe alla fine salvati da morte sicura. I manifestanti incendiarono anche i magazzini di un altro ebreo, commerciante in profumi e prodotti di cosmetica; anche dai suoi magazzini si udirono esplosioni.
Faccio qualche passo indietro per spiegare come si è arrivati a tutto questo.
Già da un paio di anni c’era tensione sfociata in una serie di manifestazioni anti ebraiche di studenti universitari del movimento nasseriano sfociati in scontri con la polizia.
Tre mesi prima c’era stata l’espulsione del contingente dell’Onu che divideva Israeliani ed Egiziani alla frontiera con conseguente chiusura dello stretto di Tiran per cercare di strangolare l’economia israeliana. Atto considerato come un casus belli da Israele che viveva quei giorni con un senso di pre annientamento circondato da armate arabe che ogni giorno dichiaravano la loro intenzione di distruggere Israele.
Noi vivevamo nel terrore.
Dopo circa 19 anni di relativa tranquillità e benessere causato anche dal boom economico avuto in Libia grazie alla scoperta di ingenti quantità di petrolio e dove, bene o male, la vita ebraica scorreva senza drammatici sussulti.
Quando ci si incontrava alla Sinagoga ci si scambiava opinioni ed angosce e nessuno sapeva cosa esattamente fare.
Tutti erano abbastanza legati al loro business e come succede spesso agli Ebrei, pochi o nessuno ha annusato il pericolo e preso la decisione di scappare prima della tempesta. Facevamo parte della Collettività italiana che era divisa tra Cristiani ed Ebrei.
L’inizio dei disordini, un vero e proprio pogrom, sono stati addebitati allo scoppio la stessa mattina della “guerra dei 6 giorni”, tra Israele ed eserciti arabi.
Posso garantire che almeno tre mesi prima c’erano voci e sussurri che si stava preparando un “qualcosa” contro gli Ebrei.
Dal barbiere al farmacista dove ci servivamo continuavano a dircelo a mezza bocca.
Il giorno antecedente al 5 Giugno i nostri servitori ci hanno annunciato che non sarebbero venuti il giorno dopo…
Alcuni di loro erano in lacrime come presagendo (o sapevano??) che non ci avrebbero più rivisti.
Quindi il Pogrom era stato programmato prima e lo scoppio della guerra è stato solo l’alibi.
Il cinque di giugno era il primo giorno degli esami finali nella nostra scuola media. Avevo 13 anni. In quei giorni, come ho detto prima, avevamo avuto sentore dai nostri amici e conoscenti di continue minacce.
La mattina eravamo a scuola nel mezzo dell’esame, quando Padre Anselmo, religioso italiano e direttore della scuola, entrò in classe, nel panico. Sentimmo il tumulto di voci per le strade che urlavano di massacrare gli ebrei. Egli disse agli alunni ebrei di scendere con lui nell’ufficio del direttore.
Capimmo che stava succedendo qualcosa di strano, in particolare agli ebrei.
Nell’ufficio egli ci raccontò che era scoppiata la guerra tra gli arabi e lo Stato d’Israele, e che in Libia erano in atto violente dimostrazioni contro Israele e contro gli ebrei locali.
Lo ascoltammo attoniti e imbarazzati, dopo tutto la guerra non era in Libia, perché allora si verificano tali fatti da noi? Che colpa ne avevamo?
Mi percorse un pensiero sconsiderato…” stavamo sfangando gli esami!”
Il direttore si mise in comunicazione con genitori di cui aveva il numero di telefono, per farli venire, portarci a casa, e proteggerci da qualunque attacco.
Alcuni religiosi li aiutarono, portando a casa in salvo i bambini che nessuno dei familiari era venuto a prendere, ma nessuno portò via né me, né mia sorella perché messisi in contatto con mio padre al negozio non avevano ottenuto risposta. Mio padre, assalito nel negozio da alcune persone, era fuggito lui stesso, rifugiandosi in casa.
Scorgemmo allora una persona religiosa che lavorava in sinagoga, lo chiamammo ed egli ci accompagnò a casa.
La marmaglia assalì i negozi di Ebrei e vi appiccò il fuoco. Noi ragazzi eravamo terrorizzati. I dimostranti urlavano slogan per mezzo di grandi altoparlanti – inneggiando a Abd el Nasser, il leader egiziano, incitando ad uccidere gli ebrei. Eravamo stupiti. Dopo tutto eravamo bambini e non conoscevamo la politica, né sapevamo nulla di Israele o della guerra.
Giungemmo alla nostra strada, era stracolma di manifestanti, che incendiavano e picchiavano. Nella zona si trovavano otto negozi di ebrei, e tra questi i tre negozi/magazzini di mio padre.
Appena giunti a casa e sbarrato il portone, i dimostranti giunsero alla nostra strada. Non riuscirono ad aprire il portone dell’edificio, nonostante fosse un normale portone in uso in Libia e facile da aprire. Sono convinto che Dio ci protesse, perché sarebbe stato possibile aprirlo solo con una leggera spinta.
I manifestanti continuavano a percuotere il portone della nostra casa, e non avevamo alcun dubbio che ci avrebbero massacrati.
La situazione rimase immutata finché giunse una forza di polizia speciale che disperse le persone. In seguito, udimmo battere alla porta.
Temevamo per la nostra vita e non rispondemmo, né aprimmo il portone; non osammo perfino avvicinarci. Poi sentimmo la voce dell’ufficiale, un alto ufficiale che mio padre conosceva. Egli si identificò, calmò mio padre e disse che i manifestanti erano stati allontanati e che era possibile aprire il portone.
Mio padre continuò ugualmente a temere, e il portone rimase chiuso. Egli chiese all’ufficiale di aprirla lui stesso e di entrare. L’ufficiale aprì e salì al nostro appartamento.
Egli ci calmò e disse a mia madre di guardare dalla finestra. Fuori si trovavano ingenti forze di polizia venute per difenderci e mettere in salvo noi e gli Ebrei. In seguito venimmo a sapere che la forza mobile era stata mandata dal re per proteggere gli ebrei, senza far uso della forza contro i dimostranti.
L’ufficiale chiese a tutti noi di uscire e ci portò alla Piazza del Municipio.
Là vedemmo una scena strana: la polizia ci circondava da ogni parte, e dietro i cordoni della polizia c’erano i manifestanti che ci maledicevano ed insultavano per il fatto che eravamo ebrei. Il numero di manifestanti raggiungeva, a mio avviso, le decine di migliaia. Tutta la città si era raggruppata là!
Al momento dell’assalto a noi e ai magazzini, vi fu anche chi assalì la Sinagoga per incendiarla. Per la storia, è importante ricordare che vi furono persone che costituirono un esempio di libici buoni, e soprattutto un notabile libico, nostro vicino.
Prima ancora che apparisse la polizia, egli cominciò a respingere le persone da fronte alla Sinagoga, gridando e vietando loro di incendiare il luogo, destinato al culto di Dio. Egli vietò loro anche di terrorizzarci, perché eravamo famiglie con bambini piccoli.
In Piazza del Municipio la polizia cominciò a farci salire su grandi veicoli coperti da un telone per farci allontanare dal posto, e in genere da Bengasi. La polizia ci ordinò di non aprire o sollevare il telone, per evitare che ci ferissero con pietre o altro.
Salimmo su quei veicoli unicamente con i vestiti che indossavamo, senza prendere null’altro. Noi bambini ci ostinavamo a sollevare il telone per osservare cosa stava succedendo fuori. Vedemmo bruciare tutti i negozi i cui proprietari appartenevano alla nostra comunità. Il 99% dei negozi venne bruciato.
Ci alloggiarono temporaneamente presso la centrale di polizia di Bengasi. Il comportamento nei nostri confronti era buono e gentile, e ci servirono tè e caffè.
Ma poi ci giunsero nuovamente le voci dei manifestanti.
La manifestazione si stava sempre più avvicinando, e vedendo che anche gli ufficiali e i poliziotti, nonostante avessero armi e mezzi di protezione, erano impauriti e tesi, la nostra paura crebbe ancor più di quella che avevamo provato a casa.
La dimostrazione era grande e la polizia era in tensione per via dell’ordine di non aprire il fuoco.
I manifestanti, oltre a bastoni, pietre, asce e armi bianche, non avevano armi da fuoco. Nella centrale di polizia eravamo in quattrocento. Gli ufficiali ci ordinarono di salire nuovamente sui veicoli e ci evacuarono velocemente per farci fuggire disperdendo le persone.
Ci trasportarono in un campo di una base militare libica fuori di città, dicendoci che il luogo era più sicuro. Ci portarono letti e brandine da campo, e nonostante non avessimo mangiato tutto il giorno, ci servirono solo tè, caffè e latte.
Si giustificarono dicendo che erano occupati a disperdere le manifestazioni, si scusarono di non averci fornito cibo, e promisero che l’avrebbero fatto l’indomani.
(continua…)
Raphael Luzon ©
Corrispondente Progetto Radici Londra Inghilterra
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