Suicidio Davide Paitoni: intervista ad Alice Natoli

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Davide Paitoni, il padre che ha ucciso il figlio di soli 7 anni nel giorno di Capodanno nella sua casa di Varese, si è suicidato in carcere.
Gesto estremo commesso l’11 luglio, alla vigilia dell’udienza del processo con rito abbreviato in cui doveva difendersi dall’accusa del tentato omicidio di un collega di lavoro.
Un padre che si macchia di un crimine efferato, immondo, animalesco su chi avrebbe dovuto proteggere a costo della stessa vita.
Paitoni ha tagliato la gola al piccolo Daniele, nascondendone il cadavere nell’armadio insieme ad un biglietto con il quale confessava tutto, in particolar modo il “disprezzo” per la ex moglie.
Vicenda agghiacciante che sa dell’inverosimile e che, per questo motivo, porta a una serie di domande:
E’ giusta la decisione di non sottoporre Davide Paitoni a perizia psichiatrica? Un uomo, un padre, che si è macchiato di un crimine immondo e con tanto di tentavi di omicidio sia prima che dopo simile abominio, e per di più con condotte che annunciavano il suo suicidio come sostenuto dal suo legale? Ma soprattutto, c’è possibilità di recupero per questi soggetti?
Alle presenti domande, in occasione della rubrica “Vittime e
Carnefici”, risponderà Alice Natoli, psicologa e psicoterapeuta.
“La perizia psichiatrica è un dispositivo previsto dall’art. 220 del cpp ed è ammessa quando occorre acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche.
Nell’ambito di un processo per omicidio, la perizia (che è solo psichiatrica) può essere richiesta – dalla difesa – per valutare la non sussistenza della capacità di intendere e/o volere al momento del fatto reato o la non capacità di stare in giudizio.
Nel caso in esame, il legale ha richiesto una valutazione per la presenza di un disturbo paranoide schizofrenico che, secondo la consulente di quest’ultimo si manifesterebbe, nel Sig. Paitoni, come una alterata percezione della realtà e una incapacità di gestire le reazioni.
Corretta percezione della realtà e del valore delle proprie azioni e determinazione ad agire secondo la propria volontà e nel controllo delle proprie reazioni sono fondamento delle capacità di intendere e volere che dunque ne risulterebbero, nel caso dell’omicida, grandemente scemate o escluse.
E tuttavia, il disturbo paranoideo in questione dovrebbe guidare la mano dell’omicida per poter avere un valore in tal senso, ovvero dovrebbe essere presente un disturbo del pensiero di tipo paranoico intorno alla figura della vittima.
Cosa che non sembra avvenire nel caso del Sig. Paitoni (che infatti – nonostante le misure restrittive – aveva la possibilità di vedere il figlio), proprio per le modalità con cui è avvenuto il delitto e le motivazioni da lui stesso addotte.
Il suo comportamento appare, infatti, il risultato di scelte coerenti, intenzionali ed in linea con i propri interessi (punire la moglie che lo stava lasciando anche a scapito della vita del proprio figlio).
D’altronde, stando alle informazioni parziali disponibili, stiamo parlando di un uomo senza precedenti psichiatrici, violento (è stato denunciato dalla moglie per lesioni e minacce, agli arresti domiciliari per il tentato omicidio di un collega e che, dopo aver ucciso il figlio di 7 anni, ha aggredito – nuovamente con un coltello – la moglie), consumatore probabilmente occasionale di cocaina.
Il comportamento violento non sembra risultare da cause psicopatologiche quanto piuttosto da esigenze di dominio e controllo, all’interno di una condizione di intolleranza alle frustrazioni e assenza di reciprocità.
Quanto al suicidio in carcere, il legale ha confermato di non avere avuto sentore di quanto stava per accadere.
Egli parla di una condizione di sofferenza di verosimile significato reattivo e che appare comprensibile se pensiamo al carcere come ad un luogo ostile (soprattutto se sei detenuto per aver ucciso tuo figlio di 7 anni), cui è difficile adattarsi.
Tale azione non deve dunque essere legata alla decisione del gup di respingere la richiesta di perizia psichiatrica il cui obiettivo era quello di determinare la sussistenza o meno delle capacità di intendere e volere.
Venendo infine alla sua domanda sulla possibilità di recupero delle persone che commettono reati violenti, da psicoterapeuta non posso non pensare che il cambiamento sia una condizione sempre ontologicamente possibile, anche e soprattutto perché non è possibile ridurre la personalità di un individuo al reato commesso.
Tuttavia, in presenza di comportamenti violenti si osservano spesso scadenti capacità empatiche (intese nell’accezione di comprensione dell’esistenza di stati mentali ed affettivi altrui distinti dai propri), distorsioni cognitive sulla gravità del fatto commesso e sul ruolo della vittima, disinteresse nei confronti della sorte altrui.
Inoltre, come nel caso del Sig. Paitoni, il comportamento appare sintomo ai propri interessi e, per questo, difficilmente modificabile”.
Personalità violente dove l’empatia sembra più un’utopia che una condotta innata, soprattutto per il proprio figlio che, invece, diventa vittima di un Crono riciclato.
Rita Lazzaro

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