“Così i miei compagni si suicidavano in carcere, erano i più coraggiosi di noi”

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L’ex ergastolano Carmelo Musumeci racconta all’AGI la sua esperienza mentre si avvicina il nuovo record di detenuti suicidi dietro le sbarre

di Manuela D’Alessandro

AGI – Carmelo Musumeci sa cosa significa pensare di togliersi la vita in cella. Sa della notte senza ritorno che ha attraversato la mente dei 70 carcerati che dall’inizio del 2022 lo hanno fatto, un numero ormai vicino al macabro record di morti in un anno dall’inizio del millennio. E crede che, almeno tra chi è destinato a un fine pena mai, “sono i più forti a suicidarsi, i più deboli invece sopravvivono non riuscendo a sottrarsi alla morte al rallentatore che li aspetta da reclusi”.

Lui in carcere avrebbe dovuto starci fino al ‘31/9999′, cioè per sempre. Poi una lunga battaglia, con l’aiuto della Corte europea dei diritti dell’Uomo e della Consulta, l’ha fatto diventare il primo ergastolano ostativo a diventare un uomo libero.

“Allarme rosso!”

Ricorda il grido “allarme rosso!” delle guardie quando qualcuno provava a farla finita. “Io ho passato un quarto di secolo al 41 bis, quindi in cella stavo da solo – racconta all’AGI – ma ho conosciuto tanti compagni che si sono tolti la vita e posso dire, per la mia esperienza, che chi l’ha fatto spesso non lo diceva, mentre chi lo annunciava poi non lo faceva”.

Torna a quella volta, a Spoleto: “Era notte e sentii un forte rumore accanto alla mia cella. Pensai fosse il giovane ergastolano vicino a me che faceva casino ma le guardie iniziarono a gridare ‘Allarme rosso!’, così aprii il piccolo foro che c’è sulla porta blindata, grande giusto per far passare un piatto col cibo, e chiesi: ‘Ivan, ci sei?’. ‘Sì, ci sono, non sono io. È Nicola che si è impiccato’, rispose”.

Allora, prosegue, i detenuti cominciarono a urlare, come accade in questi casi. “Gridavamo ai dottori e agli infermieri di fare presto. Dallo spioncino vidi Nicola sulla barella: il segno sul collo, gli occhi chiusi, il viso da morto ed ero in dubbio se augurargli di salvarsi o di andarsene. Mi sono immedesimato e ho pensato che, se mi avessero salvato, forse mi sarei arrabbiato ma poi pensai che qualche giorno prima avevo visto Nicola in sala colloqui parlare con la madre e la figlia e mi convinsi che si doveva salvare per l’amore della famiglia”.

“In carcere non si ragiona come uomini”

Nicola si salvò ed è ancora in carcere. Il tema del suicidio viene affrontato spesso tra i carcerati. “I giovani ergastolani ne parlano molto, sostengono che invece che invecchiare lì vogliano uccidersi. Penso che il suicidio sia una forma di lotta, io ho sempre difeso chi lo fa e chi ci prova. Un cappio al collo è un modo per attirare l’attenzione. Il carcere è un luogo dove non si ragiona come uomini”.

Ricorda un altro compagno all’Asinara che “non aveva mai dato segni di debolezza e poi lo fece”.

Secondo Musumeci, diventato un testimonial della legalità coi suoi libri e nei dibattiti in cui si confronta anche coi magistrati, “di tanti suicidi non si sa nulla. Molti sono extracomunitari entrati con un falso nome, non si sa nemmeno come si chiamino, altri non hanno famiglie che vogliano sapere come sono morti. E poi ci sono i casi dubbi, persone che muoiono prendendo farmaci o inalando gas: se non ci sono pm illuminati si conclude per la morte naturale. La spazzatura va tenuta sotto al tappeto”.

Pone una domanda sui tanti suicidi di quest’anno: “Com’è possibile che accada nel posto in cui in teoria sei più controllato? Ora si avvicina il Natale, un altro periodo, come l’estate, in cui la nostalgia per le persone care può acuire il disagio. Basta poco a volte per salvarsi. La socialità. Una telefonata, una chiacchierata con un compagno. Il carcere dovrebbe toglierti la libertà, non la voglia di vivere”.

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