Giornalismo e salotti italici

Arte, Cultura & Società

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Ancora una volta il pasto per gli avvoltoi è servito.

Dimenticato il nome della vittima precedente, il rito si ripete e sui social tutti  in toga si ritrovano pronti ad emettere giudizi e sentenze, incentivati dallo squallore televisivo che nulla ha più di giornalismo. Indignati commendatori ed improvvisati giornalisti d’inchiesta fanno salotto sperperando soldi pubblici. Ospitate a suon di quattrini e direttori della carta stampata unitamente ai vari alfieri della società e dello spettacolo si trasformano in giustizieri, investigatori ed inquirenti, in uno scambio di diverse opinioni orchestrate da chissà quale agenzia e con chissà quali fini. Un intreccio tra la spazzatura  televisiva e la scienza di quei social che hanno concesso impropriamente a tutti di diffondere ignoranza, insulti e fake. Un universo allarmante che ci racconta la crisi della televisione generalista classica, la degenerazione del processo mediatico che ha allestito un campo di battaglia in uno scenario di devastazione per trasferire sofferenza segmentata da spazi pubblicitari pletorici. Femminicidi, morti in mare, bambini e guerre, diventano la forza dello sciacallaggio mediatico di vespasiana memoria, grazie al lavoro degli inviati speciali che ci raccontano quel che la dittatura dello spot reclama per far si che la notizia diventi un veicolo pubblicitario. Tutto si incastra nell’individuazione del target in quella dimensione dove viene definito target il pubblico a cui è rivolta la comunicazione commerciale e dove  target, tradotto in lingua italiana, significa bersaglio. Pochezza dell’informazione, talk show e politici impreparati che incalzati e sollecitati si espongono al pubblico ludibrio,  imperversano come la crescita batteriologica in una condizione ambientale ottimale dettata dalla stupidità umana, risse verbali e diseducazione diventano spettacolo, interrotti dal “dobbiamo andare in pubblicità”, di quel conduttore improvvisatosi indomito arbitro del salotto televisivo.

In tale visione etica della comunicazione si inserisce anche la televisione di Stato, dimenticando di dover assolvere il suo ruolo in libertà e serenità, rappresentativo di una espressione plurale, aderendo alla degenerazione mediatica, attraverso la spettacolarizzazione dei femminicidi che potrebbe, fra l’altro, incidere negativamente sull’imparzialità del giudice. Salotti colpevolisti che assegnano al sospetto lo stigma di colpevole fin dall’inizio delle indagini, onta che poi nemmeno una eventuale successiva assoluzione in giudizio riesce a cancellare. Criminologi, esperti, opinionisti ed a volte anche familiari della vittima scatenano tra i telespettatori una sorta di tifo da stadio tra innocentisti e colpevolisti, che, senza avere alcuna preparazione specifica, valutano le tecniche investigative per giungere ad un verdetto anticipato. Non mancano i volti noti dello spettacolo chiamati a svolgere un ruolo che non gli compete, fino al punto di dover improvvisarsi a fornire pareri, a pagamento, scontati ed ovvi sull’accaduto. Il fine giornalistico non è più informare ed offrire ai telespettatori un servizio di aggiornamento sul caso, bensì cavalcare quella dimensione chiamata “femminicidio ad alto profilo di notiziabilità” e qui potrebbe essere lecito un richiamo sull’esigenza di dover coniare il termine femminicidio, quasi si trattasse di un omicidio più rilevante al cospetto dello stesso reato perpetrato a danno di una donna anziana che viene subito tematizzato come notizia di un “caso individuale privo di forte eco mediatica. A monte c’è sempre un gran lavoro che è servito a quantificare quella parte di pubblico molto interessata ad una rappresentazione spettacolarizzata ricca di elementi macabri, scabrosi e colma di mistero e pertanto si può affermare con certezza che il modo, improntato sul sensazionalismo, di riportare e gestire questo tipo di notizie, vandalizzando anche la privacy e  la sofferenza dei familiari, rappresenta quella deriva sociale pericolosa che soddisfa le aspettative di chi, stravaccato sul divano davanti alla tv, si erge a criminologo in pantofole.

Stupisce sicuramente che su tali questioni così delicate, sulla degenerazione del processo mediatico e sulla disumana celebrazione nei salotti televisivi, la magistratura e gli inquirenti tacciano in un silenzio che sa di indifferenza, come di silenzio assenso. I salotti televisivi restano comunque al centro di una critica sempre più diffusa per la scorrettezza con cui affrontano i temi più delicati, ma nonostante tutto questo, il fenomeno purtroppo persiste perché la ricerca dell’audience sembra prevalere sull’etica giornalistica e l’arte del sensazionalizzare trasformando la tragedia in spettacolo, affonda nella più profonda disumanizzazione. L’eccessiva enfasi sulle emozioni forti e gli aspetti più sensazionali delle storie raccontate nei salotti televisivi, oltre ad allontanare il giornalista dalla sua corretta dimensione professionale, contribuisce a una narrazione distorta, trascurando le complesse cause di fondo del fenomeno. Un altro aspetto critico dei salotti televisivi è l’invito frequente di personaggi discutibili, privi di qualunque approccio informativo e responsabile nei confronti di temi trattati, che attraverso la loro spettacolare pochezza sono causa di un impatto negativo sulla percezione pubblica e sulla reale comprensione del problema. Per sanare questa criticità serve l’unità di intenti ed è essenziale che il giornalista impari o riscopra come fare il giornalista a testa alta, non più servo dell’audience e del mercato pubblicitario, ma eticamente professionista della corretta informazione. La sana informazione, rispettosa delle vittime e degli eventi di guerra, senza esibizioni e narrazioni in elmetto, fra spari e scenografiche trincee, svolgerebbe sicuramente quel vero ruolo positivo, costruttivo ed educante che i media sono stati  chiamati ad assolvere responsabilmente fin dalle origini.

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